Dialoghi con Leucò
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Dialoghi con Leucò

  1. 248 pagine
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Dialoghi con Leucò

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Ventisette dialoghi brevi ma carichi di tensione, suadenti eppure sconfinanti nel tragico, in cui gli dèi e gli eroi della Grecia classica (da Edipo e Tiresia a Calipso e Odisseo, da Eros e Tànatos a Achille e Patroclo) sono invitati a discutere il rapporto tra uomo e natura, il carattere ineluttabile del destino, la profondità del dolore e l'irrevocabile condanna della morte. Con la loro musica ammaliante, a metà tra prosa e poesia, i Dialoghi con Leucò svelano la necessità storica del mito, e ne esaltano la missione: comunicare il vero sull'essenza dell'uomo una volta per tutte.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426678

Antologia della critica

Che i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese siano documento di una singolare comprensione dei grandi momenti, che costituiscono eterne fonti d’angoscia per gli uomini, che qui i momenti siano modernamente rivisitati nella sostanza dell’esperienze egee preelleniche ed elleniche; che infine l’onda drammatica della poesia li animi con un impeto di irruente persuasione, io non dubito. Se avrò molti consenzienti non so, né mi preoccupo. Per me il libro presenta un suo valore singolare.
Questi dialoghi sono sempre a due e hanno per centro un momento o il momento significativo, paradigmatico di ogni mito. Ognuno è preceduto da una incisiva didascalia informativa e, spesso, esegetica, in quanto l’A., con una frase e talora anche con una sola parola va alla radice perenne del mito, quella che pur oggi è vitale e che viene scoperta in qualche caso, col nuovo spirito moderno.
I dialoghi sono brevi – di solito dalle cinque alle otto pagine – ma traboccanti di misteriosa sostanza. Un’angoscia, una disperazione anche, domina lo scambio di idee, drammatizzandole. Ciò significa che queste diventando pure nella tensione dello spasimo, finiscono con l’imporsi nella loro sostanziale pacatezza suadente di un tono lirico che sta al culmine del tragico. Poesia filosofica e religiosa, questa del Pavese, ma di una filosofia senza terminologia e di una religione umana. Il tormento speculativo moderno s’ingigantisce risalendo nei secoli fino alle età primève del mito, che prende un aspetto originale in questo, che non è travestimento moderno, ma sguardo di un moderno, consapevole che il mito dell’Ellade non si può violare.
MARIO UNTERSTEINER
«Educazione Politica», I (nov.-dic. 1947), p. 344
Oggi, rotta la crosta neoclassica che li imprigionava, gli antichi segni sono tornati attuali come segni: in essi c’è ancora, dopo tanto marmo lavorato, non la statua in potenza, ma la cosa. Guardarli a lungo, in attesa del miracolo, può essere di nuovo guardare il mondo, non per quello che esso diviene, ma per quello che sotto resta, fissato e scelto una volta per tutte: cosí come nello studio etimologico di una parola, qualsiasi parola, anche quella cui si è piú avvezzi, scopriamo un rapporto segreto e antico tra gli oggetti o i fatti della nostra vita, che è anche equilibrio morale, legge o destino, vittoria comunque sul caos, sia quello primitivo o quello presente in ogni ora che passa.
Non c’è quindi da stupirsi, se uno scrittore come Pavese, pur cosí legato nei suoi romanzi a un realismo crudo di linguaggio e di situazioni, che esclude a priori la ricerca di un senso, di un giudizio morale, ma s’affida a un’impressione fotografica e spietata del mondo com’è, lasciando ad altri il parlare di come dovrebbe essere, ritorni tutto a un tratto, in un suo «quarto di luna», ai banchi della scuola, e lí riprenda in mano il suo Omero e il suo Euripide, o piú in là ancora quelle favole che prima di Omero e di Euripide si raccontavano, e tutto riconduca a uno stile composto, leggermente aulico: a un rito in fondo, fedele a quelle clausole e leggi che d’ogni rito sono proprie. Si è che Pavese è uno scrittore autentico, quindi onesto: fuori dalle solite chiesuole. Lui sa che «crisi» è piú sofferenza dei termini in gioco che scelta: che il realismo, con tutto ciò che naturalmente comporta, è un modo di risolvere il problema, ma non meno di quel che lo possa essere il simbolismo mitografico o il surrealismo antico e moderno, impregnati l’uno e l’altro di valori religiosi e morali. Che, anzi, i due termini coincidono proprio nel «patire»: che ogni mito è stato realtà prima di essere mito, ogni mitografia realismo. Che sono le due facce d’ogni piú vero esistere: vivere la vita e ricordarsi in un segno, in una parola molto semplice, che la vita c’è stata.
E direi, anzi, che proprio questo contrasto, questo ritrovare nella memoria l’azione, e di nuovo accendersi a essa come all’odore del sangue, e poi sentire che quel sangue è stato versato, che ormai è solo piú crosta, parola nera sulla terra, e allora acquietarsi – proprio questo è il fascino dei suoi Dialoghi con Leucò. Il lettore avverte lí dentro un ritmo. E non sono le cadenze metriche, facilmente individuabili in ogni pagina: ma è la stessa posizione degli interlocutori, il rapporto di ogni coppia di voci. Da un lato c’è lo slancio, la giovinezza che è azione, il mito che nasce, l’epos se vogliamo: dall’altro c’è il ricordo dello slancio e del mito già chiuso, l’elegia piuttosto. La frattura è sottile, tanto che spesso, come in ogni atto veramente concreto, i due momenti s’invertono: e la realtà passata affiora di nuovo crudele in chi la riguarda, o l’altro che ascolta all’improvviso spaurisce e cerca nella sapienza conclusa che ha di fronte un punto fermo cui appoggiarsi. Ma frattura c’è sempre.
Come in ciascuno di noi, straniero a quella cosa pur tanto sua che è il passato: agli anni della scuola, per esempio, ai libri che ha letto, al modo in cui allora ha guardato i miti. Che anche questo c’è in Pavese: il senso che quei miti sono i suoi miti, la sua scuola, i suoi libri. Un mondo, come quello delle isole, che ritorna alla memoria col colore della prima età, ma da cui ci si sente esclusi, sicché le voci che ne arrivano hanno in fondo qualcosa di segreto: voci di una sapienza che non ci appartiene piú, che forse solo a furia di camminare per le strade – per miracolo – ritroveremo un giorno. E che pure sentiamo possibile a ogni passo – una roccia che ha un profilo umano, un cieco che procede a tastoni, un cane inselvatichito che latra, noi stessi col nostro sangue e la nostra pena, e il nostro sperare quotidiano, e questo cercare di chiudere in una parola ferma, di nuovo in un mito, tutto il tumulto di cui siamo fatti.
VINCENZO CIAFFI
«Sempre Avanti!», 7 marzo 1948
Quanto ai Dialoghi con Leucò; chi vi si riaccosti, non dovrà sorprendersi del loro linguaggio in un certo senso astratto, convenzionale. Non sono essi un compiuto libro d’arte del Pavese; ma una sorta d’albo, di prontuario e catalogo di motivi morali e situazioni che lo incuriosivano e stimolavano; che in una vera opera d’arte si sarebbe ben guardato dal porgere cosí scheletriti; e ch’egli sceneggiò sommariamente, affidandoli, come a segni mnemonici, a nomi mitologici e simboli culturali. Per questa natura provvisoria, al tempo stesso che esoterica, si capisce che il libro a lui fosse specialmente caro. Un’opera d’arte è conclusa in se stessa, vive per proprio conto, lontano dall’autore. Un libro come i Dialoghi seguita a vivere con l’autore, perché è gremito di futuro e d’inespresso.
EMILIO CECCHI
«Paragone», 1950, p. 21
Il libro che raccomanda veramente il nome di Pavese ai posteri è quello dei 26 brevi dialoghi mitici, ai quali lo scrittore dava un titolo, che alludeva a una immagine femminile, i Dialoghi con Leucò.
Gli studi di etnologia aiutavano la riflessione dello scrittore, ma non potevano creare poesia, e di essi non si trova traccia sensibile nei Dialoghi. Perciò è inutile, per spiegarne la composizione e l’arte, ricorrere a simili premesse. La riflessione serviva a rifiutare quanto nel mito era divenuto stereotipo per riaverne la prima visione, la meraviglia e l’orrore, ch’esso aveva suscitato nell’animo primitivo e che una seconda volta si ripeteva, rinnovandosi, nel sentire del poeta. Il mito è mimesi, atto magico, rappresentazione e perciò riaccadimento; Pavese parlava di una «seconda volta». La formula d’incantesimo provoca il ripetersi di ciò di cui si dà il simbolo: donde il rituale magico. Ma le formule e le posizioni magiche e iniziatiche egli diceva che «per la strenua elaborazione del pensiero cosciente avvenuta nei secoli X-VIII a.C.» erano «reinterpretate, tormentate, contaminate, innestate, secondo ragione, e cosí ci sono giunte ricche di tutta questa chiarezza e tensione spirituale ma tuttora variegate di antichi simbolici sensi selvaggi». Questi chiarimenti del diario, in data 11 dicembre 1947, dimostrano la profondità della riflessione di Pavese sul mito. I suoi pensieri potrebbero essere addotti a interpretare la trasformazione del mito nella tragedia greca e il suo dissolversi poi nella filosofia. Egli non soltanto rifletteva sul mito, ma lo riviveva nella propria anima secondo una mimesi, ch’era l’atto stesso della poesia.
Per la interpretazione e la teoria del mito, Pavese si richiamava al Vico assai piú che all’etnologia contemporanea, e la tradizione letteraria italiana era per lui statuita principalmente dal Foscolo, discepolo del Vico, e dal Leopardi: i dialoghi leopardiani furono schema e modello letterario per i Dialoghi con Leucò. Ma la pietas, il sentimento di religioso orrore, che pervade la parola, lo spavento di trascendere il limite che separa l’umano e il divino, oltre il quale insorge la hybris, l’animo che si esprime nel canto di Hyperion, il canto del destino, sono anche di Pavese dinanzi al mito.
Un impulso a chiarire l’irrazionalità del mito muove la ispirazione; ma la poesia è scoperta di una terra incognita, cui non vi è limite. Egli non riviveva il mito per una nostalgia romantica del sentire primitivo e del sapore di sangue, che se ne esala, come la critica gli obiettava, ma piuttosto, accogliendo quei miti pur mostruosi, che rispondono a un mondo sempre vivo nella profonda sostanza umana, segnava ed esprimeva il passaggio, che fu di un tempo prima della storia e che si propone a ognuno di noi sempre, dalla primitiva religiosità magica alla religione luminosa degli dèi olimpici, che sovrastano immortali il caos e gli danno legge. L’apprendimento di una norma, che pone fine al mondo ove uomini, titani, divinità e chimere si confondevano e dove non esisteva separazione fra mortali e immortali, quindi la conferma di un ordine, anche morale, che forma la dignità dell’uomo, era la suggestione ispiratrice dei Dialoghi con Leucò: e possiamo seguirne il procedere non per sviluppi logici, ma per intuizioni liriche e visioni.
ALESSANDRO PELLEGRINI
«Belfagor», 30 settembre 1955, pp. 556-58
In questo [il mondo mitico di Pavese] non domina […] un problematico dissidio tra uomini e dèi, considerati come due realtà distinte – anche se in continuo reciproco rapporto1. Parlare della hybris o della pietas dell’uomo verso gli dèi o del suo sbigottimento per la «prelezione» della divinità cui soggiace, significa vedere nei Dialoghi un’accettazione puramente passiva dei miti tradizionali, che non riuscirebbe a giustificare il sorgere della vera poesia. È invece proprio il rovesciamento della concezione tradizionale, paradossalmente compiuto conservando almeno in apparenza l’antica impalcatura mitologica, a rendere l’opera di Pavese cosí rappresentativa della nostra nuova sensibilità. Non esiste nei Dialoghi un dualismo tra l’uomo e una realtà divina che gli impone dall’esterno la legge; il conflitto c’è sempre, né dalla vita si potrebbe eliminare, ma esso è interiorizzato, cosí che l’uomo è insieme il creatore e la vittima del proprio destino, in una ricerca sempre piú angosciosa e solitaria del senso del proprio esistere. Mondo titanico, mondo divino, mondo senza dèi (adombrato quest’ultimo in vari dialoghi e «rappresentato» in quello che vale da epilogo)2 non sono che figurazioni simboliche dei vari strati della psiche umana; il passaggio dall’uno all’altro non avviene in una successione temporale ma si risolve in un legame dialettico che ignora cosí i superamenti come le sintesi definitive. Donne mitiche, eroi e divinità ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Presentazione
  5. Dialoghi con Leucò
  6. La nube
  7. La Chimera
  8. I ciechi
  9. Le cavalle
  10. Il fiore
  11. La belva
  12. Schiuma d’onda
  13. La madre
  14. I due
  15. La strada
  16. La rupe
  17. L’inconsolabile
  18. L’uomo-lupo
  19. L’ospite
  20. I fuochi
  21. L’isola
  22. Il lago
  23. Le streghe
  24. Il toro
  25. In famiglia
  26. Gli Argonauti
  27. La vigna
  28. Gli uomini
  29. Il mistero
  30. Il diluvio
  31. Le Muse
  32. Gli dèi
  33. Note al testo
  34. Appendice biografica e critica
  35. Cronologia della vita e delle opere
  36. Antologia della critica
  37. Il libro
  38. L’autore
  39. Dello stesso autore
  40. Copyright