La Gerusalemme rimandata
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La Gerusalemme rimandata

Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento

  1. 408 pagine
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La Gerusalemme rimandata

Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento

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La Gerusalemme rimandata è il primo solido approdo dal quale prende poi slancio l'eccezionale produzione libraria della sua giovanile, lunga e laboriosa vecchiaia. È lo scrigno dal quale Vittorio Foa - cosí si esprime Pino Ferraris nella nuova densa introduzione - ha attinto «intelligenza», categorie di analisi che gli hanno permesso di nutrire e stimolare con parole e scritti, negli anni successivi, un pubblico sempre piú vasto. Come già suggerisce il titolo altamente emblematico (la Gerusalemme è l'ideale politico e sociale che non si è mai realizzato) il libro è il prodotto di piú di un decennio di riflessione avviata a partire dalla difficile congiuntura degli anni Settanta. Gli anni in cui Foa si dimette da Segretario della Cgil e intraprende, per usare le sue stesse parole, «il nuovo ciclo di studio della storia». Eppure questo non è il libro solo di uno storico di professione. È un ripensare a un circoscritto periodo della storia sociale inglese su cui Foa, uomo animato prima di tutto da un intenso impegno civile e politico, proietta domande maturate oggi: nella lucida consapevolezza però che le ideologie non si criticano mediante altre ideologie. Se alcuni si rivolgono alla storia per cercare legittimazione e conforto, Foa si impegna nella ricerca storica, al contrario, per cercare smentite, per vincere gli stereotipi e le idee ricevute con le quali, come ebbe a dire, ha convissuto troppo a lungo.
«Quegli Inglesi - afferma Foa - mi hanno aiutato a capire meglio ciò che nel corso di una lunga vita mi è parsa una distinzione importante: che politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, che politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858424469

Capitolo ottavo

L’industrial unrest (1910-14). La solidarietà

La lunga strisciante resistenza dei lavoratori sulla determinazione del lavoro sboccò, negli anni che precedettero la guerra, in una agitazione di tipo nuovo nella storia sociale britannica. Agli osservatori piú riflessivi e attenti l’autodeterminazione del lavoro, la reintroduzione nel lavoro industriale moderno di forme di controllo sul lavoro tipiche della tradizione preindustriale, apparvero come un potente fattore di odio sociale: non era piú in gioco solo la ripartizione del prodotto, ma anche il controllo sulla sua formazione. Per quel che riguarda le forme della lotta piú che la quantità degli scioperi contavano la loro qualità, le loro caratteristiche e il contesto da cui nascevano e a cui davano vita. Comunque le statistiche del Board of Trade indicano 389 scioperi registrati nel 1908, 422 nel 1909, 521 nel 1910, 872 nel 1911, 834 nel 1912, 1459 nel 1913 e 972 nel 1914 (ma, dai primi di agosto, con la guerra, gli scioperi cessarono). Analoga la curva del numero degli scioperanti, con punte verso l’alto: nel 1912 le giornate perdute per sciopero furono di oltre 40 milioni. È vero che gli operai coinvolti erano una quota ristretta, dal 6 al 10% della popolazione operaia perché l’agitazione era concentrata e non diffusa. Ma l’impatto psicologico e politico dell’agitazione fu fortissimo proprio perché concentrato nei settori decisivi della vita della nazione, nei settori dell’energia (carbone) e dei trasporti terrestri e marittimi.
Negli ultimi giorni del 1909 l’attenzione degli osservatori politici era rivolta, oltreché alla crisi costituzionale e all’agitazione delle suffragette, anche all’Australia, dove le miniere di carbone del Nuovo Galles del Sud erano paralizzate da scioperi di tipo insolito. Caratteristiche essenziali erano una solidarietà che sospendeva l’attività produttiva a monte e a valle della zona di conflitto, seguendo cosí la linea capitalistica dell’integrazione verticale; la dislocazione di imponenti masse di operai da un punto all’altro in lotta; lo sciopero che scoppiava prima ancora che le richieste venissero avanzate; le piattaforme rivendicative che si modificavano nel corso dell’azione; il rifiuto di riprendere il lavoro durante le trattative; le motivazioni non economiche delle lotte, definite «politiche» da chi non capiva l’accumulazione del malcontento; alcune esperienze di gestione operaia in miniere occupate; l’estrema decisione dei comitati di sciopero non ufficiali, cioè autonomi dalle direzioni sindacali; la capacità di boicottare navi che trasportavano carbone arrivando a impedire anche l’imbarco di merci deperibili destinate alla madre patria, come il burro; e infine l’atteggiamento dei parlamentari laburisti contro la solidarietà di marittimi e portuali coi minatori e il giro di vite legislativo contro gli «irresponsabili». Di lí a poche settimane il modello australiano sarebbe stato la caratteristica di una agitazione senza precedenti in larghi settori industriali della Gran Bretagna, aprendo un lungo periodo di instabilità. Già il 1° gennaio 1910 cominciava lo sciopero di trentamila minatori del Northumberland e del Durham contro il terzo turno di lavoro in seguito alla legge sulle otto ore nelle miniere: i lavoratori respinsero gli accordi sindacali, il Board of Trade dovette convocare, insieme coi dirigenti del sindacato, anche i rappresentanti diretti degli scioperanti, ma anche dopo l’accordo finale 11 000 minatori continuarono lo sciopero. Questa vertenza, come quelle immediatamente successive dei lanieri di Bradford, dei ferrovieri del Nord-est, dei saldatori dei cantieri navali e poi soprattutto dei minatori del Galles del Sud, ruppe il principio di autorità dell’organizzazione operaia, quello che era stato il cardine della politica progressista. Nel suo libro piú volte ricordato George Askwith annotava:
Come in molti altri casi di questi anni il fatto che i leader ufficiali perdevano la loro autorità indicava una maggiore distanza fra gli operai e i loro leader che fra questi ultimi e i padroni.
Si è discusso se sia esistito o meno un rapporto fra il fermento operaio da un lato e la ribellione femminista e l’indisciplina costituzionale degli unionisti e degli alti comandi militari nella crisi irlandese dall’altro. Resta comunque un elemento comune nei vari tipi di resistenza e di rivolta: la crisi di un equilibrio storico, l’esautoramento di vecchie forze, la volontà di un cambiamento, la capacità di coordinamento nazionale delle spinte da parte dei nuovi mass media. L’azione diretta delle suffragette si incontrava di fatto con forme diffuse di azione diretta operaia ed esprimeva la crisi delle rappresentanze parlamentari e sindacali. L’argomento del vetro rotto, avrebbe detto Emmeline Pankhurst, è l’argomento piú efficace nella politica moderna. Crisi della rappresentanza: è proprio nell’immediato anteguerra che si avverte la necessità di analizzare il movimento come oggetto distinto (anche se non contrapposto), dalle istituzioni. È nel rapporto fra movimento e istituzioni che si coglie un insieme dinamico di tradizioni, costumi, associazioni formali o informali, rapporti complessi. Il soggetto operaio si identificava e non si identificava con la sua istituzione, specie col sindacato, ma anche quando la contestava la considerava come cosa sua. Forse questo spiega perché al massimo di contestazione del sindacato si accompagnava il massimo di sua espansione. Il rapporto fra i due termini, fra movimento e organizzazione, era mediato dalla lotta contro l’avversario di classe. Nel succedersi di rifiuto di identificazione (alternativa radicale) e di ricerca di identificazione (democrazia sindacale) emergeva un insieme di idee e di azioni, economiche educative comunitarie, e anche una propria visuale della vita come un terreno di confronto che non era politico in senso tradizionale, cioè di partito o di governo.
La forma dominante del conflitto sociale era allora lo sciopero. Esso non era solo uno strumento di pressione per conseguire dei risultati, esso era anche una affermazione di identità. Lo sciopero non era un tempo negativo, un vuoto di lavoro: era un tempo pieno, una presa di parola, la rottura del silenzio della disciplina industriale. L’ambiente di vita influiva fortemente sulle forme dello sciopero: nei minatori si aveva collera e azione di sorpresa, nei meccanici una maggiore riflessione strategica. Spesso nei grandi scioperi si coglieva un elemento di festa, come azione collettiva liberatoria. Su questo, sull’esperienza francese di fine secolo, abbiamo pagine bellissime di Michelle Perrot. Si può discutere se si può chiamare festa il dramma umano e famigliare dello sciopero, la fame, i debiti, a volte anche la mendicità. Ma per festa si deve intendere la riscoperta del tempo espropriato, della comunicazione interpersonale, della derisione dell’autorità. Jack Lawson ricordava lo sciopero del carbone sul salario minimo:
Era l’estate del 1912 e per grande che fosse la tragedia della cessazione del lavoro e dei salari, essa era attenuata dai divertimenti organizzati. Gare di marcia e ogni sorta di giochi e di sport erano organizzati in tutto il paese. Quando i pony furono fatti uscire dai pozzi, bimbi e mamme corsero a guardarli. Tutti conoscevano il nome di ogni pony ma ora vedevano Billy e Boxer per la prima volta. Si sarebbe quasi pensato che i pony appartenessero alla famiglia. Alcuni dei pony erano stati nei pozzi per degli anni cosí che quasi vacillavano di fronte alla luce e non capivano cosa fosse il verde dei prati. Dopo un po’ i loro guidatori li condussero in gare organizzate dai dirigenti operai. Ci sono pochi Derby cosí eccitanti come quello dei pony di pozzo durante uno sciopero.
Lawson lavorava allora come pesatore all’Alma Colliery a Chester-le-Street.
Gioia e fierezza non bastavano a spiegare l’ardore della lotta. La stampa locale esprimeva l’impegno culturale dei quadri del movimento. Durante lo sciopero del Galles del Sud del 1915, in piena guerra, un corrispondente speciale del «Times» descriveva il livello culturale raggiunto dagli scioperanti nel corso di anni di lotta: moltissimi nei pozzi gallesi avrebbero potuto sostenere esami su Ibsen, Shaw e Swinburne e tenere testa in politica ed economia a un normale membro del parlamento. L’istruzione era alimentata dalle formazioni politiche, dal «Merthyr Pioneer», giornale dell’Ilp coi suoi regolari scritti di storia industriale, dai corsi serali e anche dalla Plebs League. La lotta faceva apparire possibile tutto. In tutto il paese la stampa locale incitava all’audacia delle richieste. Perché pensare che vi fossero richieste impossibili?
Trenta o quaranta anni fa ci sarebbero sembrati sogni le pensioni al di sopra dei settant’anni, le refezioni scolastiche, l’educazione elementare gratuita per tutti. Adesso fanno parte della nostra vita nazionale.
Come si vede le riforme liberali non avevano bloccato ma alzato le richieste. Liberali e conservatori apparivano sempre piú, soprattutto in provincia, come varianti di una sola politica. Nella stampa locale è riconoscibile la ricchezza delle iniziative su tutti i problemi, amministrativi, sociali, scolastici, formativi. Proprio l’impegno sociale, la volontà di realizzazione, fu forse una delle cause per cui, quando scoppiò la guerra, si pensò piú alle sue vittime che alla possibilità di porvi termine. Ancora nel Galles del Sud un giornale improntato a un estremo radicalismo, «The Rhondda Socialist» di Pontyptidd e poi di Blaendydichn, pur in un ambiente cosí non conformista e temperante, riconduceva l’alcol all’organizzazione della vita sociale: in questo giornale si leggono analisi penetranti sul rapporto fra sindacato minatori e partito liberale, e in generale sulla politica lib-lab.
Alla fine del 1911 la coscienza della lotta di uomini, donne e bambini, la consapevolezza che il fermento non nasceva solo dalla condizione nel posto di lavoro ma da tutta la condizione proletaria nella società era diventata coscienza di massa. Questa tendenza sarebbe sempre cresciuta: nel 1913 mille minatori gallesi scioperarono per tre giorni perché non li avevano lasciati partecipare al funerale di un compagno caduto sul lavoro. Il rapporto fra lavoro e vita era affrontato diffusamente dai giornali operai. Si studiavano con precisione le cause del peggioramento delle condizioni di vita degli operai nel primo decennio del secolo. Non vi era alcuna corrispondenza fra sviluppo economico e democratico da un lato e condizione sociale dall’altro. Le condizioni dei lavoratori erano migliorate nella grande depressione per la vischiosità dei salari verso il basso per effetto di una resistenza operaia molecolare, non legata a disegni strategici e grandi lotte. Poi, quando la borghesia scelse di associare, sia pure in modo subalterno, i lavoratori a qualche forma di gestione collettiva con le riforme, in una fase di espansione economica le condizioni peggiorarono. Nonostante il liberalismo politico il meccanismo oppressivo era nell’industria dinamica, quella che, per ragioni di competizione, premeva sul lavoro. E le decisioni dei partiti e dei congressi delle Trade Unions erano spesso ignorate nei comportamenti periferici, di base. Le sezioni locali dovevano conciliare le teorie, fossero socialiste o sindacali, con la mentalità di una base di recentissima politicizzazione e anche di recentissima alfabetizzazione.
La «Humberside Transport Workers Gazette», che nel gennaio 1912 usciva con diecimila copie, si interrogava sulle cause del grande sollevamento operaio. Non sono i leader, che non amano certamente gli scioperi. Non è il socialismo, che non ha ancora una presa tale da creare una agitazione di tale grandezza:
Quando l’operaio porta a casa la busta il suo partner fedele e parsimonioso gli dice che non si può tirare avanti con quel che porta a casa; sono sicuro che l’agitazione in primo luogo ha preso le mosse dalle case degli operai.
Un altro segno dei tempi era l’attenzione dei fogli operai ad alcuni aspetti di grandi eventi nazionali. Quando affondò il Titanic nell’aprile 1912 la stessa «Humberside Transport Workers Gazette» denunciò la discriminazione classista dei salvataggi: nella terza classe si salvò solo il 12% degli uomini, il 55% delle donne e il 30% dei bambini, in prima classe rispettivamente il 34%, il 97% e il 100%. Sulla questione del Titanic si impegnò a fondo il «Daily Herald».
Un’importante prova del rapporto fra lavoro e casa, fra lotta operaia e società, si trova nello sciopero dei bambini del settembre 1911. Dave Marson ha contato sessantasei città in cui, senza alcuna organizzazione nazionale, sono avvenuti nell’autunno 1911 degli scioperi nelle scuole, molto spesso con cortei di centinaia e di migliaia di bambini e con la formazione di regolari picchetti davanti alle scuole. La solidarietà fu la molla principale della lotta, che ebbe inizio nella città portuale di Hull: una punizione contro un portuale trovava allora immediata solidarietà, un bambino bacchettato a scuola era solo, la disciplina tendeva a isolarlo nel ridicolo, a farlo apparire stupido. Lo sciopero fu iniziato da dodici ragazzi grandicelli nella scuola cattolica di Santa Maria, che se ne andarono durante la ricreazione mattutina: lo stesso pomeriggio tutte le scuole di Hull erano ferme e ci fu un grosso corteo. Le prime parole d’ordine furono: troppo lavoro, troppe bastonate. Ci furono molte violenze contro i non scioperanti, vetri rotti, sassi contro i presidi autoritari. A Liverpool i bambini organizzarono un comitato di sciopero e avanzarono le richieste: abolizione del bastone, mezza giornata di vacanza la settimana, paga per i lavori materiali fatti in classe. La polizia rompeva picchetti e cortei con incursioni in bicicletta. Tutta la regione di Manchester fu investita dallo sciopero quando un bambino fu punito: comparvero allora nelle mani dei bimbi i primi bastoni. I padri erano il modello: papà ha fatto la fame per ottenere quello che voleva, io devo fare come lui. A metà settembre l’ondata arrivò a Southampton e Porthmouth a sud, a Glasgow e Leith a nord. Furono organizzate colonne mobili e picchetti volanti. Anche i piú piccini furono contagiati. Nella Risinghall School a Islington (Londra) scioperarono bimbi di tre anni; al commissariato del Ponte della Torre comparvero di fronte al magistrato bambini di sei e di otto anni (il loro nome era Tillyer e venivano da Bermondsey) sotto l’accusa di vagabondaggio, essi si difesero invocando il diritto di sciopero. Le richieste ora crescevano via via, si chiedeva riscaldamento adeguato, piú patate alla refezione, meno compiti a casa, matite e gomme gratis, modifiche negli orari. Libertà a piedi scalzi, intitola Marson le sue conclusioni e le fotografie dei bambini in sciopero, scalzi e vestiti di stracci, sono un quadro di gioia infrenabile. L’agitazione fu facilmente repressa, ma fu importante come fenomeno di diffusione culturale, di presenza (anche se non visibile) delle donne. La disciplina della scuola, come quella della fabbrica, era fondata sulla rinuncia all’iniziativa: la riappropriazione della iniziativa univa sessi e generazioni. Anche gli scioperi dei bambini erano una memoria del nuovo unionismo del 1889-1891. Nel 1889 c’era stato uno sciopero nelle scuole di Falkirk, esteso poi a tutta la regione, in coincidenza con una forte tensione operaia. Tom Bell ricorda un’analoga esperienza a Glasgow nel 1891. L’area della solidarietà dei genitori coi figli per la situazione della scuola era vasta: il bastone a scuola irritava i genitori che pure battevano parecchio i loro figli quando disturbavano. In generale i genitori non amavano un sistema di punizioni formalizzato. La stessa disciplina scolastica, come quella della produzione, fu considerata per qualche tempo dopo l’introduzione della scuola obbligatoria, come una violenza esterna.
Tutta la storia operaia di questo periodo è percorsa dall’idea e dalla pratica della solidarietà e anche dalla dura esperienza dei suoi alti costi. Lo possiamo verificare a partire dalle prime agitazioni del 1910 quando centomila cotonieri furono coinvolti nella protesta contro il licenziamento di un operaio, Howe, alla filatura di cotone di Shaw, per passare allo sciopero ferroviario del 1911 che cominciò con la solidarietà dei facchini delle ferrovie di Liverpool con i portuali in sciopero, poi passando per mille diverse esperienze per arrivare alle contrastate vicende del rapporto degli inglesi con le lotte di Dublino e poi alla formazione della Triplice alleanza industriale che formalizzò, al piú alto livello dell’organizzazione sindacale, la pratica della solidarietà. L’azione di solidarietà, che trascendeva gli interessi economici del soggetto operaio, appariva (ed era) immediatamente azione politica, non certo nel senso di progetto di trasformazione, e di costruzione di strumenti allo scopo, ma nel senso di identificare una realtà sociale che superava l’individuo e tutta la cultura che su di esso era poggiata. Vedremo gli sviluppi alterni delle vicende di solidarietà e i riflessi e le risposte che esse provocarono nei capitalisti. Comunque la nozione di solidarietà cambiava e si allargava nel tempo. Un grande sciopero ferroviario nel Nord-est fu contro il licenziamento di un ferroviere che si era ubriacato fuori servizio: non si poteva riconoscere al padrone il diritto di insegnare temperanza e moralità. Con lo sviluppo dell’unrest nelle ferrovie, nelle miniere e poi nella meccanica la solidarietà perse un certo suo carattere automatico e passivo e diventò linea attiva per il controllo.
Altre caratteristiche del sindacalismo militante riguardano il rapporto fra lotta e negoziato. Diversamente dai teorici estremisti del sindacalismo rivoluzionario che rifiutavano il negoziato, gli operai in lotta sapevano benissimo che il negoziato era necessario e cosí l’organizzazione sindacale, ma volevano controllare e governare loro il negoziato: di qui la frequenza di accordi respinti dagli operai, sia quando conclusi da funzionari sindacali sia quando stipulati dai loro stessi rappresentanti diretti. Spesso dopo un accordo accettato con convinzione gli operai non tornavano subito al lavoro: essi non si consideravano macchine per cui basti premere un bottone e forse anche, in qualche modo, volevano sottolineare che anche quando si concludono accordi un antagonismo di fondo resta aperto. Sorprende anche la rapidità con la quale a volte si sapeva uscire da sconfitte anche dure, come quella dei minatori gallesi del 1910-11: proprio perché ci si era battuti duramente non ci si sentiva disarmati. Piú duraturo è stato invece, come vedremo, l’effetto della sconfitta nel porto di Londra dell’estate 1912 e di quella irlandese del 1914.
In questi anni si verificarono esplosioni di collera violenta da parte operaia e anche, in contrasto con una ormai lunga tradizione conciliante e progressista, di dura repressione governativa. Tom Mann ricorda nelle sue memorie che lo spunto all’intervento governativo a Liverpool fu dato dal grande comizio a St George Hall il 15 agosto, quando la polizia fu attaccata e anche poliziotti isolati vennero aggrediti. All’invio dell’esercito il comitato di sciopero rispose:
Neanche tutti i cavalli del re, neanche tutti gli uomini del re, potranno staccare le navi dai moli e portarle in mare aperto. Gli operai decidono che le navi non salpano. Quale governo può mai dire che esse devono salpare?
Fu allora che re Giorgio V scrisse al primo ministro per suggerire misure antisciopero: «Gli operai non si sentono impegnati da alcun accordo e molto spesso non dànno ascolto agli ordini dei loro capi». Asquith rispose negativamente. Con Grey egli pensava che per i picchetti violenti bastavano le leggi in vigore. Grey, ministro degli Esteri, osservò che non si potevano mettere in prigione migliaia di persone. Sulle violenze gallesi del 1910 e su quelle di Liverpool del 1911 ci si è molto interrogati. Dopo il 1875 il Galles del Sud era stato una zona tranquilla: i Webb a fine secolo ne vedevano i minatori «alla retroguardia». Una ripresa di conflitti si ebbe solo dal 1898. Era difficile attribuire la colpa della violenza al carattere gallese, dato l’altissimo numero di immigrati. La commissione parlamentare di inchiesta sul fermento industriale nel 1917 sottolineava le condizioni di isolamento e di squallore nelle strette vallate minerarie, ma altri ricordavano l’attiva vita attorno alle cappelle non conformiste. Altri ancora parlavano di passaggio delle miniere dalla proprietà individuale alla forma di società per azioni con un nuovo e piú oppressivo calcolo dei costi. In realtà il disagio era piú o meno simile in tutte le regioni minerarie, ma nel Galles esso, dopo una l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La Gerusalemme rimandata
  3. Introduzione di Pino Ferraris
  4. La Gerusalemme rimandata
  5. Prefazione
  6. I. Due versanti della cultura del lavoro
  7. II. La cultura del lavoro nel carbone, nella meccanica
  8. III. Il lavoro della donna: 1900-14
  9. IV. L’economia, fonte di conflitto
  10. V. L’educazione, fonte di conflitto
  11. VI. Il conflitto e le riforme
  12. VII. Laburisti, socialisti, tradeunionisti
  13. VIII. L’industrial unrest (1910-14). La solidarietà
  14. IX. Alcune domande sulla Grande guerra (1914-18)
  15. X. Il lavoro nella guerra
  16. XI. Gerusalemme è rimandata
  17. XII. Il ritorno della pace
  18. XIII. Resoconto di una battaglia perduta
  19. XIV. La fine di un ciclo
  20. Nota bibliografica
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright