Euridice vive nel bosco di querce. È una delle Driadi, le ninfe dei boschi a cui è data una vita lunghissima ma non eterna.
Passeggia per i prati con le ninfe delle sorgenti, o gioca con le Amadriadi, che abitano dentro gli alberi e sono destinate a morire con essi.
C’è un suono che ogni tanto arriva, lontano. Non hanno mai sentito niente di cosí armonioso. Un giorno decidono di andare a vedere da dove proviene.
Trovano un uomo, seduto all’ombra di un pino.
Tiene in mano il guscio vuoto di una testuggine a cui, da un capo all’altro, ha teso tre corde. Le fa vibrare con le dita, e accompagna quella musica con la voce, dicendo parole.
Intorno uccelli e lepri, leoni e tigri, serpenti e cavalli, ragni e calabroni, caprette e cinghiali si fermano ad ascoltare. Anche gli alberi e l’erba, e le pietre, e l’acqua dei laghi e delle pozzanghere.
Quell’uomo che canta è figlio del dio dei poeti e di Calliope, la Musa dalla bella voce. Si chiama Orfeo.
Poiché da lontano non si distingue bene che cosa canta, Euridice vuole farsi piú vicina. Si siede davanti a lui, e tra tutte le parole che gli sente pronunciare scopre il suo nome: è lei che quell’uomo canta. E il suo canto parla d’amore.
Quando Orfeo finisce di suonare, le altre ninfe tornano nei boschi. Euridice rimane.
Perché canti?, gli chiede.
Perché non so fare nient’altro, davanti alla bellezza del mondo.
E perché canti il mio nome?
Orfeo china lo sguardo, abbassa la voce:
Perché tu sei la bellezza del mondo.
Euridice divenne la sposa di Orfeo.
Al loro matrimonio partecipò anche Imeneo, il dio delle nozze. Ma aveva il volto triste, come oscurato da un presagio non lieto. E la fiaccola che portava non faceva scintille, bensí un fumo lacrimoso.
Un giorno nel bosco di querce passava Aristeo, apicoltore, anch’egli figlio di Apollo. Vide Euridice, per caso, e fu sovrastato da quella bellezza. Si fece vicino, ma lei si mise a correre. La inseguí. Euridice correva piú veloce che poteva, saltando sassi e rovi, incespicando, cercando vanamente una via di fuga, un nascondiglio. In quella corsa trovò un serpente, che la uccise.
Ai vivi non è permesso varcare l’Oltretomba. Ma Orfeo non trovava pace. Aveva la forza del suo dolore, e sapeva cantare. Prese con sé la cetra e partí verso l’estremo occidente, dove si dice che finisca il mondo e s’apra l’abisso dell’Aldilà.
Giunse su una costa selvaggia e senza sole, dove i fiumi infernali si gettano nell’Oceano. Lí sulla spiaggia, davanti alle onde grigie, si fermò a contemplare l’invisibile confine. Un attimo, poi discese lungo lo Stige e trovò Caronte, il traghettatore dei morti con gli occhi color brace, figlio di Erebo e Notte.
Nessun vivo può salire sulla sua barca, ma Orfeo toccò le corde della cetra e il vecchio lasciò il remo, chiuse gli occhi striati di sangue e si abbandonò all’ascolto. L’acqua mandava lentamente la barca alla deriva, a battere contro la sponda, ma Caronte non se ne curava. Quando il canto finí, non c’erano piú crudezze in lui.
Dove vuoi andare?, gli chiese.
Dall’altra parte.
Sulla riva, mentre la barca andava, sorgevano dal nulla oscuro le ombre di chi era stato vivo: giovinetti, eroi guerrieri, fanciulle, vecchi. Da quando i nervi avevano smesso di tenere insieme ossa e carne, la loro anima fuggendo dal corpo aveva preso forma di ombra. Ora si affollavano. Venivano a sentire quella musica inaudita, e rimanevano sospesi. In quel momento, forse, dimenticavano la morte.
Orfeo arrivò nel centro di quel buio: il Tartaro. Lí stavano i tre giudici infernali, a cui toccava esaminare le colpe e le virtú dei morti e destinare ognuno al suo giusto luogo. Di fronte a Orfeo che suonava tacquero e rimasero commossi ad ascoltare. E le tre Erinni figlie della Notte, persecutrici dei colpevoli, chinarono le loro teste di cane, fermarono le ali e abbassarono i pungoli di bronzo con cui solevano tormentare i dannati. I loro occhi impietosi versavano lacrime. Era la prima volta.
Poi Orfeo fu davanti a Cerbero. Aveva tre teste e la coda di serpente, l’orribile carceriere del Tartaro che divora i morti qualora tentino di fuggire. Cerbero latrando lugubremente gli sbarrò la strada. Ma Orfeo cantò. E il cane rimase con le fauci spalancate e lo lasciò passare.
Orfeo andava. Intorno a lui cresceva il buio, gli occhi non gli servivano piú. A un tratto percepí un fruscio. Un’ala che si muova appena, o una palpebra che s’alzi. E sentí un’aria, fredda, tiepida e di nuovo fredda: un fiato ritmico, un respiro. Capí di essere arrivato. Ade l’Invisibile era davanti a lui.
Chi sei?
Sono uno che viene a pregarti.
Che cosa vuoi?
L’impossibile.
Sei tu, vivo, l’impossibile.
Orfeo non sa da che parte guardare, una nebbia spessa lo circonda ovunque. Ma deve rivolgere al dio la sua richiesta, è venuto per questo, e dirige le parole davanti a sé, fissando il buio:
Tu che regni sulla nostra fine, e ci accogli quando non abbiamo piú respiro, ascolta. Son venuto a chiederti Euridice. La morte me l’ha presa troppo presto, dammi un altro pezzo del tempo. Lascia che la riporti nel regno della vita.
Cala un silenzio, come un drappo di velluto nero. Un movimento lentissimo occupa l’aria: Ade si toglie l’elmo che gli conferisce invisibilità. Dal nulla emerge il suo volto e Orfeo lo vede: i suoi occhi sono vuoti come quelli delle statue lattee di marmo. Ade si alza dal trono, evanescente, le sue parole sembrano un vento:
La legge è che le ombre non tornino di carne. Come osi, tu, che sei mortale?
Lo so. Avrei voluto sopportare il dolore, dio. Ma l’amore su di noi esercita un potere immenso. E la consolazione è una leggerezza che non conosco. Abbi pietà, se mai fosse che anche nel tuo regno, com’è fama, si conosca amore…
Ade abbassa le sue pupille spente, si fa pensieroso. E in questa sospensione di parole, Orfeo prende la cetra.
Al suo canto si ferma l’Oltretomba intero. Restano attonite le potenze infernali, gli dèi, le ombre. Si acquietano gli ordigni, le dimore, il buio stesso ascolta. Per il tempo che quel canto dura, ha un po’ di tregua il male, e le atroci pene dei dannati. Si sospendono i supplizi, che sono eterni: Tantalo non cerca piú di bere né di afferrare i frutti, la ruota di Issione si blocca, gli avvoltoi cessano di dilaniare Tizio.
Persefone emerge dal vuoto, ad ascoltare. Il suo volto è come la parte in ombra della luna. Si affianca a Ade, gli sfiora con la mano un braccio. Insieme piangono, commossi dalla musica di Orfeo. Alla fine il dio rivolge a Orfeo queste parole:
Per la forza di quel che canti avrai ciò che desideri. Si rompano per una volta le leggi del mio mondo: ottieni la tua donna, che faccia il cammino inverso. Tornatevene alla luce accecante che chiamate vita. Questo ti è dato, in nome dell’amore che ha unito me alla mia sposa…
Le ombre intorno chinano il volto, i mostri terribili del male, i giudici, le Erinni, tutti stupiscono che un uomo possa vincere la legge piú potente che governa il regno della morte.
Ma Persefone avvicina il suo viso a quello di Ade:
Digli di non voltarsi, gli sussurra.
Perché?
Lei parla a lungo al suo orecchio, gli dà una spiegazione, con una voce che nessuno sente. E alla fine le nasce un sorriso ambiguo, leggermente venato di tristezza. Ade si è convinto, approva. E comunica a Orfeo l’assurdità di un patto:
Riavrai la tua Euridice a condizione che tu non ti volga indietro. Non guardarla, finché non siate usciti nella luce. Se no tornerà ombra, e sarà morta per sempre.
Orfeo non fa domande. Accetta il patto, dentro di sé gli sembra lieve. L’amore, in fondo, è sempre divieto.
Ade si rimette sul capo l’elmo e pian piano scompare alla vista, prima il viso, poi il petto, le mani e giú fino ai piedi.
Orfeo arriva ai Campi Elisi, dove passeggiano le ombre beate. Là trova Euridice. Cammina lentamente, e ogni tanto si china a raccogliere fiori.
La chiama, le va incontro, e quando le è quasi vicino volta leggermente il viso e le spalle, per non correre il rischio di guardarla.
Lei lascia cadere gli steli, che si perdono sull’erba, facendole un tappeto:
Perché sei qui? Hanno tolto anche a te la luce, e piú non sei nel mondo? Sei ora come me cittadino dell’Eterno, oppure sei vivo e in qualche modo hai rotto la dura legge della Morte? Quale richiesta ti ha spinto? E perché non ti volti? Quale nostalgia di me ti ha mosso, se ora non dimostri nemmeno il desiderio di guardarmi?
Euridice parla, ma Orfeo non la sente. Anche questa è legge d’Oltretomba, tremenda, che i vivi non possano sentire i morti.
Noi parliamo ai morti, la nostra vita è piena delle parole che rivolgiamo loro e che ci sembrano cosí vane. E forse i morti ci ascoltano, ci parlano continuamente; ci mandano consigli, racconti, esortazioni, ricordi, preghiere. Siamo noi che non sentiamo niente, e ci crediamo soli. Non immaginiamo che loro si disperino del nostro silenzio.
Orfeo non la sente, ma le parla. Si crede l’unico a parlare. Le rivolge queste parole, di spalle, parole voltate:
Euridice, perdonami. Non so fare a meno di te, e son venuto a riprenderti.
Non mi è bastato il tempo, mi è sembrato che ce ne abbiano dato cosí poco… Ho combattuto per questo, perché avessimo un altro pezzo di vita insieme, e ho vinto.
Seguimi senza chiedere. Io ti riporterò alla luce. È una fiducia che ti impongo, una fede. Ricominceremo a vivere. Sei felice?
Euridice ha ascoltato. I suoi occhi annegano nel buio latteo del nulla. E le parole che trova non arrivano:
Non so… Abbiamo tempo?
Il mio amore è diventato un nastro che non si svolge…
Un lago senza onde…
C’è un’unica strada che serpeggia in quel buio, mandando un chiarore bianco, insinua il varco in un paesaggio che di colpo appare sconfinato. Boschi, rocce e montagne, ponti sospesi nel vuoto, e ovunque un infinito stagno grigio, come sono i laghi quando vi si rispecchia dentro un cielo nuvoloso.
Orfeo si avvia e Euridice rimane impietrita.
Non sa ancora se seguirlo. Sente che dovrebbe: quell’uomo ha vinto la Morte per riprendersela, nessuno mai ha fatto questo. Eppure qualche cosa la trattiene, una stanchezza, un’opacità che la rende inerte, le impedisce il passo. Dovrebbe corrergli dietro, cercare di abbracciarlo, dirgli grazie. Invece se ne resta lí, a guardarlo andare via senza di lei… E di colpo le viene una tristezza: si sente sola. Non l’aveva previsto, questo sentimento di solitudine. Non l’aveva mai provato. E ora invece… Lui è venuto fin lí, in quel suo mondo buio, e adesso la abbandona. Va avanti, e se lei non lo seguisse lo perderebbe. Ecco, lei che è morta per prima ora patisce il sentimento di chi perde l’altro. Le viene questo pensiero storto, insopportabile, di lui che muore.
Cosí, lo segue. Per non restare sola.
Gli cammina dietro, sulla strada bianca che conduce alla fine della Morte. Una strada cosí impervia, infinita. È una strada che dà tempo, un tempo lungo in cui può succedere di tutto: un cammino ignoto, che a ogni passo svela un senso inaspettato, stupefacente. Qualcosa infatti cambia, nel suo animo: ha deciso di seguire Orfeo, ma ora a poco a poco le si spegne il desiderio. Non ha voglia di tornare a vivere, non ne vede il senso.
Prendono all’improvviso un sentiero che sale, ripido, difficile. Avvolti in una nebbia densa, scura, un velo lattiginoso informe.
Lei gli parla. Non può trattenersi, le sgorgano parole, come a tenere saldo il filo che la lega a lui, che non si perda. Ha paura. Un’ombra non può seguire un vivo, cosa sta facendo?
Sei venuto per riprendermi, grazie di questo impossibile sognare. Ma la vita è andata…
Mentre mi camminavi avanti senza voltarti, ho capito che non ho piú voglia… Se ti seguissi, mi riporteresti alla solita vita, giornate che finiscono e ripartono, e alla fine ci lasciano invecchiati, di nuovo sull’orlo di lasciarci. Troppo dolore vivere per morire. Io sono già morta, l’ho già compiuto il passaggio insopportabile. Ora che mi sono liberata della morte, posso esistere senza aver bisogno di questa faticosa incombenza che è la vita. Lasciami a questa libertà.
Il prezzo è non amarti? Credi?
L’amore è lontananza, si nutre di distanze impercorribili. Non ho bisogno di vivere con te. In questo buio dove non ti vedo e non ti ho, è perfetto amarti: la vita fa parte della morte. Come nella notte è contenuto il giorno, come lo stesso cielo abbraccia e luna e sole…
Sono diventata cielo. Fare a meno di te è l’amore.
Orfeo non sente. Sale, chino sui suoi passi. Ha paura di mettere male un piede, cadere e non rialzarsi. Teme gli agguati di quel luogo inospitale. Ha fretta. Sale di corsa,...