La grande frattura
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La grande frattura

La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla

  1. 464 pagine
  2. Italian
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La grande frattura

La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla

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C'è un'enorme frattura che divide il mondo di oggi: quella che separa l'1 per cento ricco dal restante 99 per cento. Un baratro nelle cui profondità si annidano le cause di molti fenomeni politici e sociali che agitano il presente. In queste pagine il premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz affronta, in modo chiaro e accessibile, le dimensioni e l'urgenza della disuguaglianza; le sue cause e le sue conseguenze. Ci mostra gli effetti di scelte economiche irresponsabili che negli ultimi trent'anni, in nome della libertà del mercato, hanno acuito il divario tra ricchi e poveri arrivando a minare le basi su cui si fonda il ceto medio. E propone delle soluzioni. Perché la scelta tra crescita e giustizia non è inevitabile; possiamo immaginare di costruire un futuro che sia piú prospero e insieme piú giusto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858424933

Parte sesta

Politica

In che modo la politica ha contribuito al grande divario economico1

Gli Stati Uniti sono entrati in un circolo vizioso di disuguaglianza e recessione. La disuguaglianza prolunga la crisi, e questa aggrava la disuguaglianza. Sfortunatamente, l’agenda di austerità auspicata dai conservatori aggraverà le cose su entrambi i fronti.
La gravità del problema americano di una disuguaglianza in costante aumento è stata messa in luce dai dati diffusi questo mese dalla Federal Reserve che mostrano l’effetto devastante della recessione sulla ricchezza e sul reddito dei cittadini dei ceti medio-bassi. La diminuzione della ricchezza mediana, calata quasi del 40 per cento in soli tre anni, ha spazzato via due decenni di accumulazione di ricchezza per la maggior parte dei cittadini. Se l’americano medio avesse effettivamente partecipato all’apparente prosperità del paese di questi ultimi vent’anni, la sua ricchezza, anziché ristagnare, sarebbe aumentata piú o meno di tre quarti.
Per certi versi, i dati hanno confermato ciò che già si sapeva, ma le cifre sono davvero spaventose. Sapevamo che i prezzi delle case – principale fonte di risparmio per la maggior parte degli americani – avevano subito un crollo verticale e che migliaia di miliardi di dollari di home equity, ovvero la differenza tra il valore dell’immobile e quello del mutuo, erano stati spazzati via. Ma se non capiamo il nesso fra disuguaglianza e risultati economici, rischiamo di perseguire politiche che li peggioreranno entrambi.
È dall’inizio del millennio che l’America «eccelle» in disuguaglianza, campo in cui ha raggiunto livelli superiori a qualsiasi altro paese avanzato. I dati ci ricordano come una combinazione di politiche monetarie, fiscali e normative abbia contribuito a questi risultati. Le forze di mercato svolgono un ruolo, cosí come accade anche in altri paesi. La politica determina la diversità delle conseguenze.
La Grande recessione ha accentuato il divario, e questo probabilmente prolungherà la crisi. Le persone ai vertici della scala sociale spendono una frazione minore del loro reddito rispetto a chi si trova a livelli medio-bassi ed è costretto a spendere tutto oggi solo per tirare avanti. La ridistribuzione dal basso verso l’alto come quella in corso negli Stati Uniti riduce la domanda complessiva, e la debolezza dell’economia Usa deriva da una domanda aggregata carente. I tagli fiscali approvati dal presidente George W. Bush nel 2001 e nel 2003, pensati soprattutto per i ricchi, si sono rivelati particolarmente inefficaci quanto alla loro capacità di colmare le distanze; addossano l’onere di raggiungere la piena occupazione interamente sulla Fed, che ha colmato il divario creando una bolla per la quale bisogna dire grazie a una regolamentazione troppo permissiva e una politica monetaria poco accorta. E la bolla ha indotto l’80 per cento degli americani delle fasce a piú basso reddito a consumare piú di quanto potessero permettersi. La politica ha funzionato, ma si è trattato di un palliativo temporaneo e non sostenibile.
La Fed non è mai riuscita a capire il nesso fra disuguaglianza e risultati macroeconomici. Prima della crisi, aveva prestato un’attenzione insufficiente alla disuguaglianza, concentrandosi piú sull’inflazione che sull’occupazione. Secondo molti dei modelli in voga in campo macroeconomico, la distribuzione del reddito non aveva importanza. La fiducia riposta dai funzionari della Fed nei mercati liberi da qualsiasi vincolo ha impedito loro di intervenire per porre un freno agli abusi delle banche. Persino Ed Gramelich, ex governatore della Federal Reserve, sosteneva in un autorevole libro del 2007 la necessità di fare qualcosa, ma rimase inascoltato. La Fed non ha voluto esercitare l’autorità conferitale dal Congresso nel 1994 per regolamentare il mercato dei mutui. Dopo la crisi, abbassando i tassi d’interesse – nell’inutile tentativo di stimolare gli investimenti –, la Fed ignorò tanto l’effetto devastante che questi tassi avrebbero avuto sugli americani che si erano comportati con prudenza investendo in titoli di stato a breve termine quanto gli effetti macroeconomici della contrazione dei consumi. I funzionari della Fed speravano che i tassi d’interesse contenuti avrebbero indotto un aumento dei prezzi delle azioni, il che – a sua volta – avrebbe spinto i ricchi azionisti a consumare di piú. Oggi, la persistenza di tassi d’interesse contenuti incentiva le aziende che investono a utilizzare tecnologie a elevata intensità di capitali, per esempio sostituendo i cassieri non qualificati dei supermercati con le macchine. In questo modo, la Fed potrebbe nuovamente contribuire a una ripresa senza creazione di posti di lavoro, quando finalmente la ripresa ci sarà.
Le cose potrebbero peggiorare. L’austerità auspicata da alcuni repubblicani farà aumentare la disoccupazione, con la conseguenza di un ulteriore abbassamento dei salari, vista la concorrenza per accaparrarsi un posto di lavoro. Una crescita piú bassa comporterà un minor gettito fiscale a livello delle amministrazioni locali e, di conseguenza, verranno tagliati servizi importanti per la maggior parte degli americani (fra cui posti di lavoro di insegnanti, agenti di polizia e vigili del fuoco). Si registreranno aumenti delle tasse universitarie. Secondo alcuni dati pubblicati questo mese, il costo medio di un corso di laurea quadriennale in un’università pubblica è aumentato del 15 per cento fra il 2008 e il 2010, mentre continua l’erosione del reddito e del patrimonio di una fascia consistente della popolazione. In questo modo cresceranno l’indebitamento degli studenti e i profitti delle banche, ma anche le difficoltà dei ceti medio-bassi. Alcuni, di fronte alla situazione debitoria dei genitori, non se la sentiranno di aggravarla con un’iscrizione all’università, condannandosi in questo modo a una vita da lavoratori malpagati. Anche a livello del ceto medio, i redditi hanno registrato un andamento allarmante; per gli uomini, i redditi mediani adeguati all’inflazione sono piú bassi oggi che nel 1968. Le opportunità negli Stati Uniti – che tra i paesi avanzati detengono il record negativo sul fronte delle pari opportunità e in cui le prospettive di un bambino dipendono dal reddito e dal grado di istruzione dei genitori piú che nella vecchia e fossilizzata Europa – diminuiranno ulteriormente.
Se ci interessa la ripresa, non abbiamo altra scelta se non quella di affidarci alla politica fiscale. Fortunatamente, una spesa pubblica ben orientata può giovare contemporaneamente all’occupazione, alla crescita e all’uguaglianza. Nuovi investimenti nella scuola, mirati in particolar modo alle classi medio-basse – dagli asili alle borse di studio universitarie dette «Pell Grants» – stimolerebbero l’economia potenziando le opportunità e accelerando la crescita. Investendo una minima parte del denaro che il governo federale ha dato alle banche per salvare i titolari dei mutui underwater (quelli, cioè, per cui il saldo del debito supera l’attuale valore di mercato della casa), oppure prolungando il pagamento dell’indennità di disoccupazione a coloro che da tempo cercano lavoro senza successo, si otterrebbe il duplice risultato di alleviare le difficoltà di chi soffre a causa della recessione e di contribuire a porvi fine. A sua volta, l’accelerazione della crescita incrementerebbe il gettito delle imposte, migliorando la nostra posizione sul fronte del fisco. Molti investimenti si pagherebbero da soli.
Per contro, addentrandoci nei meandri dell’austerità, rischiamo di entrare in una doppia recessione, specie se la crisi europea dovesse peggiorare. Nella migliore delle ipotesi, la nostra crisi durerebbe molti anni di piú di quanto non accadrebbe diversamente e la nostra crescita futura sarà piú debole. Ma la cosa forse piú importante è che il nostro paese sarà sempre piú diviso, e pagheremo un prezzo economico molto elevato a causa della disuguaglianza crescente e della disparità di opportunità. Le conseguenze saranno ancora piú gravi sulla nostra democrazia, sulla nostra identità in quanto nazione delle grandi opportunità e del fair play, e sulla nostra società.
1. In «The Washington Post», 22 giugno 2012.

Perché deve essere Janet Yellen, e non Larry Summers, a guidare la Fed1

La controversia in merito alla scelta del prossimo governatore della Federal Reserve si è fatta insolitamente accesa. Il paese ha la fortuna di poter puntare su un candidato di grande spessore, ossia l’attuale vicepresidente della Fed, Janet L. Yellen. Si teme però che Obama possa preferirle un altro candidato, Lawrence H. Summers. Avendo collaborato da vicino con entrambi per oltre trent’anni, sia in ambito governativo sia fuori da questo, ho le idee piuttosto chiare in merito.
Ma perché, ci si potrebbe domandare, si parla di questo tema in uno spazio generalmente dedicato alla comprensione del divario crescente fra ricchi e poveri negli Stati Uniti e nel resto del mondo? La ragione è semplice: quello che fa la Fed è determinante, piú di ogni altra cosa, per la crescita della disuguaglianza. La bella notizia è che entrambi i candidati in corsa parlano come se avessero a cuore questo problema. Quella brutta è che proprio le politiche caldeggiate da uno dei candidati, Lawrence Summers, sono in gran parte responsabili delle sventure che affliggono le persone piú svantaggiate dei ceti medio-bassi.
La Fed ha responsabilità in materia sia di regolamentazione sia di gestione macroeconomica. I problemi in ambito normativo sono stati la principale ragione alla base della crisi degli Usa. Funzionario del dipartimento del Tesoro ai tempi dell’amministrazione Clinton, Summers è stato tra i paladini della deregolamentazione bancaria e dell’abrogazione della legge Glass-Steagall, due fattori che avrebbero svolto un ruolo determinante nella crisi finanziaria statunitense. Il suo grande «successo» come segretario al Tesoro, dal 1999 al 2001, è stato l’approvazione della legge che scongiurava la regolamentazione dei derivati e che avrebbe contribuito alla bolla dei mercati finanziari. (Aveva ragione Warren E. Buffett a definire questi derivati «armi di distruzione finanziaria di massa». Alcuni responsabili di questi clamorosi errori di politica economica hanno ammesso le «pecche» di fondo delle loro analisi, mentre Summers, che io sappia, non l’ha fatto).
Anche altre crisi del passato sono state provocate da lacune normative. Dalla propria posizione al Tesoro negli anni Novanta, Summers spinse con insistenza alcuni paesi a liberalizzare rapidamente i mercati dei capitali, allo scopo di consentire la libera circolazione dei flussi di denaro senza alcuna limitazione, e questo contro il parere del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca (di cui sono stato presidente dal 1995 al 1997) con il risultato, fra gli altri, di scatenare la crisi finanziaria asiatica. Ben poche decisioni o azioni di politica economica hanno colpa di quella crisi asiatica e della crisi finanziaria globale del 2008 quanto le politiche di deregolamentazione caldeggiate da Summers.
Secondo i suoi sostenitori, sarebbe straordinariamente qualificato per gestire le crisi e, benché tutti speriamo che non ci saranno crisi nei prossimi quattro anni, prudenza vuole che si nomini qualcuno in grado di eccellere nei momenti critici. A ben vedere, Summers si è trovato coinvolto in svariate crisi. Quel che conta, tuttavia, non è semplicemente «esserci» durante una crisi, ma dare prova di buon senso al momento di gestirla. Cosa ancora piú importante è impegnarsi a adottare i provvedimenti giusti per scongiurare una nuova crisi, anziché attuare misure che quasi sicuramente ne scateneranno un’altra.
I comportamenti e le valutazioni di Summers durante le crisi non sono stati all’altezza, come del resto il suo impegno a questo riguardo. A mio avviso, ha sottovalutato la portata dei problemi sia in Asia sia negli Stati Uniti facendo previsioni talmente lontane dalla realtà che non c’è da stupirsi se le politiche si sono poi rivelate inappropriate. I risultati ottenuti da coloro che, al dipartimento del Tesoro, avevano la responsabilità di gestire la crisi asiatica sono stati a dir poco deludenti, visto che sono riusciti a trasformare le crisi in recessioni e le recessioni in depressioni. Quindi, mentre da una parte si salvava il sistema bancario e gli Stati Uniti scongiuravano una nuova depressione, i responsabili della gestione della crisi del 2008 non possono vedersi riconoscere il merito di aver contribuito a una ripresa significativa e solidale. Tentativi raffazzonati di ristrutturare i mutui, l’incapacità di ripristinare l’erogazione del credito alle piccole e medie imprese e la cattiva gestione dei salvataggi sono tutti documentati, nero su bianco, cosí come la mancata previsione della gravità del tracollo economico.
Questi aspetti sono importanti per chiunque abbia a cuore il problema della disuguaglianza, per quattro ragioni. Innanzitutto, le crisi e il modo in cui sono gestite creano in concreto povertà e disuguaglianza. Basti pensare al disastro provocato dalla crisi: la ricchezza mediana è scesa del 40 per cento, i ceti medi non sono ancora riusciti a riportare i loro redditi ai livelli pre-crisi e i facoltosi che rappresentano l’1 per cento della popolazione hanno raccolto tutti i frutti della ripresa (e molti altri ancora). A risentire maggiormente della situazione sono stati i semplici lavoratori, i piú colpiti dalla disoccupazione, dalla riduzione dei salari e dai tagli dei servizi pubblici in conseguenza dell’austerità di bilancio. Sono loro che, a milioni, hanno perso la casa. L’amministrazione Obama avrebbe potuto fare di piú, molto di piú, per aiutare i piccoli proprietari e gli enti locali a mantenere i servizi pubblici (per esempio, applicando il principio della ripartizione del gettito fiscale tra stati ed enti locali da me sollecitato all’inizio della crisi).
In secondo luogo, la deregulation ha contribuito alla finanziarizzazione dell’economia, provocandone la distorsione. Ha concesso ampi spazi a coloro che manipolano le regole del gioco a proprio vantaggio. Come sottolineato con forza da James K. Galbraith, se ci guardiamo attorno, i settori finanziari gonfiati e privi di regole vanno di pari passo con la disuguaglianza. I paesi che, come la Gran Bretagna, hanno emulato la deregolamentazione americana hanno registrato anch’essi un netto incremento della disuguaglianza.
Terzo, l’aspetto piú odioso di questa disuguaglianza indotta dalla deregulation è quello associato alle pratiche illecite del settore finanziario, il quale prospera alle spalle dell’americano medio, attraverso prestiti predatori, manipolazioni di mercato, gestione fraudolenta delle carte di credito, sfruttamento di posizione monopolistica nel sistema dei pagamenti. La Fed ha enormi poteri per evitare questi abusi, addirittura piú di un tempo, a seguito dell’approvazione della legge Dodd-Frank del 2010. Eppure la Banca centrale è spesso venuta meno ai propri doveri di controllo, concentrandosi sistematicamente sul consolidamento dei bilanci delle banche, a scapito del comune cittadino.
Quarto, il problema non è solo che il settore finanziario statunitense ha fatto quello che non avrebbe dovuto, ma anche che non ha fatto ciò che invece aveva il dovere di fare. Ancora oggi, si eroga poco credito alle piccole e medie imprese. Una regolamentazione giusta punterebbe ad allontanare le banche dalla speculazione e dalla manipolazione dei mercati riportandole a quello che dovrebbe essere il loro core business: concedere prestiti....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Ringraziamenti
  5. Crediti
  6. La grande frattura
  7. Prologo. Prime crepe
  8. Parte prima. Le grandi questioni
  9. Parte seconda. Riflessioni personali
  10. Parte terza. Dimensioni della disuguaglianza
  11. Parte quarta. Cause della crescente disuguaglianza negli Stati Uniti
  12. Parte quinta. Conseguenze della disuguaglianza
  13. Parte sesta. Politica
  14. Parte settima. Prospettive regionali
  15. Parte ottava. Rimettere al lavoro l’America
  16. Postfazione
  17. Il libro
  18. L’autore
  19. Dello stesso autore
  20. Copyright