Un giorno perfetto
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Un giorno perfetto

  1. 408 pagine
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Un giorno perfetto

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Informazioni sul libro

Emma e Antonio si sono amati. Ora però, dopo due figli e troppa gelosia, lei cerca orgogliosamente di inventarsi un'altra vita, e lui è deciso a impedirglielo. Maja sembra avere tutto, e invece le manca l'essenziale. Zero vorrebbe cambiare il mondo; Sasha si accontenterebbe di festeggiare l'anniversario con l'amante e l'onorevole Fioravanti di essere rieletto. Per ventiquattro ore le loro storie si incrociano nelle strade di una Roma frenetica e sorprendente, la tensione si accumula e per qualcuno non ci sarà domani. Non un giorno perfetto, nemmeno un giorno qualunque: un'immersione totale nella realtà che ci circonda. Una storia d'amore e disincanto, di scuola e di lavoro, di sogni e di sconfitte, una notizia da prima pagina e uno straziante caso di cronaca nera. Ma, soprattutto, l'anatomia di una famiglia: donne e uomini, padri e madri, figli e figlie, scene da un matrimonio in cui tutti, nel bene e nel male, possiamo riconoscerci.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426067

Mattina

Chi dice le bugie va all’inferno.
DETTO POPOLARE

Settima ora

Amici che siete in ascolto di Radio Globo, sono le sette e trenta minuti. Dove vi trovate, bricconi? Siete ancora a letto? vergogna! Alzatevi, è primavera! la temperatura massima oggi arriverà ai ventitre gradi, la minima ai tredici. Il cielo è coperto ma non piove, perciò su, buttatevi, la vita è bella. Attenzione. È il momento delle canzoni piú votate dagli ascoltatori di Radio Globo. Radio Globo, your radio, wait for me, I’ll be back.
Sasha nascose il viso sotto il cuscino, e non aprí gli occhi. La voce del deejay lo aveva brutalmente strappato a un sogno dolcissimo, che purtroppo non riusciva a ricordare, e che svanendo gli aveva lasciato solo una sensazione di estenuato benessere e un acuto rimpianto. Ma di cosa? O di chi? Parlami | come il vento fra gli alberi | parlami | come il cielo con la sua terra, intonò una voce femminile alla radio. Gli pareva di avere già sentito questa canzone, forse era quella che aveva vinto il Festival di Sanremo. Dimmi se farai qualcosa, | se mi stai sentendo, | avrai cura di tutto quello che ti ho dato. Il sogno non tornò. Purtroppo, non c’era niente da fare, ormai era sveglio. Scansò il lenzuolo e si rizzò a sedere. Infilò le pattine di feltro. La vista del letto per un attimo lo rattristò, perché era un letto virtuoso, con le lenzuola rincalzate, i cuscini sprimacciati. Sembrava non ci avesse dormito nessuno. Tuttavia si sforzò di pensare positivo. Il suo pessimismo influiva negativamente sugli eventi della vita. Un giorno questo sarà il nostro letto. E non mi sembrerà piú cosí vuoto. Siamo nella stessa lacrima | come il sole e una stella.
Sasha cercò il suo coinquilino, Godot, ma il gatto bisbetico si era nascosto. La cuccia era fredda. Riempí la ciotola del latte. Lo cercò, miagolando e gnaulando – sotto il divano, fra gli stipi della cucina, nell’armadio. A volte il gatto si comportava come un marito offeso. E questo non era bello. Quant’è difficile vivere in due. Un’esperienza che non aveva mai condiviso con un altro essere umano. E non per sua scelta. Luce che cade dagli occhi… ascoltami ascoltami.
Si chiuse nella cabina della doccia, ficcò il viso sotto il getto del soffione. Si cosparse di bagnoschiuma, spalmò sulle punte e alla radice la lozione rinforzante contro la caduta dei capelli. Alla radio ascoltò Hot shot di Shaggy, l’annuncio pubblicitario di un concessionario di automobili sulla Tuscolana presso il quale domani tutti avrebbero potuto provare la nuova Honda Stream con sette posti a sedere, Why does my heart feel so bad di Moby, l’invito a recarsi negli ipermercati Eurospin, Play di Jennifer Lopez, Mad about you degli Hooverphonic. Si pettinò, con dolcezza, per non spezzare i capelli – ultimamente parevano di una fragilità estrema. Poi contò quanti ne erano rimasti nel pettine. Cinquantaquattro! Di già! La soglia fisiologica per una normale ricrescita è ottanta capelli caduti al giorno. Lui la superava abbondantemente. La mattina gli ricordava senza indulgenza che non aveva piú vent’anni. Si sforbiciò i peli nelle narici. Ascoltò i Lúnapop cantare non posso piú tornare indietro non conosco la via | non voglio piú tornare indietro e stare senza di te, e le notizie. Il papa è in Grecia per una visita storica. A Pavia è stato arrestato un uomo per aver seppellito la moglie nel giardino di casa: l’amava, la sua giustificazione, non voleva separarsi da lei. In aprile negli Stati Uniti sono stati distrutti 223 000 posti di lavoro, i disoccupati sono al 4,5%, bisogna risalire al 1991 per trovare un simile record negativo, l’aumento della disoccupazione è legato al rallentamento dell’economia d’oltreatlantico. Rupert Murdoch oggi è a Roma per un incontro con Silvio Berlusconi. Sasha stappò il cilindro della schiuma da barba. Sorrise mesto all’uomo che lo fissava stralunato nello specchio sopra il lavabo. «Fatti coraggio, – disse, – oggi hai solo tre ore e domani è sabato». Gli rispose il deejay. Radio Globo, your radio. Amici, è il quattro maggio, venerdí, il giorno di Venere. Si insaponò le guance. Cosa vuole Rupert Murdoch?
Il gatto si fiondò fuori dal cesto della lavatrice – col pelo ritto e la coda rigida come fil di ferro. Il campanello lo aveva spaventato. Stavano suonando. A quest’ora? Con le guance bianche di schiuma e il rasoio in mano, a passi felpati Sasha slittò verso la porta. Nello spioncino vide un pony ultrasessantenne, con un giubbone catarifrangente rosso fuoco e la pelle scura, forse somalo, comunque africano. Anche se non aspettava nessun pacco, Sasha aprí, piú che altro per pietà di quell’uomo che aveva l’età di suo padre e doveva scorrazzare su un motorino come un adolescente al primo lavoro. «Signora Solari?» disse lo straniero, fissandolo con sospetto. «Forse cerca me», precisò Sasha. Lo sguardo imbarazzato dell’altro gli ricordò che era nudo e insaponato. «Devo consegnare questo». Un gigantesco cesto di tulipani blu, talmente voluminoso che nemmeno passava dalla porta.
Tulipani blu. Sasha si scansò, e lo straniero – guardandosi intorno indeciso – trascinò penosamente il cesto al centro della stanza. Sasha gli disse di lasciarlo pure accanto al divano. Consapevole di non riuscire a celare la sua ebete felicità. Il vecchio pony, scandalizzato dall’indecenza degli abitanti di questo paese perverso, rinculò in fretta verso la porta rimasta aperta e scomparve. «Tulipani blu, – tubò Sasha al gatto, – wow!» Dimenticandosi completamente della schiuma e della barba, in estasi, spalancò la finestra, grattando la collottola del gatto, che ronfò di piacere. Il terrazzino del monolocale era un profumato tripudio di azalee e lillà in fiore. Dentro, orchidee felici e gladioli rossi si affacciavano tra gli scaffali della libreria – c’erano fronde e fiori ovunque, come in una serra. E l’amante non aveva scordato l’anniversario. Chi l’avrebbe mai detto. La felicità piú intensa sembra destinata a durare un istante, e invece.
