L'Arminuta
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L'Arminuta

Donatella Di Pietrantonio

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Arminuta

Donatella Di Pietrantonio

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«Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza». - Ma la tua mamma qual è? - mi ha domandato scoraggiata. - Ne ho due. Una è tua madre. Ci sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L'Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell'altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all'altro perde tutto - una casa confortevole, le amiche piú care, l'affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l'Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c'è Adriana, che condivide il letto con lei. E c'è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. L'accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte a se stessi. Donatella Di Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto alla sua terra, a quell'Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che improvvisamente si accende col riflesso del mare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858424858

1.

A tredici anni non conoscevo piú l’altra mia madre.
Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa. La porta non voleva aprirsi, qualcuno dall’interno la scuoteva senza parole e armeggiava con la serratura. Ho guardato un ragno dimenarsi nel vuoto, appeso all’estremità del suo filo.
Dopo lo scatto metallico è comparsa una bambina con le trecce allentate, vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista. Ha scostato l’anta per farmi entrare, tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora, piú che da adulte.

2.

La donna che mi aveva concepita non si è alzata dalla sedia. Il bambino che teneva in braccio si mordeva il pollice da un lato della bocca, dove forse voleva spuntargli un dente. Tutti e due mi guardavano e lui ha interrotto il suo verso monotono. Non sapevo di avere un fratello cosí piccolo.
– Sei arrivata, – ha detto lei. – Posala, la roba.
Ho solo abbassato gli occhi sull’odore di scarpe che usciva dalla borsa se la muovevo appena. Dalla stanza in fondo, con la porta accostata, proveniva un russare teso e sonoro. Il bambino ha ripreso la lagna e si è rivolto verso il seno, colando saliva sui fiori sudati del cotone stinto.
– Tu non chiudi? – ha chiesto secca la madre alla ragazzina che era rimasta immobile.
– Non salgono quelli che l’hanno portata? – ha obiettato lei indicandomi con il mento a punta.
Lo zio, cosí dovevo imparare a chiamarlo, è entrato proprio allora, in affanno dopo le scale. Nella calura del pomeriggio estivo teneva con due dita la gruccia di un cappotto nuovo, della mia taglia.
– Tua moglie non è venuta? – gli ha domandato la mia prima madre alzando il tono per coprire il lamento che aumentava tra le sue braccia.
– Non si muove dal letto, – ha risposto con uno scarto della testa. – Ieri sono uscito io a comprare qualcosa, anche per l’inverno, – e le ha mostrato la targhetta con la marca del mio cappotto.
Mi sono spostata verso la finestra aperta e ho deposto i bagagli a terra. In lontananza un frastuono numeroso, come sassi scaricati da un camion.
La padrona di casa ha deciso di offrire il caffè all’ospite, cosí l’odore avrebbe pure svegliato il marito, ha detto. È passata dalla sala da pranzo spoglia alla cucina, dopo aver messo il bimbo a piangere nel box. Lui ha cercato di tirarsi su aggrappandosi alla rete, in corrispondenza di un buco riparato grossolanamente con un intreccio di spago. Quando mi sono avvicinata, ha urlato di piú, stizzito. La sorella di tutti i giorni l’ha tolto con uno sforzo da lí dentro e lo ha lasciato sulle mattonelle di graniglia. Si è mosso gattoni, verso le voci in cucina. Lo sguardo scuro di lei si è spostato dal fratello a me, restando basso. Ha arroventato la fibbia dorata delle scarpe nuove, è salito lungo le pieghe blu dell’abito, ancora rigide di fabbrica. Alle sue spalle un moscone volava a mezz’aria sbattendo di tanto in tanto contro il muro, in cerca di un vuoto per uscire.
– Pure ’sto vestito te l’ha pigliato quello là? – ha chiesto piano.
– Me l’ha preso ieri proprio per tornare qui.
– Ma chi ti è? – si è incuriosita.
– Uno zio alla lontana. Sono stata con lui e sua moglie fino a oggi.
– Allora la mamma tua qual è? – ha domandato scoraggiata.
– Ne ho due. Una è tua madre.
– Qualche volta ne parlava, di una sorella piú grande, ma io non ci credo tanto a essa.
Di colpo mi ha stretto la manica del vestito tra le dita avide.
– Questo tra poco non ti entra piú. L’anno che viene lo puoi passare a me, stai attenta che non me lo rovini.
Il padre è uscito scalzo dalla camera da letto, sbadigliando. Si è presentato a torso nudo. Mi ha vista, mentre seguiva l’aroma del caffè.
– Sei arrivata, – ha detto, come sua moglie.

3.

Dalla cucina le parole giungevano rade e smorte, i cucchiaini non tintinnavano piú. Quando ho sentito i rumori delle sedie spostate, ho avuto paura, in gola. Lo zio si è avvicinato a salutarmi, con un tocco frettoloso sulla guancia.
– Mi raccomando, – ha detto.
– Ho dimenticato un libro in macchina, scendo a prenderlo, – e l’ho seguito per le scale.
Con il pretesto di cercare nel cruscotto, sono entrata nell’abitacolo. Ho chiuso la portiera e premuto la sicura.
– Ma che fai? – ha chiesto, già al posto di guida.
– Torno con te, non vi darò nessun fastidio. Anzi, la mamma è malata e ha bisogno del mio aiuto. Io qui non ci resto, non li conosco quelli là sopra.
– Non ricominciamo, cerca di essere ragionevole. I veri genitori ti aspettano e ti vorranno bene. Sarà divertente vivere in una casa piena di ragazzi –. Mi alitava in faccia il caffè che aveva bevuto da poco, misto all’odore delle sue gengive.
– Io voglio vivere a casa mia, con voi. Se ho sbagliato qualcosa dimmelo, e non lo farò piú. Non lasciarmi qui.
– Mi dispiace, ma non ti possiamo piú tenere, te l’abbiamo già spiegato. Adesso per favore smettila con i capricci ed esci, – ha concluso fissando il niente davanti a sé. Sotto la barba di alcuni giorni i muscoli della mascella gli pulsavano come certe volte che stava per arrabbiarsi.
Ho disubbidito, continuando a resistere. Allora ha sferrato un pugno al volante ed è sceso per tirarmi fuori dallo spazio stretto davanti al sedile, dove mi ero accucciata a tremare. Ha aperto con la chiave e mi ha presa per un braccio, la spalla del vestito che mi aveva comprato lui si è scucita di qualche centimetro. Nella sua morsa non riconoscevo piú la mano del padre di poche parole con cui avevo abitato fino a quella mattina.
Sull’asfalto del piazzale sono rimasti i segni delle ruote, e io. Odore di gomma bruciata nell’aria. Quando ho alzato la testa, dalle finestre del secondo piano guardava qualcuno della mia famiglia per forza.
È tornato mezz’ora dopo, ho sentito bussare e poi la sua voce sul pianerottolo. L’ho perdonato all’istante e ho ripreso i bagagli con uno slancio di gioia, ma sono arrivata alla porta che i passi risuonavano già in fondo alle scale. Mia sorella teneva in mano un barattolo di gelato alla vaniglia, il gusto che preferivo. Era venuto per quello, non per portarmi via. L’hanno mangiato gli altri, in quel pomeriggio di agosto del 1975.

4.

Verso sera sono rientrati i ragazzi piú grandi, uno mi ha salutata con un fischio, un altro non si è nemmeno accorto di me. Si sono precipitati in cucina sgomitando per accaparrarsi i posti a tavola, dove la madre ha servito la cena. Si sono riempiti i piatti tra schizzi di sugo, al mio spigolo è arrivata solo una polpetta spugnosa sopra un po’ di condimento. All’interno era chiara, di mollica vecchia bagnata e rari grumi di carne. Abbiamo mangiato polpette di pane con altro pane intinto nella salsa, per occupare lo stomaco. Dopo qualche giorno avrei saputo competere per il cibo e restare concentrata sul piatto a difenderlo dalle incursioni aeree delle forchette. Ma quella volta ho perso il poco che la mano della madre aveva aggiunto alla mia scarsa razione.
I miei primi genitori si sono ricordati soltanto dopo cena che in casa mancava un letto per me.
– Stanotte t’addormi con tua sorella, tanto siete secche, – ha detto il padre. – Domani vediamo.
– Per starci tutt’e due, dobbiamo stenderci all’incontrario, – mi ha spiegato Adriana, – la coccia di una vicino ai piedi dell’altra. Mo ce li laviamo, però, – mi ha rassicurata.
Li abbiamo messi a bagno nella stessa bacinella, lei ha insistito a lungo nel rimuovere lo sporco tra le dita.
– Guarda che acqua nera, – ha riso, – sono stati i miei, i tuoi già stavano puliti.
Ha rimediato un cuscino per me e siamo entrate in camera senza accendere la luce, gli altri ragazzi respiravano come chi dorme e il sudore di adolescenti era forte. Ci siamo sistemate all’inverso, bisbigliando. Il materasso imbottito di lana di pecora era molle e deformato dall’uso, affondavo verso il centro. Emanava l’ammoniaca delle pipí che lo avevano impregnato, un odore nuovo e repellente per me. Le zanzare cercavano il sangue e avrei voluto coprirmi di piú con il lenzuolo, ma nel sonno Adriana lo tirava in senso opposto.
Un sussulto improvviso del suo corpo, forse stava sognando di cadere. Le ho spostato piano un piede e mi sono appoggiata con la guancia alla pianta fresca di sapone scadente. Ho combaciato quasi tutta la notte con la pelle ruvida assecondando i movimenti delle gambe. Sentivo con le dita i margini irregolari delle sue unghie spezzate. C’erano delle forbicine nei miei bagagli, la mattina dopo potevo dargliele.
L’ultimo quarto di luna si è affacciato alla finestra aperta e l’ha attraversata. Sono rimaste le stelle a strascico e la minima fortuna di avere il cielo sgombro di case, da quella parte.
Domani vediamo, aveva detto il padre, ma poi si è dimenticato. Io e Adriana non gli abbiamo chiesto niente. Ogni sera mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati.

5.

Un calore bagnato si è diffuso sotto le mie costole e il fianco, mi sono alzata di scatto. Ho tastato tra le gambe, era asciutto. Adriana si è mossa nel buio restando distesa. Ridotta in un angolo, ha ripreso o continuato il sonno, come se fosse abituata. Dopo un po’ mi sono rimessa a letto anch’io, piú piccola che potevo. Eravamo due corpi intorno all’umido.
Piano piano l’odore è evaporato, solo qualche zaffata ogni tanto. Quasi all’alba uno dei maschi, non ho riconosciuto quale, si è agitato a ritmo crescente per alcuni minuti, mugolando.
La mattina Adriana si è svegliata ed è rimasta ferma, con la testa sul cuscino e gli occhi aperti. Poi mi ha guardato un momento, senza dire niente. La madre è venuta a chiama...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’Arminuta
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. Il libro
  38. L’autrice
  39. Copyright