[Torino,] 31 maggio 1920
Era tutto cosí semplice ieri sera, quando ti vedevo ti udivo ancora, ti sentivo vicino a me.
Ecco – pensavo – il mio bimbo parte, ma torna presto, cosí presto e vuol tanto bene a didí1. Che cosa sono 12 giorni? e poi riprenderà la nostra vita un ritmo anche piú intenso e piú dolce, piú ricco di felicità.
Era tutto semplice perché tu non eri partito ancora.
Ma questa mattina, quando ti ho sentito scendere, allontanarti, non sono stata piú che una piccola bimba tutta sperduta.
Tu sai già tutto questo. Ed è inutile quindi che ti dica come ti ho chiamato, come son venuta con te con tutta l’anima mia.
Poi sono andata nel sole, in questo sole splendente che certo ora accarezza anche i tuoi riccioli e sentivo intanto un desiderio infinito di poter prendere tutto il sole, di tenerlo tra le mie piccole mani e di portartelo come ti ho portato un giorno il mio amore.
Tutto il sole, tutta la luce bella ti vorrei dare, bimbo: e non ti posso dare che questa mia povera anima piccola, che trema ad ogni sorriso, ad ogni fiore che sboccia.
Tu non vuoi che io resti ai tuoi piedi: ma non importa. Ai tuoi piedi ho messo un giorno l’anima mia, un giorno non molto lontano in cui ho compreso che piú nulla di me m’apparteneva, dicendoti: fanne ciò che vuoi. E la mia anima non la potrai sollevare mai piú.
Sai, ieri sera ho letto tanto Dante. E ho trovato Beatrice, la Beatrice vera, non quella che scioglie i dubbi teologali con una logica serrata.
E mai come allora didí ha compreso di essere cosí vicina a Beatrice, di essere anzi Beatrice nel suo divenire eterno.
Sei contento, Piero, che finalmente abbia compreso questa verità?
Che importa se non sono che una bimba piccola, talvolta cosí puerile?
Per essere Beatrice occorre la illuminata volontà d’amore, la dedizione completa, perfetta, serena.
Ed a questo credo di essere giunta, anzi sono sicura di essere giunta per sempre.
Non importa essere grande: tra le tante cose che ho imparato quest’anno è pure questa: che non bisogna ostinarsi a portare un abito che non è fatto per noi.
E ho compreso quindi che era sciocco ed inutile mi ostinassi a perseguire un ideale di grandezza e di forza quasi virile che presentava uno squilibrio con la mia natura. Ho compreso.
Amore mio infinito, io non posso essere Beatrice che nell’esplicarsi e nel progredire della mia tenera umiltà.
Quanto sole, quanto sole e quanto vento! Risento le ondate folli degli archi di Smetana, risento il fruscio di un sentiero, tra la collina, che ha tanti sorrisi.
Bimbo, bimbo, voglio venire con te, da te, sempre!
Che pazza didí che vuole sempre quello che ora non può avere. Ma ora anche questa pazzia è passata e sono calma e penso.
Tu vai, vai, lontano, a quest’ora forse sei già a Genova e nel tuo cuore forse canta la voce di Beatrice e nei tuoi riccioli si distingue ancora il solco della mia tenera carezza, amore.
Ieri sono stata all’esposizione della Promotrice2: una cosa pietosa: non c’è nulla che valga un assis, come dice Catullo.
Non puoi immaginarti che impressione sgradevole mi abbia fatto vedere nella sala di Casorati, al posto del ritratto3 un banalissimo effetto di luce circondato da ritratti e quadretti di genere.
Il fatto è che non solo sono brutti, ma sono anche pochi.
Nel salone non ci sono quadri: l’hanno trasformato in sala da concerto. Nella sala d’angolo dove c’era Carena hanno messo progetti architettonici per la chiesa dell’Annunziata, in massima parte!
E nella sala di Previati, c’è la mostra personale di Cavalleri: non vorrei giudicarlo male, perché ho guardato di sfuggita e con una disposizione di spirito molto poco adatta, ma mi pare che sia anche questa una cosa da far pietà.
Sono stata a rendere i tuoi libri, il che, non so perché, ha molto irritato il bibliotecario.
L’importante è che la scheda me l’ha data e quindi basta.
Sai, bimbo, ho finito il Giussani4? Ora trigonometria su tutta la linea.
Sii lieto, amore, sorridi al sole, al vento, alla vita, a
didí
[Torino,] 31 maggio 1920
C’è nella mia anima, tanta serenità come mai avrei creduto di potere avere: il cielo è chiaro, sereno, pieno di vento. E ci sono tante stelle.
Domani ci sarà di nuovo un sole splendente. E tu giungerai a Roma, bimbo, sotto una purezza meravigliosa di cielo. E, come accade in queste mattinate luminose sentirai pulsare piú forte la tua vita. Forse penserai a Beatrice, con fede.
Ricordo una simile calma notte dell’altro anno. Quando non avevo ancora compresa la via serena dell’amore e mi tormentavo ancora angosciosamente. Mi pareva che qualcosa mi sfuggisse. E, ricordo, tendevo le mani verso il cielo, gridando: voglio tutte le stelle e tutto il sole del cielo e tutte le rose della terra.
Volevo troppo, forse? No, per ottenere tutto, bisogna volere tutto.
E tutto ho raggiunto attraverso le mie crisi d’anima, le mie puerili talvolta tristezze.
Non vuol dire però che io creda d’aver per sempre superato ogni malinconia: ho imparato ormai che non si risolve tutto per sempre con un atto di volontà di un istante: la vittoria è frutto della lunga sofferenza e della lunga battaglia. Ma ogni volta che si vince resta in noi qualche cosa che non scompare mai piú.
E credo che per sempre questa divina serenità lascierà il suo segno nella mia vita.
Bimbo, dove sei ora? Sono le 12. Certo tu viaggi. Io leggo Shakespeare. Sento, malgrado le circostanze completamente diverse, una certa affinità di spirito con Ofelia, con Desdemona specialmente, sorelle dolci dell’anima mia.
Amore, amore mio, vieni a sfiorare la mia fronte, perché possa addormentarmi sorridendo.
1° giugno
Ho di nuovo sorriso al sole e al cielo, ho di nuovo cantato la mia fresca canzone che benedice la vita.
Ho ricominciato ad attenderti: quando non sei vicino a me, che cosa può essere la mia vita se non attesa? Ma non attesa paurosa e incerta: attesa piuttosto chiara, limpida, sicura.
Non so, non penso quando tu tornerai.
Ti attendo, semplicemente. Perché quando tu torni trovi il mio sorriso, la mia carezza, sempre piú luminosi e piú teneri, la mia fede e il mio amore sempre piú grandi e piú tuoi.
didí
[Torino,] 1° giugno 1920
Sono tornata ora da un’esercitazione dedicata a Pick-Mangiagalli1.
Non è certo un gran musicista, ma pure ha una certa grazia languidetta e birichina che attrae. E non gli si può neanche negare nei pezzi piú recenti una certa originalità. Ma ciò in cui riesce meglio, secondo me, è ancora il genere pantomime-pierrot-mascarade.
C’è in questi della freschezza e persino a volte un’evidenza plastica. Del resto è di questo genere il Carillon Magico, credo.
Bimbo mio, questa sera sono stanca di musica: tutto il giorno ho suonato Mozart e Beethoven per il concerto del Regio di domani sera2. La VII di Beethoven è una cosa terribilmente bella e spaventosa. Per me ci sento il folle grido di chi si sente morire e vuole ridere ancora a la vita. Non c’è «adagio». È tutta una successione di note, d’accordi, d’arpeggi, senza tregua, ripetuti a volte con un’insistenza lugubre, come di chi voglia coprire col piú forte canto il vuoto di qualcosa. Per orchestra deve essere atroce.
Poi ho ritrovato Mozart: una serenità, una grazia senza fine. Lo capisco meglio. È limpido e chiaro, non superficiale. C’è anche in Mozart del dolore. Solo che non lo grida forte: spasima in fondo e copre la sua angoscia col sorriso. A volte quando dopo una frase di dolore velato riprende improvviso il tema scherzoso di prima, ti sa d’amaro, non so perché.
Letteratura? Forse, ma io sento cosí. Credo che per riuscire a capire la musica da un punto di vista unicamente tecnico, dovrò mettermi a regime di penitenza senza lasciarmi troppo guidare da questa pazza musicalità che ho sempre nel cervello.
Un progresso però l’ho già fatto, sai? Non ho piú composto nulla, neanche romanze! Comincio a credere che ci sia qualche speranza di guarigione.
E il poema sinfonico di Gand[ini]? Che roba è? Proprio tanto bella?3.
Amore mio infinito, ora leggerò Dante: anche Dante è tutto musica e luce. Mi pare di incominciare a capir bene il Paradiso. Forse perché ricordo quando si leggeva insieme, vicini, vicini.
Bimbo, bimbo mio, c’è un vento pazzo che urla forte forte e porta via con sé ogni tristezza. Ma perché non sei vicino a questa piccola didí che ti chiama?
Mezzanotte. Mi pare ad ogni momento di doverti sentire arrivare.
No, è meglio che lasci, perché sento che divento triste, e non voglio.
Addio, bimbo, dammi la tua fronte, che la benedica coi miei baci.
2 giugno
Ti volevo spedire questa lettera che t’ho scritto ieri sera e mandartene un’altra domani.
Ma poiché, al contrario di ciò che speravo stamattina non ho ricevuto nulla da te, questo significa che la posta fa servizio con una rapidità addirittura leggendaria. E siccome non ho la vanità di credere che per le mie lettere piuttosto che per le tue sia fatta eccezione alla regola credo che la lettera che ti avrei mandata domani non ti sarebbe arrivata piú.
Per questo e per non seccare anche tanto la Sig.na4, ho pensato di includere le due lettere in una busta sola: spero che ti arriverà e che ti saranno anche arrivate le due precedenti.
Bimbo, bimbo mio, come vorrei essere con te: non so, ho tale una pienezza, una completezza, una profondità di vita e d’amore in me, che vorrei potertela fare tutta sentire.
Perché, amore, talvolta, negli ultimi tempi, mi chiedevi dubbioso del mio amore, come se tu non ne fossi sicuro? Non senti come è grande, come è sicuro, come è eterno? Non hai la certezza assoluta che mi troverai sempre pronta a stringerti sul mio cuore, per l’eternità?
Mai come ora sono stata cosí profondamente tua, bimbo. Mai come ora ogni volta che abbandono la mia mano nella tua, sento che con essa ti abbandono la mia vita. E cosí sarà sempre.
Ora non rimpiango piú nulla di ciò che è stato. Quanto è avvenuto è tutto giusto e santo. Perché tutto nella vita è santo.
E ancora una volta, venendo a te, ti debbo dire: perdonami. Cosí numerose e frequenti...