Canticchiando il ritornello della canzoncina dei Lúnapop, che gli era rimasto in mente – non voglio piú tornare indietro e stare senza di te – carponi sul parquet, Sasha frugò nel cellophane che avvolgeva il cesto in cerca del biglietto. Perché doveva esserci un biglietto. Quanto si scrivevano, loro due. Si scrivevano le parole che si sarebbero vergognati di pronunciare. Deve essere questo, il segreto della letteratura. Il biglietto c’era. Provò un improvviso moto di gratitudine per suo padre, che con la liquidazione – invece di pagarsi una barca o dozzine di crociere su navi alte come palazzi e affollate come città – gli aveva regalato quaranta metri quadri a Borgo Pio. Lui non avrebbe potuto permetterselo. Guadagnava un milionesettecentomila lire lorde al mese, e le spendeva tutte. Antiche travi di legno attraversavano il soffitto. Sui cassettoni scuri si intuivano ancora i segni di antichi fregi. La libreria – geometria di quadrati protetti da una vetrinetta lucente – era in perfetto ordine: tutti i volumi raccolti per collane, i colori abbinati con gusto. Sugli scaffali che correvano lungo le pareti, i cd erano disposti in ordine alfabetico. Cosí, tra quei cd, Sasha sapeva sempre dov’erano Thelonius Monk e Miles Davis, Dinah Washington, Bill Evans e i Tuxedomoon. Dove la nostra canzone, Desire. Sulla sella dell’elefante indiano che fungeva da tavolino, giaceva un libro con la copertina nera. Al centro s’allungava mollemente una donna nuda. Il segnalibro era infilato alle ultime pagine. Follia. Il romanzo, di cui aveva letto buone recensioni, lo aveva comprato per la bella copertina. Sasha era ossessionato dal buon gusto. Nulla, nella sua casa, o in lui, doveva sembrare ordinario, o volgare. Dalla finestra aperta gli sorrideva una sfilata di tegole rosse e, vicinissima, la cipolla sfolgorante della cupola di San Pietro. Che bella questa casa – la mia casa. Ma perché non è la nostra? Scacciò il pensiero con fastidio. Bisogna accontentarsi, oggi è giorno di festa. Aprí il biglietto. L’amante aveva scritto, con la sua grafia minuta e controllata: Mille di questi giorni.
La frase era di una banalità quasi offensiva. Sasha si tastò inavvertitamente la guancia. Il dito s’imbiancò di schiuma. Stava facendo tardi a scuola. I tulipani esalavano un odore stucchevole. Forse non erano freschi. L’amante strangolerà il fioraio se gli ha rifilato dei fiori moribondi. Questi tulipani devono arrivare vivi a lunedí. Perché il biglietto – generico e squallidamente impersonale – conteneva però una notizia eccitante, che esaudiva le sue sobrie speranze. Un week end insieme – promesso da mesi, e ogni volta rimandato e posposto. Ma la vita è adesso. Ho prenotato alle Colline di Maremma di Montemerano. E due notti al Grand Hotel delle Terme di Saturnia. A tuo nome, xdono. Già pagata, tutto fatto. Mi hanno incastrato con un’intervista a Sorano, poi ti spiego. Ma ci metterò un’ora al massimo. Chiamami solo se non puoi. Passo a prenderti a casa appena finisco di registrare – sarà verso le otto.
Mancavano quasi dodici ore. Sasha avrebbe voluto che fosse già sera. Si rialzò. Era contento, eppure un pensiero sgradevole lo assillava. Anche se era stato proprio lui a dire all’amante quanto gli sarebbe piaciuto provare le Colline di Maremma, l’osteria ideale per una cena romantica. Gliene aveva parlato un’amica. Lo chef aveva poco piú di trent’anni e si era già guadagnato due stelle nella bibbia Michelin. Faceva una cucina creativa e fusion, ma coi prodotti tradizionali del territorio, biologici, naturalmente. Un antico mulino ristrutturato con molta cura, bei mobili, arte povera, antiche madie, antichi strumenti agricoli, lume di candela, servizio impeccabile, ma niente di pretenzioso – servivano un antipasto con tutti gli affettati della zona, il lardo di Colonnata, prodotti freschi, comprati direttamente dai produttori. L’antipasto è un piatto enorme, praticamente hai già finito, e invece poi viene il meglio, primo, secondo, contorno, dolce, il tutto innaffiato dai vini delle migliori cantine dei dintorni, alla fine ti offrono la grappa distillata in casa. Insomma un ambiente intimo, ma selezionato, frequentato con discrezione, ci erano stati visti Massimo D’Alema e Tony Blair con Cherie, l’altra settimana c’era Roberto Benigni. Sasha voleva andarci da mesi. Ma ora gli veniva in mente che l’amante aveva prenotato nell’osteria in Toscana perché aveva ritenuto giusto mettere fra sé e il suo matrimonio almeno cento chilometri. Mai una volta – mai – erano andati a cena a Roma. Avevano esplorato tutte le città satellite – Zagarolo, Palestrina, Frascati, Tarquinia – tutti i ristoranti segnalati dalle guide nella provincia, e anche piú lontano. Conosco tutti, mi conoscono tutti, a Roma, spiegava l’amante. Ma questa maniacale prudenza, oggi, gli sembrò meschina.
Sarebbe stato meglio non andare da nessuna parte. Potevano rinchiudersi tre giorni in casa. Da settimane non facevano l’amore. Ma c’era quella maledetta intervista. L’amante non si dimenticava mai di essere chi era. Viveva sempre come fosse davanti alle telecamere. Be’, dice che ci perderà un’ora al massimo. Mi farò una passeggiata nei vicoli. È un paese romantico, Sorano. L’ultima volta che ci siamo stati cadeva a pezzi: un’intera contrada, completamente abbandonata, si sgretolava nel burrone. Lui invece, per l’amante, era pronto ad abbandonare tutto. Perfino i suoi studenti. E già sapeva che domani pomeriggio non li avrebbe accompagnati alla Galleria d’arte moderna – come promesso – e non li avrebbe portati davanti a Klimt, Morandi e Degas. Del resto, per dei ragazzini che vanno a scuola, visitare un museo con l’insegnante può anche rivelarsi un evento catastrofico, tale da togliere loro per sempre il desiderio di rimetterci piede. Anche se l’insegnante non volesse spiegare niente né tantomeno ingozzarli di nozioni, semplicemente metterli davanti a un’opera d’arte, e scatenare il loro stupore, la loro insofferenza, la loro curiosità. Il loro interesse spontaneo e istintivo per l’arte o per qualunque altra forma espressiva dell’intelletto umano è già stato estirpato e spento da otto anni di scuola, e la brace che ne resta non la riattizzerà domani. Quei suoi ragazzini, Sasha li chiamava gli orfani perché, nonostante avessero tutti almeno un genitore, quando non tre o quattro, secondo la ricomposizione delle famiglie, nessuno si occupava davvero di loro, a parte la scuola, nella quale venivano parcheggiati e distrutti definitivamente. Ieri aveva scoperto con una desolazione indescrivibile che nessun alunno della terza B aveva mai messo piede in una libreria.
«Parto, micio», disse Sasha, allungando la mano verso il gatto. Godot, già consapevole dell’imminente abbandono, gli soffiò contro, stizzito, e lo schivò con un balzo. Capriccioso felino. Devi essere paziente con noi. Abbiamo cosí poco tempo per stare insieme. Vestendosi, rimirò con tenerezza la parete dietro il letto. Fra il poster della mostra di Vermeer all’Aja del ’96 e la riproduzione del discobolo di Mapplethorpe, era incorniciata una fotografia. Autoscatto in una baia di Marettimo. Sasha e l’amante, abbronzati, appollaiati sulla prua del gozzo, inebriati dal sale e dal sole. Sorridenti. Non voglio piú tornare indietro e stare senza di te. Niente Galleria d’arte moderna. Niente ragazzini. Ce li portino i loro genitori, si prendano qualche responsabilità, non li ha obbligati nessuno a metterli al mondo. Oggi all’una vado in vacanza. Ho diritto a un po’ di felicità anch’io. Non tornerà un altro anniversario cosí. Niente ritorna. Che vada all’inferno, la scuola con tutti i suoi allievi.

Ottava ora

Nell’autobus si stava stretti come peli in una narice. Di sedersi non se ne parlava nemmeno. Valentina s’insinuò fra i tubi della vidimatrice, incastrò il borsone contro il finestrino e accese il walkman. Con voce sepolcrale Brian Warner in arte Marilyn Manson gridò COUNT TO SIX AND DIE, sovrastò il potente muro di suoni della chitarra elettrica e della batteria e la trasportò altrove. In un mondo di irriverenza e libertà nel quale non c’erano periferie sconsolatamente lontane dal centro né autobus sovraffollati né vecchi scorbutici né vecchie babbione munite di contundenti carrelli per la spesa. Corpi consumati dai quali, come del resto dagli altrettanto consumati finestrini sedili e mancorrenti, si levava un puzzo intenso, un odore inquietante di putrefazione animale. E non c’era neanche mamma coi capelli scoloriti aggrovigliati sulla nuca e un ricciolo provocante che le danza accanto alla bocca rossa come una ciliegia, né Kevin che chiede «mamma cos’è la ghiandola perineale?», la prima domanda delle molte con cui tutto il giorno affliggerà chi gli sta vicino. Un mondo nel quale non c’era nemmeno Roma. COUNT TO SIX AND DIE.
Emma si dibatteva fra un nugolo di ginnasiali affetti da una deturpante forma di acne, sgomitando per far posto a Kevin: lo teneva sollevato per il bavero della giacca a vento perché, tappetto com’era, fra tutte quelle gambe ostili non riusciva a respirare. «Cos’è la ghiandola perineale? Cosa sono i feromoni? – insisteva Kevin, alzando il muso in aria. – Mamma l’hai mai vista una puzzola?» I passeggeri stavano appiccicati gli uni agli altri, i loro corpi si urtavano e si incastravano – chiappe e mani, gomiti e capelli, capezzoli e scapole – contatti ravvicinati, osceni scambi di fluidi, effluvi, fiati. Valentina odiava gli autobus. Prima non era cosí: andava a scuola a piedi. Si fermava a comprare un trancio di pizza alla rosticceria di via dell’Esquilino e poi citofonava alla sua compagna di banco Sharon e camminavano insieme fino in classe. Adesso era costretta a questa mischia da rugby, ogni mattina. La responsabile di tutto ciò, incurante degli scossoni e del pigiapigia, incurante delle provocazioni di Marilyn Manson, continuava a muovere le labbra – le stava parlando. Valentina non poteva sentirla, per via di Marilyn Manson, ma tanto sapeva cosa le stava chiedendo: se aveva preparato la lezione, oggi aveva la verifica di scienze, no? Mamma credeva che a lei importasse qualcosa – che fosse contenta del suo interesse. Ma le chiedeva sempre le stesse cose, la scuola, i professori, l’interrogazione, cose che non avevano nessuna importanza. La scuola andava bene, o almeno era andata bene fino a qualche tempo fa, era il resto che non andava bene – ma di quello non parlavano. «Ma sí, – rispose, svogliata, agitando la testa al ritmo della canzone. – Che palle, non mi ammorbare, ho studiato, ci sto dentro».
«Spegni quel maledetto aggeggio!» gridò Emma, ma le porte dell’autobus si aprirono e alla terza fermata di via Torrevecchia salí un branco inferocito per la lunga attesa. «Siamo la vergogna d’Europa. Ma i nostri soldi dove vanno a finire?» deprecò una buzzicona, forse una domestica, prima ancora che l’autobus si rimettesse in moto. «L’Italia fa schifo, – s’inserí un pensionato invalido, esasperato. – C’ha proprio ragione quello che ha detto che l’Italia è un paese povero abitato da ricchi. Ci abbiamo strutture e servizi da terzo mondo, e piú banche macchine e telefoni degli svedesi». Emma pensò che a Roma prendono i mezzi pubblici solo i pensionati, gli stranieri e gli studenti – i poveri, insomma – e che lei doveva provvedere a questa situazione al piú presto. «Ieri mattina dovevo prendere la metro a Termini, – attaccò bottone un altro passeggero. – Sui marciapiedi stavamo pigiati come le sardine, da paura, quando passa la metro è cosí piena che non si riesce a salire, a un certo punto l’altoparlante fa: Si invitano i signori passeggeri a usufruire dei mezzi di superficie per l’intenso traffico sulla Linea A, hai capito, come se gli auti là sopra corono vuoti, che le paghiamo a fare le tasse dico io». «Io le vorrei pagare le tasse, – gli disse Emma, rivolgendogli un sorriso indulgente. – Chi paga guadagna». «Bella signora, – ammiccò il passeggero, con fare confidenziale. – Com’è ingenua, chi guadagna non paga, è proprio questo il dramma dell’Italia». Emma continuò a sorridergli, svagata. Abbandonandosi al ritmo sonnolento dell’autobus e della metropoli che le brulicava attorno, immersa nel piacere primordiale dell’appartenenza, si lasciò colmare da una sensazione quasi mistica di comunione con le cose di Roma, coi membri della sua specie e suoi concittadini.
A Valentina dava fastidio che mamma si mettesse a parlare con gli sconosciuti. Il passeggero tentò di aggirare Kevin, calpestandogli i piedi, ma un nuovo afflusso di folla lo strappò a mamma, separandoli. Mamma invece venne sospinta verso di lei. Strizzata in una pelliccetta fuori luogo in maggio e sciaguratamente profumata di incenso. Incenso – perché la mattina, durante le abluzioni, che peraltro si svolgevano in comune perché in casa di nonna c’era un solo bagno e loro tre uscivano alla stessa ora, mamma accendeva un bastoncino aromatico. Per stimolare la produzione della serotonina, diceva. La molecola che rende felici, o qualcosa del genere. «A che ora è la partita?» urlò Emma, per sovrastare Brian Warner, provvisto peraltro di una voce potente e sicura nonostante le critiche ingiuste dei preti e dei critici musicali, che lo accusano di essere un pupazzo prodotto dalle multinazionali del disco. «Alle cinque e mezza!» urlò Valentina. Emma si morse le labbra e scosse la testa. Il bastoncino d’incenso lo faceva consumare sull’orlo del lavabo, mentre si sciaguattava. Lo accendeva per cancellare dalla sua pelle l’odore di nonna – che non era buono – ma mamma si inventava quella cavolata della serotonina, pur di non dire la verità. Era una bugiarda spudorata. A un tratto Marilyn Manson tacque. Mamma aveva pigiato il tasto STOP.
«Ti ricordi che devi passare a prendere Kevin, vero?» Valentina la ignorò e premette di nuovo il PLAY. Attaccava Valentine’s Day. La sua canzone preferita – forse per via del nome, che era anche il suo. Non capiva di cosa parlasse, anche se in inglese se la cavava bene: però di sicuro c’era una ragazza. Al Palaghiaccio di Marino, al concerto di febbraio, Marilyn Manson l’aveva cantata vestito da papa, dietro un inginocchiatoio ornato ai lati da due teste mozzate. VALENTINE’S DAY. Il giorno di Valentina? Il ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un giorno perfetto
  4. Notte
  5. Mattina
  6. Pomeriggio
  7. Sera
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright