Il mestiere dello scrittore
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Il mestiere dello scrittore

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Il mestiere dello scrittore

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Come si impara a scrivere? Esistono dei veri e propri esercizi per l'aspirante romanziere? Cosa determina l'originalità di un libro? La scuola prepara davvero alla vita o serve solo a rendere i ragazzi conformisti? Qual è l'importanza della forma fisica per un romanziere? E soprattutto: per chi si scrive? *** Come si impara a scrivere? Esistono dei veri e propri esercizi per l'aspirante romanziere? Cosa determina l'originalità di un libro? È giusto assegnare ai premi letterari tanta importanza? Uno scrittore dove «trova» i personaggi da mettere in scena? La scuola prepara davvero alla vita o serve solo a rendere i ragazzi conformisti? Qual è l'importanza della forma fisica per un romanziere? E soprattutto: per chi si scrive? Con Il mestiere dello scrittore Murakami Haruki compie un gesto straordinario e inaspettato: fa entrare i suoi lettori nell'intimità del suo laboratorio creativo, li fa accomodare al tavolo di lavoro e dispiega davanti a loro i segreti della sua scrittura. Sono «chiacchiere di bottega», confidenze, suggerimenti, che presto però si aprono a qualcosa di piú: una riflessione sull'immaginazione, sul tempo e l'identità, sul conflitto creativo tra forma e libertà. In questo senso Il mestiere dello scrittore è anche un'autentica autobiografia letteraria di uno degli autori piú schivi del pianeta. È un libro pieno di curiosità e rivelazioni sul mondo di Murakami: dal fatto che la sua prima e piú importante editor è la moglie, che legge tutto quello che scrive e di cui lui ascolta tutti i consigli; a quando riscrisse Dance Dance Dance due volte: la prima a Roma, in una stanza d'albergo confinante con una coppia un po' troppo focosa, la seconda a Londra quando si accorse che il dischetto su cui aveva salvato il file del romanzo si era cancellato - mesi dopo però, per le bizze a cui i computer ci hanno abituato, la prima versione rispunta fuori e Murakami deve ammettere che la seconda, che senza l'inghippo informatico non avrebbe mai scritto, è molto migliore della prima. Murakami regala ai suoi lettori un libro pieno di confidenze, dettagli biografici, ammissioni di passi falsi, insomma: di umanità.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858424889
Capitolo undicesimo

Andare all’estero. Una nuova frontiera

È stato verso la fine degli anni Ottanta che i miei libri sono arrivati per la prima volta in America. Nel segno della pecora è uscito, in cartonato, nella sezione inglese della Kōdansha International (KI), e la rivista «The New Yorker» ha iniziato a pubblicare alcuni miei racconti. All’epoca la Kōdansha aveva i suoi uffici nel centro di Manhattan, si serviva di redattori locali e si muoveva in maniera piuttosto energica, perché voleva entrare a pieno titolo nel mercato editoriale americano. In seguito è diventata la Kōdansha America (KA). Non conosco i dettagli, ma penso che sia una succursale della casa madre.
L’editor responsabile era Elmer Luke, un uomo di origine cinese, coadiuvato da uno staff davvero in gamba (specialisti della pubblicità e del commercio). Il direttore era Shiroi, uno che non aveva l’abitudine di rompere le scatole come fanno di solito in Giappone, e nel limite delle possibilità lasciava lo staff americano libero di muoversi. Quindi l’atmosfera era piuttosto rilassata. Lo staff americano ha promosso con entusiasmo la pubblicazione dei miei libri. Poco dopo mi sono trasferito nello stato di New York, e quando andavo a trovarli all’ufficio della KA a Broadway, avevamo conversazioni amichevoli. Un ambiente molto piú vicino a quello delle aziende americane che a quelle giapponesi. Erano quasi tutti newyorkesi Doc, bravi ed efficienti, e trovavo interessante lavorare con loro. Tra una cosa e l’altra, ho un bellissimo ricordo di quel periodo. Stavo per compiere quarant’anni, e ho fatto diverse belle esperienze. Ancora adesso alcuni di loro sono miei amici.
Anche grazie alla fresca traduzione di Alfred Birnbaum, Nel segno della pecora ebbe un’accoglienza ben migliore di quella che ci si immaginava, il «New York Times» ne tessé le lodi e John Updike ne pubblicò una lunga recensione sul «New Yorker». Commercialmente fu un grande successo. La casa editrice Kōdansha International in America era ancora agli esordi, io ovviamente non ero conosciuto, ma il romanzo rimase esposto a lungo nelle librerie. Se all’epoca fossero esistiti i formati digitali o le vendite su internet avrebbe fatto ancora meglio, ma erano di là da venire. Comunque se ne parlò molto e questo incise direttamente sulle vendite. In seguito Nel segno della pecora venne pubblicato in tascabile da Vintage (che appartiene alla Random House), ed è diventato un long seller.
Dopo Nel segno della pecora, ho pubblicato L’uccello che girava le viti del mondo e Dance Dance Dance, entrambi accolti con favore dal pubblico. Se ne parlò molto, ma senza che questo influenzasse l’andamento delle vendite, nel complesso si fermarono a un livello di nicchia. All’epoca in Giappone l’economia era in pieno boom, era uscito il saggio Japan as Number One1, e la voglia di andare avanti era alle stelle. Un clima che non favoriva l’espansione culturale. Quando si parlava con gli americani, l’argomento era soprattutto l’economia, la cultura non interessava granché. I nomi di Sakamoto Ryūichi e Yoshimoto Banana erano noti (di piú in Europa, però), ma non c’era alcuna tendenza costruttiva nel mercato americano ad attirare lo sguardo del pubblico sulla cultura giapponese. Esagerando, si può dire che il Giappone a quel tempo veniva considerato «un paese con tanto denaro, ma incomprensibile». Naturalmente c’erano persone che, avendo letto Kawabata, Tanizaki e Mishima, avevano un’alta opinione della letteratura giapponese, ma erano quattro gatti. Un pugno di intellettuali d’élite.
Quindi è stata una grande gioia vendere al «New Yorker» alcuni miei racconti (per me era come un sogno, dato che adoravo quella rivista), ma purtroppo questo non mi ha aiutato a sfondare tra il grande pubblico. Come se uno shuttle nella fase di partenza andasse bene, ma nella fase due fallisse. Comunque da allora a oggi ho continuato ad avere un rapporto amichevole sia con gli editori che con i redattori della rivista, che è diventata la mia «homeground» in America. Sembra che abbiano apprezzato lo stile delle mie opere (può darsi che fossi nelle corde della rivista), perché mi hanno subito vincolato con un contratto esclusivo. Quando ho saputo che J. D. Salinger aveva firmato lo stesso tipo di contratto, l’ho considerato un grande onore.
Il mio primo racconto ad essere pubblicato sul «New Yorker» è stato TV People (il 10 settembre 1990), poi, nel corso di venticinque anni, ne sono seguiti altri ventisette. La redazione è molto severa nella scelta delle opere: un autore può essere famoso finché vuole e in ottimi rapporti con la rivista, se le sue opere non sono in linea con i criteri e i gusti della redazione, verranno rifiutate. Persino Franny e Zooey di Salinger venne bocciato dai redattori all’unisono (solo grazie all’impegno del direttore, William Shawn, alla fine fu pubblicato). Anche tante mie opere sono state rifiutate, è ovvio. In questo c’è una grossa differenza con le riviste giapponesi. Ma i racconti che, dopo aver superato la severa selezione iniziale, sono stati pubblicati periodicamente mi hanno fatto conoscere ai lettori americani. E grazie al valido sostegno ricevuto dal «New Yorker», il mio nome ha acquisito una notorietà sempre piú vasta.
In Giappone non si può nemmeno immaginare quali siano il prestigio e l’influenza di una rivista come «The New Yorker». Negli Stati Uniti, se uno scrittore vende in Giappone un milione di copie e riceve questo o quel premio letterario, nessuno ci fa caso piú di tanto, ma se alcune sue opere escono sul «New Yorker», la reazione del pubblico cambia radicalmente. Penso spesso che una cultura in cui esiste una rivista cosí determinante sia invidiabile.
Diverse persone che ho conosciuto per lavoro negli Stati Uniti mi hanno avvertito: «Guarda che è difficilissimo, per chi cerca il successo come scrittore in questo paese, firmare un contratto con un agente letterario e venire pubblicati da un editore importante». L’avevo capito anch’io, senza bisogno di sentirmelo dire. Per lo meno all’epoca la situazione era quella. Quindi, e me ne scuso con la KA, mi sono messo a cercare un agente e un altro editore. Dopo averne incontrato alcuni a New York, ho scelto come agente Amanda Urban (detta Pinkie), della grande agenzia letteraria ICM (International Creative Manager), come casa editrice la Albert Knopf (che sta sotto l’ombrello della Random House), alla cui direzione c’è Sonny Mehta, e come mio editor Gary Fisketjon. Tutti e tre sono da considerare top class nel mondo letterario americano. A pensarci adesso, mi stupisco che persone di tale livello si siano interessate a me, ma all’epoca anch’io mi sono impegnato con tutte le mie forze, senza fermarmi a considerare quanto autorevole fosse la controparte. Appoggiandomi a vari conoscenti ho ottenuto diversi colloqui, poi mi sono deciso per le persone che ho trovato piú convincenti.
Le ragioni per cui queste persone si sono interessate a me, pare che fossero tre. Una: ero il traduttore di Raymond Carver, ero stato io cioè a presentare le sue opere in Giappone. Loro stessi erano stati rispettivamente la sua agente, il suo editore e il suo editor. Penso che non fosse una coincidenza; che forse sia stato proprio Carver a condurmi fino a loro (dalla sua morte erano già passati quattro o cinque anni).
La seconda ragione era che in Giappone Norwegian Wood aveva venduto quasi due milioni di copie, e se ne parlava anche in America. Due milioni di copie, anche negli Stati Uniti, sono una cifra considerevole per un’opera letteraria. Di conseguenza il mio nome era conosciuto nel settore, e Norwegian Wood è diventato il mio biglietto da visita.
La terza ragione: avevo già iniziato a pubblicare le mie opere in America, se ne parlava, e venivo considerato un «esordiente di belle speranze». Il fatto che «The New Yorker» mi portasse in palmo di mano avrà avuto la sua influenza. Il direttore che era succeduto a William Shawn, il mitico Robert Gottlieb, non so perché mi prese in simpatia e mi condusse lui stesso da un angolo all’altro della redazione per presentarmi a tutti, ne ho ancora un ricordo bellissimo.
Anche Linda Asher, che si occupava direttamente di me, era una donna affascinante con la quale mi trovai subito in straordinaria sintonia. Ormai non lavora piú da molti anni per il «New Yorker», ma siamo ancora amici. A ripensarci, sul mercato americano mi sembra di essere stato allevato da quella rivista.
In conclusione, il fatto che io fossi legato a questi tre personaggi (Pinkie, Mehta e Fisketjon) è una delle principali ragioni per cui le cose sono poi andate a gonfie vele. Erano bravi, pieni di fervore, avevano molte conoscenze e un’influenza sicura sul mercato. Lo stesso discorso vale per il designer Chip Kidd, interno alla Knopf, che ha ideato la copertina di tutte le mie opere, da L’elefante scomparso degli inizi fino all’attuale L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, procurandosi cosí una bella notorietà. Tra i lettori che attendono le mie nuove opere ce ne sono molti curiosi di vedere le sue copertine. Ho avuto la fortuna di avvalermi di persone di questo livello.
Un’altra ragione del mio successo, penso che sia stata la mia decisione iniziale di non presentarmi come uno «scrittore giapponese» in senso tecnico, ma competere nella stessa arena degli scrittori americani. Mi sono trovato da solo un traduttore, ho controllato io stesso la traduzione e l’ho portata all’agente per vendergliela, questo è il metodo che ho seguito. Cosí sia l’agente che l’editore mi hanno considerato alla stregua di uno scrittore americano, cui applicare le stesse regole sulla stessa base. Non un autore straniero che scrive in una lingua straniera. Era quello che volevo.
Se ho deciso di procedere in questo modo, è perché la prima volta che ho incontrato Pinkie, lei mi ha detto chiaramente: «Non mi occupo di un’opera, se non posso leggerla in inglese». Pinkie si mette al lavoro solo dopo aver letto e valutato personalmente un libro. Non accetta incarichi di altro genere. Mi sembra una cosa ovvia per un agente. Quindi ho deciso di avvalermi di un traduttore che mi convincesse.
In Giappone e in Europa si sente spesso dire, fra gli addetti ai lavori: «Gli editori americani danno importanza solo alle vendite e al mercato, non cercano di far crescere a poco a poco un autore». Non so se si tratta veramente di un sentimento anti-americano, ma a volte ho l’impressione che ci sia avversione (o poca simpatia) per il modello commerciale degli Stati Uniti. Se dicessi che nel business editoriale americano quest’aspetto non c’è, mentirei. Ho incontrato diversi scrittori che se ne sono lamentati: «Quando le vendite vanno bene, agenti e editori ti adulano, in caso contrario non ti guardano in faccia». Sí, è vero. Ma non è sempre cosí. Se credono in un libro o in un autore, gli dedicano tutte le loro energie senza pensare al profitto immediato, li ho visti con i miei occhi. Perché il favore e l’entusiamo dell’editore svolgono un ruolo fondamentale. Ma credo che questo succeda ovunque nel mondo.
In qualunque paese, per quel che posso osservare, chi desidera diventare editor o lavorare nell’editoria, innanzi tutto è qualcuno che ama i libri. Anche in America, chi aspira a guadagnare un sacco di soldi e vivere nel lusso, tanto per cominciare non si occupa di editoria. Va piuttosto a Wall Street (finanza) o Madison Avenue (pubblicità). A parte qualche eccezione, gli stipendi che paga una casa editrice non sono alti. Di conseguenza le persone che vi lavorano sostengono con fierezza che «se fanno quel mestiere, è perché amano la letteratura». Se un libro piace, vi si dedicano con abnegazione.
Ho vissuto per qualche tempo nelle città americane (nel New Jersey e a Boston) e sono diventato amico di Pinkie, Gary e Sonny. Abitavamo distanti, cosí per lavorare insieme ogni tanto ci vedevamo a pranzo e parlavamo di tante cose. Come succede in ogni paese. Se ci si affida completamente all’agente dandogli carta bianca, senza mai consultare il proprio editor, quello che si dovrebbe muovere non si muove. Naturalmente se l’opera ha una forza dirompente si fa strada lo stesso, ma ad essere sincero non avevo un’eccessiva fiducia nel mio talento. Inoltre ho la tendenza a risolvere le cose da solo, in ogni situazione, quindi ho cercato di occuparmi personalmente di quanto potevo. Come avevo fatto in Giappone all’epoca del mio esordio. A quarant’anni mi sono «resettato» nella posizione di esordiente.
Se ho voluto instaurare con il mercato americano questo tipo di rapporto, è perché in Giappone mi erano capitate diverse cose sgradevoli, e avevo la sensazione che continuando di quel passo, nel mio paese non sarei riuscito a combinare granché. Era l’epoca della bolla, e mantenersi con i proventi del lavoro di scrittore non era difficile. La popolazione aveva superato i cento milioni, la stragrande maggioranza sapeva leggere… insomma, i lettori erano davvero tanti. L’economia era talmente florida da lasciare il mondo intero a bocca aperta, e gli editori erano molto attivi. Le azioni continuavano a salire, i prezzi delle case e dei terreni erano alle stelle, tutti erano pieni di soldi e nuove riviste venivano pubblicate una dopo l’altra, ognuna farcita di ogni sorta di pubblicità. A chi scriveva non mancavano le richieste di manoscritti. Di lavori «appetitosi» ce n’erano tanti. Una volta mi è arrivato un invito sorprendente: «Vada in qualunque parte del mondo vuole, usi per le spese quanto le pare e scriva la cronaca di viaggio che piú le piace». Un tale che non conoscevo è venuto a farmi un’offerta pazzesca: «Ho appena comprato un castello in Francia, perché non va a viverci per un anno, a scrivere tranquillamente un romanzo?» (Ho educatamente rifiutato entrambe le proposte). A ripensare adesso a quell’epoca, c’è da non crederci. Anche se non avessi potuto vivere dei proventi dei miei libri, che per uno scrittore costituiscono l’alimento principale, avrei potuto vivere benissimo di quegli ottimi «contorni».
Tuttavia ero in un periodo della vita cruciale per uno scrittore − presto avrei compiuto quarant’anni − e non potevo accettare quell’ambiente. C’è un modo di dire giapponese davvero azzeccato: «Il cuore umano è irrequieto», davvero giusto. La società intera era al colmo dell’eccitazione, non si parlava d’altro che di denaro. Non era certo l’atmosfera propizia per mettersi a scrivere in santa pace un romanzo lungo. Se fossi rimasto in un posto del genere, prima o poi i vizi mi avrebbero guastato: era un’impressione che andava rafforzandosi sempre piú. Volevo collocarmi in un ambiente piú teso e oltrepassare una nuova frontiera. Desideravo mettermi alla prova con nuove sfide. Cosí nella seconda metà degli anni Ottanta ho lasciato il Giappone e ho vissuto principalmente all’estero. Dopo aver pubblicato La fine del mondo e il paese delle meraviglie.
Un’altra cosa, in Giappone le critiche nei miei confronti erano feroci. Da parte mia mi dicevo: «Le persone hanno delle carenze e quindi anche le loro opere ne hanno, è inevitabile», e tiravo dritto cercando di non prendermela. Però ero ancora giovane, e spesso, quando quelle critiche mi arrivavano alle orecchie, le trovavo inammissibili. Invadevano persino la mia vita privata e coinvolgevano la mia famiglia, si scrivevano su di me cose non vere, venivo attaccato personalmente. Mi chiedevo con stupore (ma senza tristezza) perché dovessero arrivare a tanto.
A ripensarci adesso, credo che le persone appartenenti al mondo letterario giapponese di quel tempo (scrittori, critici, editori) sfogassero in quel modo la frustrazione. Perché il mainstream letterario aveva rapidamente perso forza e influenza, cosa che generava malcontento e depressione. Insomma, i modelli erano cambiati. Il mondo letterario però deplorava quel meltdown culturale, non lo sopportava. Quindi consideravano me, insieme alle mie opere, «uno di quegli elementi che danneggiano e distruggono la condizione originaria e naturale», e cercavano di espellermi come i globuli bianchi eliminano dal corpo i microorganismi estranei, questa è la mia impressione. Io però pensavo: «Se uno come me può dare tanto fastidio, vuol dire che lo stato della letteratura ha dei problemi di suo».
Spesso è stato detto di me: «Quello che scrive Murakami Haruki, dopotutto, è un’imitazione della letteratura straniera, è minestra riscaldata. Può funzionare giusto giusto nel mercato nazionale». Peccato che io non fossi dello stesso parere, al contrario, ero attivamente alla ricerca di nuove possibilità servendomi della lingua giapponese come di un utensile. Di conseguenza, di fronte a quelle accuse, mi sono detto che per verificare se le mie opere funzionassero o meno sul mercato estero, dovevo provare, e ad essere sincero non nego che per me fosse una sfida. Per carattere non sono uno che non accetta di perdere, ma se una cosa non mi convince, non mollo finché non capisco se è giusta o meno.
Inoltre, se fossi riuscito a svolgere la mia attività principalmente all’estero, mantenere rapporti con il complicato mondo letterario giapponese non sarebbe piú stato indispensabile. Qualunque cosa mi dicessero, bastava che li ignorassi e lasciassi perdere. Questa possibilità è stata un altro dei motivi che mi hanno spinto a mettercela tutta e tentare di affermarmi all’estero. Ora penso che le critiche che mi sono piovute addosso in Giappone siano state un bell’incentivo a espatriare. Una fortuna, paradossalmente. In qualunque paese è la stessa cosa, ma non c’è nulla di piú temibile che «annientare fingendo di elogiare».
Quando ho pubblicato i miei libri all’estero, la gioia piú grande per me è stata il fatto che un gran numero di persone (sia i lettori che i critici) li trovassero originali; diversi da quelli di ogni altro scrittore. A prescindere dal giudizio sulle opere in sé, l’opinione generale era che il mio stile fosse nuovo. Altro che gli attacchi che avevo subito in Giappone! Ne ero davvero felice. Essere originale significava avere uno stile mio, e per me era il complimento piú gradito.
Quando però ho iniziato a vendere, o piuttosto quando si è capito che i miei libri si vendevano, in Giappone questa volta hanno detto: «Se i libri di Murakami Haruki all’estero funzionano, è perché usa un linguaggio facile da tradurre, scrive storie che gli stranieri possono capire senza sforzo». Ma non era il contrario di quello che sostenevano prima? Era sconcertante, ma non ci potevo fare nulla. Al mondo ci sono un sacco di persone che parlano a vanvera senza porsi problemi, dicono cose senza fondamento seguendo la direzione del vento,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mestiere dello scrittore
  4. I. Lo scrittore è una persona generosa?
  5. II. Come sono diventato romanziere
  6. III. A proposito dei premi letterari
  7. IV. Sull’originalità
  8. V. Dunque, cosa scrivere?
  9. VI. Considerare il tempo amico: scrivere un romanzo lungo
  10. VII. Fino a che punto scrivere è un’attività individuale e fisica
  11. VIII. A proposito della scuola
  12. IX. Quali personaggi mettere in scena?
  13. X. Per chi scrivere?
  14. XI. Andare all’estero. Una nuova frontiera
  15. Postfazione
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright