Sei come sei
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Sei come sei

  1. 248 pagine
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Sei come sei

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Informazioni sul libro

Eva ha undici anni ma sa già cos'è il dolore. L'ha scoperto quando suo padre Christian è morto all'improvviso. Eva sa già cos'è l'abbandono, perché anche suo padre Giose adesso non c'è piú: si è ritirato in un casale sugli Appennini quando il tribunale, dopo la morte di Christian, ha deciso che non è lui il tutore piú adeguato per sua figlia e ha preferito affidarla a uno zio che vive a Milano. Ma Eva conosce bene anche la felicità: perché lei, Christian e Giose sono stati una famiglia felice, unita e bellissima. E, per riacciuffare quella felicità, Eva è disposta a fuggire, ad attraversare l'Italia e tornare da Giose, per fargli tutte le domande che non gli ha mai fatto. Drammatico e divertente, veloce come un romanzo d'avventura, Sei come sei ci porta dentro l'amore tra un padre e una figlia, diversi da tutti e a tutti uguali, dentro i sentimenti che uniscono le persone al di là dei ruoli e delle leggi. *** «Eva esce dal libro come un'eroina letteraria in vera regola».
Michele Serra «Un romanzo che scava gallerie profonde nelle emozioni. Un elogio delle radici dell'amore».
Fabio Geda

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426388

Amico di famiglia

La strada è un canale fra zolle di neve scomposte dal vento. È percorribile a malapena, almeno fino al casello di Orte. Il cielo è bianco, le previsioni brutte, ma Giose ha voluto ugualmente mettersi in viaggio. Eva non si è opposta. Non si cambia da tre giorni, ha le mutande luride e i capelli sporchi e non si sente nemmeno troppo bene. La assale, a intermittenza, una fitta in basso a destra, poco sopra la piega della coscia. Forse è un attacco di appendicite. Almeno, Luca lamentava un dolore proprio lí e poi si è dovuto operare d’urgenza. Della fitta, che col passare delle ore pizzica come una puntura di coltello, non dice niente a Giose. Non vuole che si preoccupi anche di questo. Però ammalarsi le sembra una buona soluzione. Dovrebbe ammalarsi quasi da morirne. Se stesse davvero male, non potrebbero negarle di esaudire il suo unico desiderio. Ai bambini leucemici anche i calciatori piú famosi regalano la maglietta firmata, qualche volta li vanno perfino a trovare in ospedale. Ringrazia il dolore, spera che non passi, accoglie con gratitudine ogni nuova fitta. Ma poiché non raggiunge un’intensità tale da farla svenire, o urlare, si dice che forse l’appendicite non sarebbe abbastanza. Dovrebbe procurarsi una ferita grave. O un avvelenamento. L’allergia alle noci? Genitori e medici le hanno sempre spiegato che non regredisce. Non è come quella al latte o alle uova, che si cura da bambini, e col tempo può sparire. Eva non sa quanto sia grave la sua. Era troppo piccola quando i suoi padri se ne accorsero, non ricorda se la reazione le procurò un’eruzione cutanea, la tosse, l’asma o addirittura uno shock anafilattico. È cresciuta sapendo di non poter mangiare certi alimenti, e non li ha mai mangiati. Forse non funzionerebbe. Ci può sempre provare.
Scendono quasi a passo d’uomo giú per la statale della Valnerina, incolonnati dietro una bisarca. Man mano che l’altitudine diminuisce, la neve sciolta allaga l’asfalto e le ruote affondano in una densa melma nerastra. I cartelli stradali indicano sessantacinque chilometri a Terni, sessanta, cinquanta, quarantacinque. La distanza, che Giose finora ha percorso senza neanche accorgersene almeno una volta a settimana per andare a trovare sua madre, si è come dilatata, e la sua scelta di trasferirsi nel casale del nonno gli si rivela – come l’hanno sempre ammonito gli amici – una specie di ritirata. Non saprebbe dire se somiglia di piú all’esilio di un guerriero sconfitto, alla solitudine del re sotto scacco matto, o all’abbandono del branco da parte di un animale ferito che vuole sottrarsi alla vista dei suoi simili.
Ma non rimpiange gli ultimi ventiquattro mesi vissuti nella solitudine dei monti Sibillini. Nello studio di registrazione che si è allestito nel casale ha ricominciato a comporre. Non per sé – esibirsi e cantare ormai non lo interessa piú, non allena nemmeno la voce. Ma per altri ragazzi, che sono all’inizio di tutto. Per Max di Trani, per Sofia di Pordenone. Comunicando quasi solo attraverso internet, ha finito per entrare in contatto con persone che vivono in altre realtà, perfino in altri continenti, ignorano le angustie del suo presente e lo considerano semplicemente un musicista. È cosí che lo ha contattato il dj Sami da Brisbane, chiedendogli il permesso di remixare Disadatto, per trasformarlo in un pezzo dance. Voleva usare la versione in inglese che Giose aveva inciso per la tournée in Olanda, e che era stata considerata da tutti un fiasco. Non sono convincente in un’altra lingua, era stata la sua conclusione, e nemmeno voglio esserlo. Sono un cantante italiano. Ho sempre pensato i miei testi nella mia lingua, le parole della mia musica dovevano essere le stesse parole consunte con cui ordino un caffè ed esprimo i miei sentimenti, quelle della mia vita quotidiana, dei miei amori, dei miei sogni, non volevo imitare i grandi artisti d’oltre Manica o d’oltre oceano. Anche se mi hanno sempre paragonato a loro, come se io non avessi diritto a essere semplicemente me stesso. Ian Curtis, Brian Ferry, David Bowie e Nico c’erano già: se io dovevo esistere, dovevo essere Yuma. La proposta del dj Sami gli è sembrata una follia, ma glielo ha concesso. Non ha niente da perdere, e Sami, impertinente, entusiasta, un po’ folle, gli è simpatico. Ha poco piú di vent’anni, è un nativo digitale, ignora la cronologia: per lui il tempo è virtuale, non lineare, il passato non esiste, la musica è tutta contemporanea. Frulla insieme le cellule sonore piú disparate, mescola i generi, clona i refrain e campiona le voci – e la sua adesso si libra eterea al di sopra del ritmo ossessivo del groove. Il remix ha lasciato Giose interdetto. Ogni tanto lo riascolta, si sforza di liberarsi dei pregiudizi, non vuole sentirsi cosí vecchio da non capire la musica di oggi: ma la perplessità persiste. Non si riconosce. Forse perché da secoli non va a ballare, e il suo corpo non si lascia piú trascinare dal ritmo.
Il viaggio è monotono, Eva si annoia. Da troppi chilometri davanti a sé, di là dal parabrezza, vede solo lo sportello ammaccato di un furgone, su cui l’autista ha incollato un pannello con la cordiale scritta: TI AUGURO IL DOPPIO DI QUELLO CHE AUGURI A ME. In passato, quando partivano per le vacanze, Christian guidava e Giose la intratteneva cantando: faceva finta di essere la radio, che Eva accendeva e sintonizzava torcendogli un orecchio. Pretendeva le sigle dei cartoni animati e dei telefilm, non solo di quelli che guardava lei ma anche di quelli che avevano guardato Giose e Christian quando avevano la sua età – Sandokan, Furia cavallo del West, Heidi, Capitan Harlock, Lady Oscar. E perfino del tempo delle nonne. O canzoncine orecchiabili, che Giose pescava intatte dalla memoria remota degli anni Sessanta, quando aveva consumato il giradischi portatile, per ascoltarle, sognando di convincere suo padre a lasciare che la madre lo accompagnasse a Bologna per farlo accettare nel coretto dell’Antoniano di Mariele Ventre o almeno partecipare allo Zecchino d’Oro: ma Egidio Autunno non si era fatto commuovere e mai gli aveva dato il permesso. Cantare fregnacce? Esibirsi su un palcoscenico? Cose poco serie. Una perdita di tempo, che non serve a niente, perché non dà da mangiare. Non se ne parla nemmeno. E già a sei anni Giose aveva intuito che suo padre gli sarebbe stato sempre nemico, se avesse voluto essere diverso da lui. Piú di tutte, entusiasmava Eva la versione di Giose di Volevo un gatto nero. Cambiava stazione radio tirandogli i capelli, o vellicandogli il collo, e lui alterava la voce, passando dal timido pigolio della piccola Vincenza Pastorelli allo Zecchino d’Oro ai gorgheggi di una cantante degli anni Cinquanta. Giose si moltiplicava per due, dieci, venti persone. Il tempo volava, era cosí divertente.
Lo esorta a farlo di nuovo. Lo provoca, chiedendogli se ne è ancora capace. Sto guidando, mi distraggo, tenta di schermirsi lui. Eva lo scongiura di farle il perduto amore. Giose tamburella con le dita sul volante. La strada è sgombra, le ragnatele di ghiaccio sul vetro si sono sciolte, le gole tortuose del Nera e lo strapiombo di Triponzo li hanno superati, le curve peggiori sono alle spalle. Si schiarisce la voce. Ok, vienimi dietro, dice. E intona il primo verso. Sola me ne vo per la città… Eva emette un gridolino di approvazione. Passo tra la folla che non sa, che non vede il mio dolore, cercando te, sognando te che piú non ho...
All’altezza di Sant’Anatolia di Narco, Giose ci ha preso gusto. Eva canta a squarciagola con lui, ogni viso guardo, non sei tu, ogni voce ascolto, non sei tu, ti rivedrò, ti troverò ti seguirò… Dopotutto non è cosí stonata, e riesce a tenere piuttosto abilmente il ritmo incalzante dello swing. Giose ha vocalizzato il suono della tromba e del sax nell’intermezzo strumentale, ha reso piú acuta la voce, imitato il falsetto anni Quaranta di Nella Colombo, ripetuto due volte cercando te sognando te che piú non ho come nella canzone originaria, e poiché Eva applaude battendo frenetica le mani, a grande richiesta attacca il bis. Si sta inerpicando sulla terza strofa – io tento invano di dimenticar, il primo amore non si può scordar, è scritto un nome un nome solo in fondo al cuor – e cosí non avvista il posto di blocco. C’è un carabiniere, sul lato destro della carreggiata. Intirizzito come un pupazzo di neve, e però ligio al dovere, quasi stoico. Giose si interrompe all’improvviso e rallenta, ma ormai quello ha sbandierato la paletta.
La macchina si arresta in una pozzanghera, dieci metri piú avanti. Nello specchietto retrovisore, Eva vede il carabiniere che arranca verso di loro. Ha la faccia ingrugnata e il passo scoglionato di chi cerca un pretesto per sfogare la frustrazione. Del resto non deve essere piacevole starsene all’addiaccio, lungo la statale della Valnerina, con questo freddo.
Giose abbassa il finestrino, il carabiniere chiede di favorire i documenti suoi e dell’auto. Si china a controllare le gomme. Sembrano termiche. Meglio, non deve verificare se l’automobilista ha le catene a bordo. È pieno di imbecilli che si intraversano sulle strade, in questi giorni. E un paio di catene costano meno della multa che rischiano. Giose tiene la patente nella tasca del giaccone, che ha abbandonato sul sedile posteriore. Si slaccia la cintura e scende. Il carabiniere pesta i piedi sulla neve e rivolge uno sguardo inquisitorio a Eva, che lo fissa spavaldamente. Non vuole che pensi che ha paura di lui. Giose le ha detto che Loris Forte non è morto, e con ciò si illude di non avere niente da temere da un uomo in divisa, né da nessuno.
Il carabiniere afferra con le mani guantate la patente di Giose, scruta dubbioso il diciottenne capellone che occhieggia nella fotografia sbiadita. Giose sa di non assomigliargli neanche un po’, ma non è colpa sua se ogni volta, invece di obbligarlo a sostituirla, gli rinnovano la patente – che ormai, dopo piú di trent’anni di servizio, è ridotta a un cencio rosa pallido macchiato d’inchiostro. Il carabiniere si incammina verso la macchina, bastardamente seminascosta tra le fronde di un albero, nella piazzola di un ristorante. Ecco perché non l’aveva notata.
Giose preferisce non seguirlo e risale. Va tutto bene, dice a Eva, devono solo controllare chi sono, lo fanno sempre, è il loro lavoro. Ma mentre si sforza di apparire perfettamente padrone di sé, deve contrarre le mani a pugno perché lei non veda che gli tremano. Si chiede se l’altro ieri Michele e Sabrina hanno denunciato la scomparsa di Eva – prima di ricevere la sua telefonata. E se l’hanno denunciata, se si sono ricordati poi di avvisare che Eva è stata rintracciata. Nell’orologio del cruscotto i minuti scorrono lenti. Uno, due, tre, cinque.
Il naso paonazzo di freddo del carabiniere ricompare nel quadro del finestrino. Giose lo abbassa di nuovo. I documenti della bambina, prego. Eva raccoglie lo zainetto che tiene fra le gambe, ma è un gesto inutile, giusto per prendere tempo. Non ha documenti con sé, a che le servono, una ragazzina non va mai sola per la città. A Milano c’è il suo passaporto, ma lo conserva Michele da qualche parte e lei non ha scoperto dove. Michele non si fida di farglielo custodire. Eva lo sa. Michele ha perfino costretto Luca a togliere la carta geografica del mondo in scala 1:23 000 che il cugino teneva appesa in camera da letto. Perché una volta l’ha sorpresa a studiare i nuovi confini degli stati dell’ex Unione Sovietica e ha pensato che stesse cercando di capire come raggiungerli. Allunga al carabiniere il tesserino magnetico del circolo sportivo dove si allena la sua squadra di ginnastica ritmica. C’è la sua foto, il suo nome, dovrebbe bastare. Il carabiniere legge GAGLIARDI EVA. E guarda di nuovo la patente di GIUSEPPE AUTUNNO. Cognomi diversi. Non sono parenti. Può scendere prego – è un ordine, non una domanda. Tu stai qui buona, le sussurra Giose.
Eva rimane sola. Sulla strada passano bianchi camion frigo che trasportano generi alimentari, rare automobili col tettuccio crestato di neve, e lei non riesce a vedere i carabinieri con Giose, perché sono dietro la macchina, nella piazzola. Apre il cassetto del cruscotto, trova solo il libretto di istruzioni per la manutenzione del veicolo. Niente che possa aiutarla a distrarsi. Si volta, torce il collo, aspetta, non tornano. E se succede qualcosa a Giose, se lo portano via. Per colpa sua. Che cosa possono fargli? Lo mettono in prigione? Lui non ha fatto niente. Ho deciso tutto da sola. Vede Giose in manette, Giose rinchiuso in cella, Giose preso a calci e sputi dagli altri detenuti, Giose condannato a starle lontano, non può avvicinarsi a casa sua, mai piú di un chilometro. Sono cose che succedono. L’ha letto sul giornale. Non controlla piú il battito del cuore. Scende.
Non lo hanno arrestato. Giose confabula col carabiniere piú vecchio, un brigadiere, forse. Le volta le spalle. Quello giovane continua a strofinare le mani, palmo contro palmo. Nonostante i guanti, sono congelate. Ha appoggiato il blocco dei verbali sul cofano della macchina. Il foglio superiore è bianco, e non sta scrivendo, non gli fanno la multa. Eva avanza a passo di carica, s’infila tra il brigadiere e Giose e si appende al braccio di lui. Non stiamo facendo niente di male, perché non ce ne possiamo andare? protesta. Le esce una vocetta lamentosa, un belato da bambina indifesa – anche se vorrebbe sembrare esattamente il contrario: un’adulta, indipendente, libera di gestire la sua vita. Stiamo tornando a Milano dai miei zii. Gliel’ho già detto, dice Giose, scompigliandole i capelli, va tutto bene, stanno solo verificando.
Il brigadiere ha il telefono di Giose incastrato fra spalla e orecchio. Non apre bocca, ascolta. Eva riconosce la voce stentorea di Michele – sí, sta dicendo, certo che lo conosce, certo che lo sa che sua nipote Eva è in compagnia di quell’uomo, tutto vero, Giuseppe Autunno è un amico di famiglia.
Giose riguadagna la macchina lentamente: non vuole dare l’impressione di avere fretta di andarsene, né di avere avuto paura di essere portato in una stazione dei carabinieri della Valnerina dove non avrebbe saputo dimostrare di non aver mai avuto intenzione di sparire con Eva in capo al mondo. Perché l’ha avuta. Ma non si processano le intenzioni. L’amore non è un reato. Il carabiniere, inebetito dal freddo, li segue con sguardo opaco. Un amico di famiglia – rimugina Eva, offesa. Un amico di famiglia! Perché non gli hai detto la verità? esplode, sbattendo lo sportello. Tu non sei un amico di famiglia! Giose ingrana la marcia, preme l’acceleratore e si immette sulla statale. Sei un vigliacco, vigliacco, vigliacco! grida Eva. Ti sta bene cosí, sei questo per me? Dovevi dirgli che sei mio padre.
Giose non reagisce. Nello specchietto retrovisore, in fondo al rettilineo, il carabiniere con la paletta è ormai piccolo come uno spillo. Quelle parole si sono incrostate nella sua coscienza. Feriscono, offendono, umiliano. Un amico di famiglia. Un amico di famiglia. Ecco quello che sei. Eva si volta e, siccome ormai è certa che i carabinieri non possano inseguirli, gli indirizza una linguaccia. Io speravo che tu venivi a rubarmi, lo rimprovera. Ancora una volta la sua voce esce rauca, infantile, come quella di una bambina di otto anni. Tutti i giorni a Bruxelles quando uscivo da scuola guardavo la strada. Tu non c’eri mai. Si ruba qualcosa che non ci appartiene, Eva, dice Giose. Io non voglio rubarti, tu sei mia figlia.
Quando raggiungono lo svincolo di Terni, l’orologio del cruscotto segna già le 12.26. Eva riconosce l’incrocio, le caserme, gli edifici monumentali delle acciaierie. Propone di pranzare dalla nonna. Siamo già in ritardo, protesta Giose. Eva insiste, basterà mezz’ora, la vuole salutare, non la vede da tanto tempo. In realtà vuole farsi perdonare, ma Giose non può saperlo.
La madre di Giose abita nel quartiere dietro la superstrada, al pianterreno di una palazzina verde pisello. Era nuovo, e rispettabile, quando ci venne ad abitare, negli anni Sessanta, ora è un ammasso increscioso di cemento, lamiere, verande e balconcini requisiti da ingombranti antenne paraboliche. Gli abitanti originari si sono trasferiti in zone piú confortevoli, rifluendo come il mare dalla spiaggia e lasciando dietro di sé appartamenti bisognosi di ristrutturazione, affittati a inquilini stranieri coi mobili scalcagnati che non hanno portato nelle case nuove e i soffitti macchiati dalle infiltrazioni dai terrazzi. La madre di Giose non conosce piú nessuno, i nomi sul citofono sono esotici coacervi di consonanti. Il giardino è impolverato di neve, la vite spoglia della pergola leva i rami al cielo come un candelabro, e lei è lí, con le cesoie in mano, che sagoma la siepe. Il suo giardino è l’unico curato per isolati interi. Gli altri sono fazzoletti disadorni, discariche di biciclette arrugginite, piantagioni di ortiche. La signora Pia del resto non ha altro da fare. Passa i giorni a zappettare le aiole e accudire le piante, preoccuparsi per il figlio e chiedersi a cosa serve vivere se il futuro sarà solo una ripetizione, ma piú misera e piú faticosa, dei giorni che ha già vissuto.
Giose! Eva! trasecola, ma che ci fate qui? Giose non le ha detto che c’era la bambina con lui, ieri. In un certo senso glielo ha nascosto. Perché? Cosa c’è sotto? Eva spinge il cancelletto e le corre incontro con tanta foga che quasi la placca, la fa vacillare e rischiano tutte e due di ruzzolare. Ce l’hai qualcosa nel forno nonna? strilla, allegramente, perché ci autoinvitiamo a pranzo! La nonna l’abbraccia, incredula, lanciando al figlio occhiate interrogative. Lui scuote la testa, come a dire: ti spiego dopo. Ma non le ha mai spiegato niente. Ha sempre temuto che non lo avrebbe capito.
La madre di Giose ha adorato la nipotina, l’unica – perché lei non aveva avuto altri figli. Giose era arrivato quando ormai non ci sperava piú – tardivo, prezioso e raro come una pepita d’oro in una miniera esaurita. Lo considerava un dono della Beata Vergine, una grazia ricevuta dopo il pellegrinaggio al santuario di Macereto. Ci era andata ogni quindici agosto, sull’altopiano in mezzo ai monti, per dodici anni. Si inginocchiava davanti al quadro della Madonna, chiedendo sempre la stessa cosa: un figlio. E alla fine, era stata esaudita.
Dopo la morte di Christian, e la partenza di Eva per Milano, non aveva interrotto i rapporti coi Gagliardi. Venga quando vuole, Pia, le aveva detto magnanima la madre di Christian. Nella casa di Trequanda c’è sempre posto per lei. Cosí la madre di Giose andava a trovare Eva, in Toscana, quando lei e la famiglia di Michele ci passavano il fine settimana. Nonna Pia, che non aveva mai viaggiato, neanche quando era giovane e forte, ormai malandata e col passo tentennante trascinava penosamente la valigia lungo il binario e tutta sola si arrampicava sul treno interregionale. Eva e Margherita Gagliardi l’andavano a prendere con la jeep alla stazione di Chiusi. Quando le visite si erano diradate a causa del trasferimento in Belgio, ed erano divenute sporadiche, frettolose, la nonna Pia aveva cominciato a fare a Eva un’impressione vagamente spiacevole. Cosí rattrappita, con la pelle rugosa come un guscio di noce, il cappotto di astrakan fuori moda da secoli di una bruttezza imbarazzante e le scarpe sformate a causa delle cipolle sporgenti degli alluci, sembrava una domestica – cosa che peraltro era stata davvero, prima della nascita di Giose. A Bruxelles Eva frequentava la Scuola Europea, dove tutti erano figli di diplomatici e funzionari della Ue, e aveva imparato che le persone sono in oppure out. Nonna Pia era out. Eva voleva essere in. Non era stata affettuosa, l’ultima volta, due Natali fa, non le aveva quasi rivolto la parola, facendola sentire un’estranea, e la nonna non era piú tornata.
La signora Pia apparecchia il tavolo in salotto, anche se Giose per sbrigarsi preferirebbe mangiare in cucina. Dalla credenza resuscita il servizio buono di Ginori, e la tovaglia di lino di Fiandra. Roba di cui Giose ha dimenticato perfino l’esistenza. Non viene volentieri qui. Non è cambiato niente, la casa è rimasta com’era quando ci abitava lui, bambino, adolescente, ragazzo – le tende a losanghe optical a schermare le finestre, i divani di pelle grinzosa, i liquori semisolidificati in bottiglie di vetro senza etichetta, col tappo pure di vetro, il vaso di fiori comprato a Sorrento, l’anatra bianca di ceramica accovacciata sul tavolino, col ventre cavo pieno di carte da gioco. Una volta sua madre era una cuoca notevole, ed è stata la sua prima maestra, ma anche lei vive sola da troppi anni e ormai ha perso la mano, le trofie sono quasi crude e crocchiano sotto i denti.
La nonna chiede alla nipote di raccontarle cosa ha fatto tutto questo tempo. Eva dice che è diventata grande. La nonna dice tristemente che lei invece è diventata vecchia. Ma adesso l’aspettativa di vita si è allungata – osserva Eva, senza rendersi conto che è preferibile non parlare del futuro con una donna ultraottantenne sofferente di diabete cronico e cui è stato appena espiantato un rene – puoi vivere almeno fino alla mia laurea. Io studierò letteratura perché voglio fare la scrittrice. Pensavo volessi fare la malacologa, le ricorda la signora Pia. Le ambizioni della nipote le sono sempre sembrate smisurate, rimaneva ogni volta stordita dalla sua determinazione. Sorpresa, anche: lei non aveva mai avuto altra ambizione che sposare il taciturno Egidio Autunno e mettere al mondo i suoi figli. Ma le persone sono molto piú interessanti dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’anno zero
  4. Sola me ne vo
  5. Eclissi
  6. Le ore disuguali
  7. Concezione
  8. Amico di famiglia
  9. Gestazione
  10. Quel treno per Yuma
  11. Il libro
  12. L’autrice
  13. Della stessa autrice
  14. Copyright