1. «Fratture storiche»: la grande guerra e la Rivoluzione d’ottobre.
La prima guerra mondiale influenzò tutto lo sviluppo del pensiero di Gramsci; per ricostruire l’origine del concetto di egemonia, che costituisce il cardine della sua analisi del Novecento, giova quindi prendere le mosse dal modo in cui percepí la grande guerra.
Il primo scritto importante di Gramsci, l’articolo Neutralità attiva ed operante, pubblicato sul settimanale socialista torinese «Il Grido del Popolo» il 31 ottobre 1914, prospettava al Partito socialista l’esigenza di superare la formula della «neutralità assoluta». Se quell’articolo contenesse o meno una posizione favorevole all’intervento dell’Italia in guerra è questione controversa, dibattuta a lungo dagli storici e ormai chiarita, a mio avviso, da un accurato saggio di Leonardo Rapone1. Ma piú che la posizione politica qui ci interessa ricostruire il pensiero di Gramsci sulla guerra e sotto questo profilo le analisi piú importanti cominciano nel 1916. La maggioranza «massimalista» del Partito socialista, alla quale Gramsci apparteneva, era parte di quel socialismo rivoluzionario europeo che concepiva il socialismo come «avvento dell’Internazionale». Secondo la sua visione, il presupposto del socialismo era la diffusione mondiale del capitalismo perché avrebbe fatto crescere sempre piú la forza del proletariato, preparando le condizioni della sua ascesa al potere. Il socialismo rivoluzionario era quindi liberista perché intendeva accelerare, attraverso le lotte di classe, il compimento della «missione» storica del capitalismo, vale a dire l’unificazione antagonistica del mondo diviso in «borghesi» e «proletari». I «massimalisti» italiani erano liberisti perché conseguentemente classisti2; tuttavia il liberismo di Gramsci non dipendeva solo dalla sua posizione politica, ma scaturiva anche dalla formazione intellettuale, in cui, com’è noto, erano stati determinanti Croce e Einaudi, Salvemini e Sorel, Bergson e i pragmatisti3. Conviene quindi soffermarsi sull’influenza che questa cultura ebbe sul modo in cui Gramsci analizzava il fenomeno della guerra. Rapone e altri studiosi hanno suggerito che la sua estraneità alla «dottrina della guerra» del socialismo e il suo approccio selettivo alle teorie dell’imperialismo si debbano a quelle influenze culturali: è un tema che conviene approfondire.
Il punto di vista da cui Gramsci analizza la situazione a partire dal 1916 è il mutamento della soggettività dei popoli che la guerra stava generando a ritmo accelerato e il primo fenomeno su cui ferma lo sguardo è il risveglio dei popoli coloniali. L’articolo La guerra e le colonie, pubblicato il 15 aprile 1916, prendeva spunto da un articolo di Mario Girardon, corrispondente da Parigi del «Resto del Carlino», per sottolineare il carattere «universale» del fenomeno. Ma altrettanto significativa è la concezione del colonialismo che Gramsci rivela in quella occasione. Palesemente influenzato dalla lezione di Antonio Labriola4, egli afferma che il colonialismo può essere «la spinta storica necessaria perché degli agglomerati sociali in arretrato con la civiltà si modifichino, si disciplinino, acquistino la coscienza del loro essere nel mondo e del dovere di collaborare alla vita universale». Tuttavia non era stato questo il risultato del colonialismo francese e inglese perché entrambi avevano «obbedito a un impulso dei loro capitalismi e nelle colonie [avevano] creato delle imprese capitalistiche, ma non una società capitalistica».
L’articolo contiene due concetti che si riveleranno fondamentali nell’analisi gramsciana della politica e della storia: il primo riguarda il carattere corporativo del nazionalismo; il secondo è che la «funzione» progressiva del capitalismo viene distorta o addirittura stravolta dalla forza con cui interessi economici ristretti riescono a imporsi nel campo politico. Fin dagli esordi, dunque, il pensiero di Gramsci rivela l’influenza decisiva di Marx poiché la patologia da lui denunciata non riguarda solo il fenomeno coloniale, ma il rapporto fra economia e politica nel mondo capitalistico contemporaneo5. All’influenza di Labriola risale anche l’osservazione che «il contatto del mondo europeo cogli uomini di colore non è stato senza conseguenze» positive perché «anche indirettamente, il capitalismo è riuscito a creare nuovi bisogni, nuove volontà, aspirazioni latenti che (…) potrebbero traboccare all’improvviso in un’azione violenta»6.
Il modo in cui Gramsci concepisce inizialmente il capitalismo riflette una mentalità diffusa. Lo «spirito del tempo» a cui si ispirava era ben rappresentato da Norman Angell, un autore assai caro al socialismo «intransigente» italiano degli anni dieci. L’opera piú fortunata del giornalista inglese, La grande illusione, era stata pubblicata in Italia nel 1913 e l’attualità delle sue analisi della globalizzazione dell’economia mondiale fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento è ancora oggi di grande interesse. Nella prefazione all’edizione Humanitas, che abbiamo sotto gli occhi, Angell era presentato come lo «scopritore» «dell’interdipendenza economica delle nazioni civili». Per Gramsci l’«interdipendenza economica» non costituiva certo una «scoperta»; tuttavia l’analisi della mondializzazione sviluppata ne La grande illusione era cosí persuasiva da fare di Angell un suo autore7. Gramsci aderisce alla tesi che l’interdipendenza economica favorisce la pace fra le nazioni e può essere una leva per allontanare continuamente, se non per eliminare del tutto, il fenomeno della guerra. Lo scrive chiaramente il 24 luglio 1916 e lo ribadisce ancora il 23 marzo 1918 riferendosi proprio all’autore inglese8. In particolare, nel primo articolo, dedicato a La grande illusione, distinguendo il pacifismo di Angell dal pacifismo umanitario, che non apprezzava affatto, afferma che il primo è «solido» perché «fondato sulla constatazione di uno stato di cose nuovo, creato inconsciamente dal capitalismo, come forza economica pura, e non come spina dorsale delle nazioni borghesi»9. La distinzione fra capitalismo e borghesia non solo anticipa il contrasto fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica che in breve tempo diverrà la chiave esplicativa della guerra, ma evoca la possibilità di radicalizzare politicamente la ben nota tesi di Marx circa la vocazione mondiale del modo di produzione capitalistico. Capitalismo e borghesia sono complementari fino a che il mercato nazionale e lo Stato-nazione sono indispensabili allo sviluppo capitalistico. Ma, afferma Gramsci, quanto piú il capitalismo si sviluppa come forma economica mondiale, tanto meno gli è necessario il ruolo dello Stato. Il cosmopolitismo economico fa nascere l’esigenza di istituzioni politiche sovranazionali e a questo «stadio» dello sviluppo storico capitalismo e borghesia sono separabili o quanto meno distinguibili fornendo la giustificazione storica dell’internazionalismo rivoluzionario. Ma è ancora piú significativo che Gramsci, sviluppando in maniera originale la sua visione del liberismo, non solo non aderisca alle teorie dell’imperialismo, ma elabori una sua dottrina della guerra basata sulla percezione che l’imperialismo non è una categoria economica (non indica un mutamento della natura del capitalismo), ma storico-politica. La guerra è concepita come «una necessità», egli scrive, solo da determinati «gruppi economici» e forze politiche, è figlia del protezionismo e del nazionalismo che sono entrambi fenomeni politici, non espressioni di presunte «leggi economiche»10. La correlazione con l’analisi del colonialismo, da cui abbiamo preso le mosse, appare evidente.
In questo ordine di pensieri si colloca l’approccio al progetto di Lega delle Nazioni proposto dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson l’8 gennaio 1918. È un approccio culminante nell’affermazione che se la Società delle Nazioni si realizzasse secondo il disegno wilsoniano costituirebbe il «presupposto» «dell’avvento dell’Internazionale socialista»11. Limitandoci ai punti salienti dell’analisi, la Lega delle Nazioni, scrive Gramsci il 19 gennaio, «è il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessità degli scambi internazionali»; «rappresenta un conguagliamento della politica con l’economia»; «è il grande Stato borghese supernazionale che ha dissolto le barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha cambiato il respiro della libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche internazionali»12. Sono annotazioni di grande interesse, che contengono in nuce la teoria delle crisi e della guerra elaborata nel Quaderno 15; ma non meno rilevante è la percezione della sovranazionalità come la via maestra per adeguare gli spazi della politica alla mondializzazione dell’economia. Tuttavia qui conviene soffermarsi sulle categorie che Gramsci elabora analizzando la grande guerra, quando il suo pensiero è dominato dalla previsione dell’«avvento dell’Internazionale». Annotiamo, in rapida successione, il ricorrere dell’«interdipendenza» come categoria analitica della struttura del mondo13; la valutazione del Commonwealth britannico come nascita di una «nuova forma di società» grazie alla creazione di «una colossale federazione» capace di risolvere «il problema delle nazionalità»; la previsione che la Società delle Nazioni ruoterà intorno a un blocco angloamericano costituito da «una federazione libera [comprendente] 500 milioni di abitanti e una immensa estensione di territorio, che dominerà e sottoporrà al suo controllo i mari di tutto il mondo». «Con tutta probabilità, – conclude Gramsci, sarà – il fenomeno nuovo che caratterizzerà la storia del secolo ventesimo» costringendo «le nazioni latine (…) a diventare satelliti della nuova formidabile forza storica che si sta costituendo». E «sarà un bene», aggiunge, non solo perché le nazioni latine saranno costrette a svecchiarsi, ma anche perché, forse, la pace «sarà assicurata proprio da questo costituirsi di una immane potenza, contro cui ogni altra sarebbe debole e si frangerebbe nel cozzo»14.
Gramsci dunque descrive il sorgere d’una nuova egemonia nelle relazioni internazionali, fondata sull’espansività della potenza industriale, commerciale e culturale dei paesi capitalistici piú avanzati, capaci di diffondere lo sviluppo e promuovere la pace. Il termine usato non è egemonia, ma preminenza; tuttavia il concetto c’è già e comparirà fra non molto nel lemma egemonia mondiale presente in La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino del 5 giugno 1920. In questo scritto affiorano i primi riferimenti al dibattito bolscevico sull’imperialismo dimostrando inconfutabilmente la derivazione del termine egemonia dal leninismo15. Ma, tornando a La nuova religione dell’umanità, è significativo che il concetto di preminenza internazionale si coniughi originariamente con il fatto dell’interdipendenza economica e con l’apprezzamento del progetto wilsoni...