Chiacchiere di bottega
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Chiacchiere di bottega

Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Chiacchiere di bottega

Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro

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Queste conversazioni, appunti di lettura, ricordi e lettere nascono da occasioni diverse, ma da un'unica voglia di capire. Mosso dall'ammirazione, dalla solidarietà, dalla simpatia, Roth viaggia per l'Europa, gli Stati Uniti e Israele, e incontra scrittori che hanno sollecitato in lui la necessità di «chiacchierare» del proprio e dell'altrui lavoro. A Torino incontra Primo Levi, con cui parla di Olocausto, precisione scientifica ed etica del lavoro ben fatto. A Londra e nel Connecticut affronta con Milan Kundera il tema del totalitarismo, ma anche del destino del romanzo. E poi viaggia fino a Praga per incontrare Ivan Klima, a Londra parla con Edna O'Brien del suo «esilio volontario» dall'Irlanda, a Gerusalemme conversa con un altro sopravvissuto, Aharon Appelfeld, di ebraismo e assimilazione. Occorre dire che la curiosità sfoggiata da Philip Roth in queste pagine non è moneta corrente tra gli scrittori. Raccontando dell'amicizia con Bernard Malamud, per esempio, Roth cita una regola di cortesia non scritta tra i romanzieri che «prende atto di quanta poca sincerità si sarebbe in grado di sopportare dall'altro». Eppure, con alcuni di loro, Roth è pronto a lasciare il centro della scena e a trasformarsi in appassionato intervistatore. E poi ringrazia Mary McCarthy di essere stata «sgradevole», di non avergli taciuto le critiche per il suo ultimo romanzo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426623

Conversazione a Praga con Ivan Klíma

[1990]
Nato a Praga nel 1931, Ivan Klíma ha subito quella che Jan Kott chiama un’«educazione europea»: nel periodo della sua maturità di romanziere, critico e drammaturgo, in Cecoslovacchia le sue opere sono state proibite dalle autorità comuniste (e i suoi famigliari sono stati perseguitati e puniti insieme a lui), mentre da bambino, essendo ebreo, è stato internato dai nazisti nel campo di concentramento di Terezin insieme ai genitori. Nel 1968, quando i russi hanno invaso la Cecoslovacchia, Klíma si trovava all’estero, a Londra, ed era diretto all’Università del Michigan, dove avrebbe assistito alla messinscena di un suo dramma e insegnato letteratura. Quando nella primavera del 1970 i suoi impegni didattici ad Ann Arbor sono giunti al termine, è tornato in Cecoslovacchia con la moglie e i due figli, per diventare uno degli esponenti di quell’«ammirevole manipolo» – come un giorno pranzando con me un professore di recente reintegrato all’Università Carlo ha definito Klíma e il suo circolo – le cui vite sono state rese estremamente dure da un’ostinata opposizione al regime.
Della quindicina di suoi romanzi e raccolte di racconti, quelli scritti dopo il 1970 sono stati pubblicati in edizioni ufficiali solo all’estero, soprattutto in Europa; solo due libri – e non tra i suoi migliori – sono apparsi in America, dove la sua opera è praticamente sconosciuta. Per coincidenza il romanzo Amore e spazzatura, in parte ispirato ai mesi trascorsi da Ivan Klíma negli anni Settanta a lavorare come spazzino per le strade di Praga, è stato pubblicato in Cecoslovacchia il giorno stesso del febbraio del 1990 in cui io sono arrivato in città per incontrarlo. È venuto a prendermi all’aeroporto dopo una mattinata trascorsa in una libreria di Praga, dove i lettori che avevano appena comprato il suo libro attendevano di farsi firmare la propria copia in una fila che dal negozio si allungava fino in strada. (Nel corso della mia settimana praghese le file piú lunghe che ho visto sono state quelle per i gelati e per i libri). La tiratura iniziale di Amore e spazzatura, il suo primo libro pubblicato in Cecoslovacchia da vent’anni, era di 100 000 copie. Piú tardi quel pomeriggio Klíma è venuto a sapere che quel giorno era uscito anche un altro suo libro, Le mie allegre mattinate, una raccolta di racconti, anche quello in una tiratura di 100 000 copie. Nei tre mesi trascorsi da quando la censura era stata abolita, è stato rappresentato un suo dramma a teatro ed è stata trasmessa una sua opera per la televisione. E quest’anno usciranno altri suoi cinque libri.
Amore e spazzatura è la storia di un noto scrittore ceco messo al bando, «assediato dalle proibizioni» e impiegato come spazzino, che per alcuni anni trova un certo sollievo dal claustrofobico rifugio rappresentato dalla propria casa – dalla fiduciosa moglie che vuole rendere la gente felice e sta scrivendo un trattato sul sacrificio di sé, dai due amatissimi figli che vanno crescendo – grazie a una malinconica, inquietante ed esigente scultrice, anche lei sposata e con figli, che alla fine giunge a maledirlo e a calunniare la moglie che lui non riesce a lasciare. Per questa donna il protagonista nutre un’ossessione erotica:
Quell’inverno c’era un sacco di neve. Lei accompagnava la figlia a lezione di pianoforte. Io le seguivo, senza che la figlia se ne accorgesse. Affondavo nella neve ancora fresca perché non guardavo dove mettevo i piedi. La guardavo camminare.
È la storia di un uomo responsabile che tra i sensi di colpa anela a volgere le spalle alle amare ingiustizie che lo circondano per rifugiarsi in una «privata regione di beatitudine». «Le mie incessanti fughe», con queste parole biasima disegno nel suo tappeto.
Nello stesso tempo, il libro è un collage di riflessioni sullo spirito di Kafka (lo scrittore compone mentalmente un saggio su Kafka mentre spazza le strade); sul significato dello sporco, della fuliggine, del fumo, dei rifiuti in un mondo capace di trasformare anche le persone in rifiuti; sulla morte; sulla speranza; sui padri e i figli (un tenero e triste leitmotiv è quello della malattia terminale del padre dello scrittore); e, tra le altre cose, sul declino della lingua ceca, trasformatasi in jerkish. Jerkish è il nome di una lingua inventata qualche anno prima negli Stati Uniti per la comunicazione tra esseri umani e scimpanzé; comprende 225 parole, e il protagonista del libro di Klíma sostiene che, dato ciò che è accaduto alla sua lingua sotto i comunisti, presto il jerkish sarà parlato da tutta l’umanità. «A colazione, – scrive questo scrittore a cui lo stato non permette di pubblicare, – ho letto sul giornale una poesia del principale autore jerkish». Le quattro banalissime quartine vengono citate. «Per questa poesia di 69 parole incluso il titolo, – dice, – all’autore sono bastati 37 termini jerkish e neanche un’idea. [...] Chiunque abbia abbastanza stomaco da leggere la poesia con attenzione comprenderà che per un poeta jerkish un vocabolario di 225 parole è fin eccessivo».
Amore e spazzatura è un libro splendido con due sole pecche: alcune spiacevoli cadute nella banalità filosofica, soprattutto quando il principale filo narrativo va esaurendosi, e (nella versione inglese pubblicata a Londra dalla Chatto and Windus) l’incapacità del traduttore di immaginare un idioma popolare credibile e arguto per rendere il gergo degli emarginati quando Klíma si sofferma sull’ambiente degli spazzini. È un libro pieno di inventiva e assolutamente non esibizionistico (se non nel titolo assurdista). Klíma si destreggia fra una dozzina di temi e affronta i passaggi piú arditi senza equilibrismi, con altrettanta disinvoltura di Čechov nel racconto L’uva spina, fornendo un buon antidoto all’eccesso di magia che grava sul realismo magico. La semplicità con cui crea il suo complesso collage – strazianti ricordi del campo di concentramento, riflessioni ecologiche, immaginarie liti tra gli amanti ormai lontani e analisi kafkiane sulla dura realtà, il tutto giustapposto e inseparabile dalle vicissitudini dell’esaltante, estenuante adulterio – va di pari passo con la disarmante franchezza, al limite dell’ingenuità adolescenziale, con cui il protagonista evidentemente autobiografico confessa la propria turbolenza emotiva.
Il libro è permeato da un’intelligenza la cui tenerezza colora ogni cosa e non è controllata né sorvegliata dall’ironia. In questo senso Klíma è l’antitesi di Milan Kundera – un’osservazione che potrebbe apparire superflua non fosse per la somiglianza dei temi affrontati. Il divario caratteriale tra i due è considerevole, le loro origini sono altrettanto differenti delle strade che hanno preso da adulti, e tuttavia l’attrazione per l’eroticamente vulnerabile, la lotta contro lo sconforto politico, le meditazioni sugli escrementi della società, siano essi la spazzatura o il kitsch, la comune tendenza alle lunghe divagazioni e alla mescolanza dei toni – per non parlare dell’ossessione per il destino degli emarginati – creano tra loro una strana affinità, non priva di tensione, e non cosí inverosimile quanto a entrambi loro potrebbe apparire. Mentre leggevo Amore e spazzatura a volte avevo la sensazione di leggere L’insostenibile leggerezza dell’essere rivoltato come un guanto. Basterebbe il contrasto retorico tra i due titoli per indicare quanto possano essere discordanti, se non opposte, le prospettive di due immaginazioni impegnate in modo simile su temi simili: in questo caso, quello che il protagonista del libro di Klíma chiama «il piú importante di tutti i temi [...] la sofferenza derivante da una vita priva di libertà».
Nei primi anni Settanta, quando presi l’abitudine di fare un viaggio a Praga ogni primavera, Ivan Klíma era il mio principale istruttore di realtà. Mi portava in giro in macchina, ai chioschi sugli angoli delle strade dove gli scrittori vendevano le sigarette, agli edifici pubblici dove lavavano i pavimenti, ai cantieri dove facevano i muratori, e fuori città agli acquedotti municipali dove sgobbavano in tuta e stivali, una chiave inglese in una tasca e un libro nell’altra. Quando riuscivo a parlare con calma con questi scrittori, di solito ero a cena a casa di Ivan.
Dopo il 1976 non riuscii piú a ottenere il visto per entrare in Cecoslovacchia, e iniziammo a scriverci attraverso i corrieri olandesi o della Germania occidentale che portavano con discrezione libri e manoscritti fuori e dentro il paese per le persone sotto stretta sorveglianza. Nell’estate del 1978, dieci anni dopo l’invasione russa, anche Ivan, che tra gli esponenti dell’opposizione che avevo conosciuto mi era sempre parso il piú effervescente, era ormai stremato, al punto da ammettere, in una lettera scritta in un inglese un po’ stentato: «A volte dubito che sia ragionevole rimanere in questa miseria per il resto della nostra vita». E poi continuava:
La nostra vita qui non è molto incoraggiante. L’anormalità dura troppo a lungo ed è deprimente. Siamo continuamente perseguitati, e non basta che non ci sia permesso di pubblicare una sola riga in questo paese, veniamo anche sottoposti a interrogatori e molti miei amici sono andati in prigione per brevi periodi. Io non sono stato arrestato, ma mi hanno tolto la patente (ovviamente senza alcun motivo) e mi hanno staccato il telefono. Ma quel che è peggio, uno dei nostri colleghi...
E, com’era tipico di lui, passava a raccontare molto piú nel dettaglio di uno scrittore che considerava in condizioni piú disperate delle sue.
Quattordici anni dopo il nostro ultimo incontro, restai sorpreso per come l’affascinante miscuglio di vitalità e flemma tipico di Ivan Klíma fosse immutato, e il suo vigore non fosse diminuito. Anche se dagli anni Settanta la sua pettinatura alla Beatles si era un po’ accorciata, i suoi lineamenti massicci e i suoi dentoni da carnivoro mi facevano ancora pensare (specie quando era di buon umore) a un Ringo Starr che avesse subito una radicale evoluzione intellettuale. Ivan si era ritrovato al centro delle attività ora note in Cecoslovacchia come «la rivoluzione», eppure non mostrava il minimo segno di quell’affaticamento dei giovani studenti di letteratura inglese nel corso su Shakespeare a cui ero stato invitato all’Università, che dicevano di essere stati prostrati al punto di accogliere come un sollievo il ritorno al riposante studio di qualcosa di astruso per loro come le scene di apertura di Macbeth.
Mi ritrovai di fronte all’indomata forza di carattere di Ivan una sera durante una cena a casa sua, quando consigliò a un nostro comune amico scrittore uno stratagemma per ritornare in possesso del piccolo bilocale confiscatogli dalle autorità alla fine degli anni Settanta, quando il nostro amico era stato costretto dalla polizia a un esilio in miseria. «Prendi tua moglie, – gli disse Ivan, – prendi i vostri quattro figli, e andate nell’ufficio di Jaroslav Koran». Jaroslav Koran era il nuovo sindaco di Praga, un ex traduttore di poesia dall’inglese; con il passare della settimana e man mano che incontravo o sentivo nominare le persone nominate da Václav Havel, cominciavo ad avere la sensazione che un requisito fondamentale per entrare a far parte della nuova amministrazione fosse aver tradotto in ceco le poesie di John Berryman. C’erano mai stati prima cosí tanti traduttori, romanzieri e poeti alla guida di una qualunque cosa che non fosse il Pen Club?
«Nell’ufficio di Koran, – continuò Ivan, – sdraiatevi tutti quanti sul pavimento e rifiutate di alzarvi. Tu digli, “Sono uno scrittore, mi hanno preso l’appartamento e lo rivoglio indietro”. Non supplicare, non lamentarti, stattene solo lí sdraiato e rifiutati di alzarti. Avrai un appartamento nel giro di ventiquattr’ore». Lo scrittore senza appartamento – una persona molto mite e molto spirituale che, dall’ultima volta in cui l’avevo visto vendere sigarette per Praga, era invecchiato tanto quanto Ivan era restato giovane – si limitò a rispondere con un sorriso sconfortato che suggeriva con gentilezza che Ivan aveva qualche rotella fuori posto. Ivan si rivolse verso di me e disse, come una semplice constatazione, «Certa gente non ha abbastanza fegato».
Helena Klímová, la moglie di Ivan, è una psicoterapeuta che ha ricevuto la sua formazione nell’università clandestina organizzata dai dissidenti in numerose case private nel corso dell’occupazione russa. Quando le domandai come reagissero i suoi pazienti alla rivoluzione e alla nuova società da essa introdotta, lei mi disse, nel suo modo affabile, serio e preciso, «Gli psicotici migliorano e i nevrotici peggiorano». «E come te lo spieghi?» chiesi. «Con tutta questa nuova libertà, – disse lei, – i nevrotici si sentono terribilmente insicuri. Cosa accadrà? Nessuno lo sa. Il vecchio immobilismo era detestabile, certo, anche per loro, ma anche rassicurante, affidabile. C’era una struttura. Sapevi cosa aspettarti e cosa non aspettarti. Sapevi di chi potevi fidarti e chi dovevi odiare. Per i nevrotici il cambiamento è molto destabilizzante. All’improvviso si trovano di fronte a un mondo di scelte». «E gli psicotici? Davvero loro stanno meglio?» «Mi pare di sí. Gli psicotici assorbono l’umore prevalente. E ora è l’esaltazione. Tutti sono felici, e gli psicotici sono ancora piú felici. Sono euforici. È tutto molto strano. Tutti soffrono di un trauma di adattamento».
Domandai a Helena a cosa lei trovasse piú difficile adattarsi. Senza esitazioni rispose: tutte le persone che ora erano gentili con lei e non lo erano mai state prima (non era trascorso molto tempo da quando lei e Ivan venivano trattati con estrema circospezione da vicini e colleghi intenzionati a evitare guai). La rabbia di Helena per la rapidità con cui quelle persone un tempo tanto meticolosamente guardinghe – se non apertamente censorie – erano diventate amichevoli con i Klíma fu per me una sorpresa, dato che nel loro periodo piú duro lei mi aveva sempre impressionato per la sua incredibile tolleranza e per il suo equilibrio. Gli psicotici miglioravano e i nevrotici peggioravano, e, nonostante il prevalente clima di esaltazione, tra le persone coraggiosamente per bene, l’ammirevole manipolo, alcuni cominciavano a lasciar trasparire quelle avvelenate emozioni la cui prudente gestione nei decenni della resistenza aveva richiesto forza e saldezza di spirito.
Nella mia prima giornata piena a Praga, prima di incontrare Ivan e cominciare la nostra chiacchierata, feci una passeggiata mattutina nelle vie commerciali intorno a Václavské námeští, il grande viale in cui nel novembre del 1989 si erano radunate le folle che con i loro slogan avevano aperto la strada alla rivoluzione. Dopo pochi minuti, davanti a una vetrina, mi imbattei in un raduno improvvisato di settanta o ottanta persone che ridevano ascoltando una voce proveniente da un altoparlante. Dai manifesti e dalle scritte sull’edificio capii che senza rendermene conto avevo trovato il quartier generale del Forum Civico, il movimento di opposizione guidato da Havel.
Da quanto mi parve di capire, quella folla di passanti e di gente che andava a fare la spesa o a lavorare si era fermata ad ascoltare un comico che stava recitando in un auditorium all’interno. Io non so il ceco, ma immaginai che fosse un comico – e anche molto divertente – perché il ritmo a staccato del suo monologo, con attacchi, pause e salti di tono, sembrava appositamente calibrato per spingere la folla ad attacchi di risa che andavano crescendo in un grande boato per poi culminare, all’apice dell’ilarità, in uno scroscio di applausi. Sembrava il modo in cui reagisce il pubblico di fronte a un film di Chaplin. Sull’altro lato dell’edificio del Forum Civico, vidi in una galleria che c’era un’altra folla in preda alle risate all’incirca delle stesse dimensioni. Fu solo quando li raggiunsi che mi resi conto di ciò di cui ero stato testimone. Su due apparecchi televisivi nella vetrina principale del Forum Civico c’era il comico in persona: inquadrato in primo piano, seduto da solo a un tavolo da conferenza, l’ex segretario generale del Partito comunista ceco, Milos Jakeš, stava tenendo un discorso. Nella registrazione, Jakeš, che era stato cacciato dal suo incarico ai primi di dicembre del 1989, si rivolgeva a un ristretto circolo di esponenti del Partito nella città industriale di Pilsen nell’ottobre precedente.
Capii che si trattava di Jakeš all’incontro di Pilsen perché la sera prima, a cena, Ivan e suo figlio Michal mi avevano detto tutto di quel nastro, filmato di nascosto dallo staff della televisione ceca. Ora veniva trasmesso senza interruzione davanti al quartier generale del Forum Civico a Praga, dove nel corso della giornata i passanti si fermavano per farsi qualche risata. Ciò di cui ridevano era la dogmatica, arcigna retorica di partito, e il maldestro, primitivo ceco di Jakeš – le frasi deplorabilmente aggrovigliate, i grotteschi strafalcioni, gli eufemismi, le scappatoie e le menzogne, il puro jerkish che, solo qualche mese prima, aveva riempito cosí tante persone di vergogna e disgusto. Michal mi raccontò che alla vigilia di capodanno Radio Free Europe aveva eletto il nastro di Jakeš a Pilsen «miglior esibizione comica dell’anno».
Mentre osservavo la gente riprendere la strada sogghignando, pensai che questo dovrebbe essere lo scopo piú alto della risata, la sua sacramentale ragion d’essere: seppellire di ridicolo la malvagità. Mi parve un grande segno di speranza che cosí tanti uomini e donne qualunque (e anche giovani e bambini, che tra la folla non mancavano) fossero in grado di comprendere che l’offesa portata alla loro lingua era stata altrettanto umiliante e atroce di qualunque altra. Ivan mi raccontò che a un certo punto nel corso della rivoluzione una grande folla aveva ascoltato per qualche minuto un giovane simpatizzante emissario del movimento democratico ungherese, che aveva concluso il suo discorso scusandosi per il suo ceco imperfetto. E all’istante, a una sola voce, mezzo milione di persone aveva urlato in risposta, «Parli meglio di Jakeš».
Attaccati alla vetrina sotto i due televisori c’erano due degli ubiqui manifesti con il volto di Václav Havel, il cui ceco è l’esatto contrario di quello di Jakeš.
Io e Ivan Klíma abbiamo trascorso i nostri primi due giorni insieme a parlare; poi, per scritto, abbiamo sintetizzato il nocciolo della nostra conversazione nel dialogo che segue.
ROTH Come è stato, per tutti questi anni, pubblicare nel tuo paese in edizioni samizdat? Immagino che la pubblicazione clandestina di opere letterarie serie in piccole tirature trovi in genere un pubblico piú illuminato e intellettualmente sofisticato rispetto al complesso dei lettori cechi. La pubblicazione in samizdat devono creare un’esaltante solidarietà tra scrittore e lettore. Tuttavia il samizdat è pur sempre una reazione limitata e artificiale al male della censura, e resta quindi insoddisfacente per chiunque. Parlami della cultura letteraria che si è diffusa qui attraverso le edizioni samizdat.
KLÍMA Quello che dici sul tipo particolare di lettore prodotto dalla letteratura samizdat mi sembra giusto. Il samizdat ceco si è affermato in una situazione per molti versi unica. Il Potere sostenuto da eserciti stranieri – il Potere installato dall’occupante e consapevole di poter esistere solo per volontà dell’occupante – temeva ogni critica. Comprendeva anche che ogni f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Conversazione a Torino con Primo Levi
  4. Conversazione a Gerusalemme con Aharon Appelfeld
  5. Conversazione a Praga con Ivan Klíma
  6. Conversazione a New York con Isaac Bashevis Singer su Bruno Schulz
  7. Conversazione a Londra e nel Connecticut con Milan Kundera
  8. Conversazione a Londra con Edna O’Brien
  9. Uno scambio epistolare con Mary McCarthy
  10. Ritratto di Malamud
  11. Ritratto di Guston
  12. Rileggendo Saul Bellow
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright