Roma, 20 novembre 1951
Caro direttore,
poiché, in data di oggi, io ho creduto opportuno di cessare le mie Cronache del Cinema trasmesse settimanalmente dalla RAI, Le sarò grata se vorrà pubblicare la lettera di dimissioni da me inviata per l’occasione alla direzione della RAI, affinché siano noti i motivi della mia decisione.
Ecco il testo della lettera:
«Spett. Direzione della RAI, Roma.
«In seguito alla mancata trasmissione della mia Cronaca del Cinema odierna, riguardante il film Senza bandiera, La prego di voler prender nota, da parte mia, di quanto segue; e stimo opportuno, prima di tutto, di fissare qui per iscritto i precedenti della questione, certo già noti alla S. V. Ill.ma.
«Già quindici giorni, all’incirca, prima dell’uscita di detto film, io ricevetti dalla RAI (come certo la S. V. non ignora) una telefonata di stile ufficioso, in cui mi si pregava di occuparmi del film stesso nelle mie Cronache settimanali. Una simile telefonata, del tutto insolita, mi stupí un poco. Da quasi due anni, infatti, io tenevo alla RAI la rubrica Cronache del Cinema, e, com’è naturale, avevo seguito sempre e unicamente il mio personale criterio nella scelta dei film da recensire, senza che gli uffici della RAI mi dessero consigli né s’intromettessero nel mio lavoro. Evidentemente, la RAI considerava l’uscita di Senza bandiera, film diretto da De Felice, e prodotto dalla Elfo Film (Luigi Freddi), un avvenimento di tale importanza, da giustificare l’eccezione.
«A questo invito telefonico, io risposi, com’era logico aspettarsi, che non avrei certo mancato di vedere il film, secondo il mio dovere di critico cinematografico; e che, se esso fosse apparso nei giorni di mia pertinenza (come la S. V. sa, io mi occupavo dei film usciti dal venerdí al lunedí di ogni settimana, mentre che la critica dei film usciti dal martedí al giovedí spettava al collega Bizzarri), avrei naturalmente recensito il film, se lo ritenevo degno d’interesse (non essendo infatti possibile, nel breve tempo concesso alla rubrica, di esaminare tutti i film usciti, tanto io che il critico Bizzarri usiamo scegliere, per le nostre Cronache, quelli da noi ritenuti piú interessanti).
«Un paio di settimane all’incirca dopo questa prima telefonata, fu annunciata la uscita di Senza bandiera per un sabato, giorno di mia pertinenza. Due giorni avanti la prima del film, nuova telefonata ufficiosa, a me, della RAI. In tono allusivo e riverenziale, si insisteva ancora presso di me a favore del film Senza bandiera, di cui mi si nominava il produttore, Luigi Freddi, informandomi che il Direttore in persona aveva a cuore il film. Un poco stupita dell’insistenza, risposi che mi pareva, su questo film, d’essere già d’accordo e che non avevo nulla di nuovo da aggiungere a quanto avevo già detto.
«Mi recai dunque a vedere il film, che è un lavoro, come ognuno può constatare, di mediocre valore artistico, sebbene diretto con cura e recitato con impegno. Gli episodi patriottici ed eroici del racconto, e cioè i piú impegnativi, risultano freddi, slegati e retorici. I meglio raccontati, e piú vivaci, sono gli episodi minori, sugli scassinatori di casseforti. Essendo comunque il Senza bandiera indiscutibilmente il film di maggior rilievo uscito nei giorni di mia pertinenza, io ne preparai la recensione per la solita Cronaca del martedí. È ovvio dire che, come tutte le mie Cronache, essa si ispirava alla massima imparzialità, serenità e obiettività, manteneva il dovuto rispetto all’educazione e alla misura, e non offendeva persone né istituzioni di sorta. Ognuno, del resto, potrà constatarlo leggendone il testo, di cui conservo la copia.
«Ma, evidentemente, questa mia onesta recensione scontentava, non so perché, le esigenze degli zelanti uffici della RAI. Da poco essa era stata consegnata a questi uffici, e mancava un’ora appena alla trasmissione, allorché dovetti rispondere a una nuova telefonata della RAI. Al solito, in tono ufficioso mi si interpellava per informarmi di un nuovo ed improvviso regolamento della RAI secondo il quale si dovevano attenuare le punte critiche nelle recensioni radiofoniche. Rimasi interdetta all’urgenza di simile comunicazione, giacché mai, prima, ero stata informata dell’esistenza possibile di un simile regolamento, né mai avevo ricevuto il minimo appunto alle mie punte critiche, essendomi venute, al contrario, soltanto delle manifestazioni di apprezzamento, sia da parte della RAI, sia da parte del pubblico. Ad ogni modo, risposi che prendevo atto della informazione, riservandomi le mie future decisioni in merito. Ma era fuor di questione, soggiunsi, che la nuova norma non poteva in nessun modo riguardare la recensione di Senza bandiera, da me già scritta e consegnata alla RAI. Al contrario, mi si rispose, il nuovo regolamento andava applicato immediatamente, e proprio a questa recensione; la quale poteva essere trasmessa soltanto con delle opportune modifiche. Dichiarai che questo era inammissibile: o trasmettere la recensione cosí come io l’avevo scritta, o non trasmetterla affatto. La RAI ha preferito attenersi a questa seconda condizione. Per cui, oggi martedí, la Cronaca del Cinema non ha avuto luogo.
«In seguito a questo episodio, del quale non ho ricevuto nessuna spiegazione che soddisfi la mia coscienza, e che offende non soltanto me, ma tutte le persone della cultura, è chiaro che non è piú, d’ora innanzi, possibile la libera e onesta espressione delle proprie opinioni attraverso la Radio. Per cui, con rincrescimento, devo comunicare alla S. V. che da oggi io lascio la mia rubrica alla RAI. Con osservanza, ELSA MORANTE».
Mi sembra, caro direttore, che questi fatti, benché misteriosi, meritino di non rimanere sconosciuti. Lascio a Lei di spiegarli.
ELSA MORANTE
La spiegazione è semplice: il nuovo presidente della RAI Cristiano Ridomi, pubblicista democristiano ed ex-capo ufficio stampa del presidente del Consiglio, ha creduto opportuno ripristinare alla Radio i sistemi di protezione a favore degli amici, in vigore ai tempi dell’EIAR, della Cultura Popolare e di Luigi Freddi.
Pubblicato nella rubrica «Lettere scarlatte», in «Il Mondo», 1o dicembre 1951, p. 10.
Poco piú di dieci anni fa, io facevo la critica cinematografica per la RAI; per una mia fatale incompatibilità coi dirigenti di quell’istituto, fui costretta a dimettermi dal posto; e da allora, vado al cinema assai raramente.
Difatti, l’evasione non è per me; per il poco tempo che mi è dato in questa vita, io non cerco altro che la realtà, intendendo questa parola nel suo significato dovuto, e cioè: sostanza profonda e viva delle cose, di là dalla superficie labile e volgare delle apparenze. Volgare, già, mi piace insistere su questo aggettivo; poiché, per me, irrealtà è sinonimo di volgarità, e dunque, di cosa insana e ripugnante. Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita. Vado a vedere solo i films che mi promettono questa realtà; e si capisce che questi films non sono molti.
Impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita significa, poi, religione. Giacché, evidentemente, la realtà della vita non consiste nella povera convenzione del tempo e dello spazio in cui si muove la nostra singola esistenza individuale; ma nella ragione ultima delle cose, fuori dallo spazio e dal tempo e da ogni individuale interesse pratico. È ovvio che il valore della religione sta in simile significato; e nient’altro che questo naturalmente ripetono tutti i testi divini: dalle Upanishad ai discorsi di Budda, fino al testo piú alto di tutti, e cioè il Vangelo cristiano. Mi vergogno, anzi, di ripetere qui, in queste troppo povere parole, simili cognizioni elementari ed eterne; ma il fatto è (sembra di sognare) che oggi si sentono degli adulti, provvisti di educazione, e di studi, e di mezzi, ed eletti a cariche ufficiali e a responsabilità gravissime: i quali discutono di religione, ignorando, si direbbe, addirittura il significato essenziale e universale di questa parola.
Ma tornando ai films: fra i pochi films che vado a vedere senza ripugnanza, io metto, naturalmente, ai primi posti i films di Pasolini. E questo non certo per l’amicizia fraterna che mi lega a questo autore (amicizia che considero uno dei massimi onori a me toccati nella vita); ma perché, fuori da ogni mio affetto personale, in tutta la sua opera Pasolini si rivela come uno fra le pochissime persone viventi nel nostro tempo dotate di sentimento religioso. Anzi in lui sembra addirittura incarnarsi il dramma della coscienza religiosa contemporanea.
Da quando (piú di dieci anni fa) per una mia fatale incompatibilità coi dirigenti di quell’istituto, fui costretta a dimettermi dalla mia funzione di critica cinematografica della RAI, io vado al cinema assai raramente. Difatti, ai films come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo una realtà, intendendo questa parola nel suo significato dovuto, e cioè: valore intimo e assoluto delle cose, di là dalla superficie ibrida, labile e comune delle apparenze. Vado a vedere solo i films che mi promettono la realtà, o almeno una esplorazione attenta e illuminata verso le sue limpide regioni. E si capisce che simili films non sono molti.
Irrealtà è sinonimo di volgarità, e realtà è sinonimo di poesia.
Gli ignoranti e i filistei (fra cui si contano la maggioranza dei critici comunisti) confondono il reale col suo opposto; e un simile equivoco, spesso intenzionale, nutre la degradazione angosciosa dei nostri contemporanei. Persuasi d’essere molto realisti, si alienano dal reale, e cioè dal motivo segreto e inesauribile della vita, per tenersi alla falsificazione delle apparenze come dire all’irrealtà. La realtà è sempre viva, vera e pura, l’irrealtà è mortuaria, assurda e ripugnante. Irrealtà è sinonimo di volgarità, e realtà è sinonimo di poesia.
Un impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita [qui si interrompe].
Un amico, dopo aver assistito alla proiezione di La terra trema ha detto: «È il piú bel film ch’io abbia mai visto». Io gli ho risposto che sono dello stesso sentimento. Per tradurre questo sentimento in una opinione ragionata, dovrei rivedere il film una seconda volta; ma pare non sia possibile, purtroppo, di rivederlo nella sua integrità.
La qualità che mi fa distinguere La terra trema da altri films, e anche dai migliori, è la seguente: i films di cui parlo, anche quelli che mi procurarono, durante lo spettacolo, una commozione e ammirazione sincera, avevano poi, se vi ritornavo con la memoria piú tardi, un che di fittizio, e un sospetto di artificio. Per quanto grande fosse l’arte del regista, e la bravura degli attori, e l’allestimento delle scene, l’effetto, sebbene splendido, aveva un carattere ibrido: come se i vari elementi naturali, artificiali, artistici e meccanici che servono a un’opera cinematografica non potessero mai confondersi nella semplicità della bellezza. E fosse vera quella opinione volgare che afferma: «Il cinema non è arte».
È un fatto che un regista deve possedere, oltre al proprio talento, un grande coraggio, anzi eroismo, per mettere d’accordo la tribú dei produttori, degli attori, dei mestieranti, le vanità, gli interessi in contrasto, e tutti gli altri ingombri con cui ha da fare durante il lavoro del suo film, rimanendo sempre d’accordo con se stesso. E certo, attraverso imprese tanto complicate, è difficile non offendere la scontrosa e affascinante grazia della poesia. La quale di rado assiste i registi, mentre che si può suscitare, magari, col semplice suono di una chitarra, o con pochi segni di matita su un foglio.
Questa grazia consolante, La terra trema la possiede senza dubbio. Il duro lavoro di preparazione, di ricerca, di allestimento, che un tale film ha certamente richiesto, non lascia in esso nessuna traccia, come avviene nelle opere felici. E nessuna ostentata bravura d’attore, né letteratura di dialogo, né macchinosità di regia viene a turbare i modi semplici e distesi di questo racconto appassionato. Chi consideri le difficoltà del lavoro cinematografico, potrà riconoscere quanta audacia, e umiltà di fronte alla vita, e onestà di fronte all’arte, siano occorsi al regista per un lavoro cosí insolito.
L’ambizione di Luchino Visconti nell’accingersi a questo lavoro, è stata (se non mi sbaglio), la piú ardua, sebbene la piú felice, che possa ispirare un artista: di guardare, cioè, alla realtà umana, e solo alla realtà, con l’animo libero e attento di chi la guardasse per la prima volta. E di ritrarre con assoluto disinteresse e abbandono, senza ricerche di effetti, né propositi di successo volgare, né retoriche di nessun genere, le fatiche inquiete degli uomini in mezzo alla misteriosa natura, e i loro sentimenti perenni e spontanei. Cercando di intendere, attraverso questa semplice realtà studiata con amore, la prima ragione della storia o tragedia umana e dei suoi miti.
La fedeltà del regista a un simile disegno è stata cosí rigorosa ch’egli ha deciso di comporre il suo film con immagini non dell’artificio, ma della vita stessa. Non ha voluto servirsi né di teatri, né di attori, né di sceneggiatura; e, scelta a protagonista della sua storia una immaginaria famiglia di pescatori siciliani (ispirandosi, come si sa, ai «Malavoglia»), è partito per Acitrezza, disposto non tanto a scoprire, quanto a riconoscere laggiú gli eroi della sua scelta. La quale non era certo stata casuale. C’è sempre un destino che dispone gli incontri degli artisti coi proprii eroi. Ma mentre i poeti e i romanzieri devono accontentarsi di incontri immaginari, a Luchino Visconti è toccata la invidiabile ventura di vi...