La Via
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La Via

Un nuovo modo di pensare qualsiasi cosa

  1. 168 pagine
  2. Italian
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La Via

Un nuovo modo di pensare qualsiasi cosa

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Tendiamo a credere che per cambiare la nostra vita si debba pensare in grande. Ma i pensatori della Cina classica direbbero: non dimenticare ciò che è piccolo. Iniziamo a cambiare veramente quando cominciamo con piccoli cambiamenti del nostro modo di vivere. Primo libro nel suo genere, La Via attinge alle opere dei grandi filosofi cinesi dell'età classica per offrirci una guida che ci aiuti a vivere bene. Nello spiegare ciò che i loro insegnamenti consigliano su argomenti come il prendere le decisioni o il migliorare le relazioni con gli altri, La Via sfida alcune assunzioni profondamente consolidate dentro di noi e che informano la nostra società. Il modo in cui pensiamo di vivere le nostre vite non è il modo in cui effettivamente le viviamo. Possiamo vivere bene non tanto «trovando» noi stessi, come vorrebbero farci credere, bensí coltivando noi stessi e vivendo in stretta relazione con il mondo. La Via, con l'aiuto del pensiero cinese classico, ci insegna «un nuovo modo di pensare qualsiasi cosa».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858424629
Capitolo terzo

Sulle relazioni: Confucio e i riti «come se»

Se vi dicessimo che giocare a nascondino con un bambino di quattro anni potrebbe rivoluzionare i vostri rapporti con lui, capiremmo qualora foste scettici. Ma, di fatto, nel giocare a nascondino – nell’acquattarvi in un armadio con un piede che spunta dall’anta in modo che il bambino possa trovarvi facilmente e ridere di gioia, nel ripetere piú e piú volte con entusiasmo la stessa scena – non vi state soltanto godendo una pausa di spensieratezza. Assumendo un ruolo diverso da quello che avete di solito state partecipando a un rito: un rito che vi permette di costruire una realtà differente.
La cosa potrà sembrarvi controintuitiva. Abbiamo infatti la tendenza a pensare al rito come a un qualcosa di vincolante, non a un qualcosa capace di trasformare. Ma un filone di pensiero classico inaugurato da Confucio ha portato a una visione radicalmente nuova delle potenzialità del rito.
Confucio, che visse dal 551 al 479 a.C., fu il primo grande filosofo della tradizione cinese. La vasta e durevole influenza che ebbe non è frutto di idee grandiose, bensí di idee ingannevolmente semplici: idee che capovolgono il nostro modo di pensare a noi stessi e alla convivenza con gli altri.
Prendete questo passaggio tratto dal decimo libro dei Dialoghi, una raccolta di conversazioni e aneddoti compilata dai discepoli di Confucio dopo la morte di quest’ultimo:
Non si siede se la stuoia non è disposta correttamente.
Oppure quest’altro:
Durante i pasti non discorre.
Non è esattamente quello che vi aspettavate? Vi sembra un po’ troppo prosaico per essere uno dei testi piú importanti dell’umanità?
Questi passaggi non sono eccezioni. I Dialoghi sono pieni di minuti dettagli concreti sulle cose che Confucio faceva e diceva. Leggendoli, scopriamo come il maestro tenesse i gomiti. Come si rivolgesse alle varie persone quando entrava in una stanza. Come si comportasse mentre mangiava.
Potreste chiedervi che attinenza abbia tutto questo con la filosofia. Potreste essere tentati di dare voi stessi una sfogliata al libro per cercare dei brani in cui Confucio dica qualcosa di davvero profondo. Ma per comprendere cosa rende i Dialoghi una grande opera filosofica, dobbiamo sapere come Confucio stesse a tavola. Dobbiamo sapere che abitudini avesse. I gesti quotidiani contano perché, come vedremo, sono lo strumento con cui possiamo diventare persone migliori.
Una posizione del genere è rara in ambito filosofico. Provate a leggere un testo o a seguire una lezione in materia e, molto probabilmente, il filosofo entrerà subito nel vivo con domande complesse tipo: Siamo dotati di libero arbitrio? Qual è il senso della vita? L’esperienza è oggettiva? Cosa si intende per moralità?
Confucio, invece, nell’insegnare scelse l’approccio contrario. Anziché partire dai grandi interrogativi, pose un quesito basilare ma insospettabilmente profondo: Come vivi giorno dopo giorno la tua vita?
Per lui, infatti, cominciava tutto da lí, da una domanda sulle piccole cose. Alla quale, diversamente da quanto capita con quelle complesse, ognuno di noi è in grado di rispondere.

Il mondo frammentato.

È opinione comune che nelle culture tradizionali la gente credesse in una sorta di cosmo armonioso che dettava il modo di vivere e i ruoli sociali a cui bisognava conformarsi. È cosí, perlomeno, che molti occidentali hanno sempre pensato alla Cina. In realtà, però, numerosi filosofi cinesi vedevano il mondo in tutt’altra maniera, ossia come il prodotto di una serie infinita di incontri caotici e frammentati.
Questa visione nasceva dall’idea che ogni aspetto della vita umana è governato dalle emozioni, comprese le interazioni che hanno incessantemente luogo tra le persone. La natura emerge dal decreto, un testo del IV secolo a.C. rinvenuto di recente, insegnava che:
Le energie della gioia, della rabbia, del dolore e della tristezza sono date per natura. Quando si manifestano all’esterno è perché qualcosa le ha spinte a uscire.
Tutte le creature viventi hanno predisposizioni, ovvero la tendenza a reagire alle cose in un determinato modo. Come i fiori hanno una predisposizione innata a rivolgersi verso il sole, e gli uccelli e le farfalle a cercare i fiori, gli uomini, che non fanno eccezione, sono predisposti a rispondere agli altri emotivamente.
Spesso non ci rendiamo conto della frequenza con cui le nostre emozioni vengono suscitate. Ma ciò che proviamo varia costantemente, a seconda di che cosa ci troviamo davanti. Facciamo qualcosa di bello e ci sentiamo appagati; ci imbattiamo in qualcosa di spaventoso e avvertiamo un moto di paura. Una relazione malsana ci butta a terra, un litigio con un collega ci fa imbestialire, un confronto con un amico ci rende invidiosi. Quando certe emozioni scattano piú di altre, le nostre risposte possono diventare automatiche.
La vita è questo: una successione di momenti in cui le persone si scontrano, reagiscono in mille modi diversi e vengono tirate di qua e di là sul piano emotivo. Nessuno può sfuggire, che sia un bambino al parco giochi o il capo di una grande nazione. Qualsiasi cosa ci capiti risente dell’insieme delle nostre esperienze emotive. Se dunque la vita degli uomini consiste in un continuo scontrarsi e reagire passivamente, viviamo in un mondo frammentato, un mondo in cui veniamo sballottati senza sosta da eventi di ogni genere.
Ma non tutto è perduto: possiamo affinare le nostre reazioni e creare nicchie di ordine. La natura emerge dal decreto sostiene che dovremmo sforzarci di passare da uno stato in cui rispondiamo a caso con le emozioni (qing) a un altro in cui rispondiamo con rettitudine (yi), ovvero in «modi migliori»:
Solo con l’esercizio acquisiamo la capacità di rispondere come si deve [...]. All’inizio [della vita] uno risponde con le emozioni; alla fine uno risponde con la rettitudine.
Sviluppare la rettitudine non significa superare o controllare le emozioni. Provare emozioni è ciò che ci rende umani. Significa semplicemente coltivare le emozioni per interiorizzare, cosí che diventino parte di noi, modi migliori di reagire agli altri. Una volta fatto questo, cominceremo a rispondere nella maniera scelta anziché come ci verrebbe d’istinto. Per tale processo di affinamento ci serviamo dei riti.

Consuetudini e riti.

Molti di noi hanno «riti» personali. Che si tratti di farsi una tazza di caffè al mattino, di cenare con tutta la famiglia, di uscire con il partner ogni venerdí sera o di portare i bambini in giro a cavalluccio prima di metterli a letto, consideriamo questi momenti importanti perché danno continuità e significato alla nostra vita e perché ci legano ai nostri cari.
Confucio converrebbe che queste abitudini sono potenziali riti. Nei suoi insegnamenti parlò diffusamente di cosa sia classificabile come rito e del perché abbia rilevanza.
Prendete un semplice gesto che tutti facciamo piú volte al giorno.
Incontrate qualcuno che conoscete.
«Ciao, come stai?»
«Bene! E tu?»
Questo breve scambio vi mette in comunicazione per un attimo prima che entrambi passiate oltre.
Oppure un collega vi presenta un nuovo arrivato: «Piacere di conoscerti». Gli stringete la mano e poi scambiate due chiacchiere sul tempo, su quello che vi sta intorno o sulla notizia del momento.
Oppure, ancora, vi imbattete in un vecchio amico al supermercato. Lasciate il carrello e vi abbracciate con calore. «Come te la passi? I bambini?» Pur senza dilungarvi, vi aggiornate a vicenda con trasporto e, prima che ciascuno riprenda la sua strada, vi promettete di sentirvi per andare a bere un caffè insieme.
Rivolgendoci a persone diverse, usiamo forme di saluto diverse, poniamo domande di tipo diverso e parliamo con toni di voce diversi. In genere agiamo cosí senza neppure farci caso. Regoliamo l’atteggiamento e scegliamo termini e locuzioni in funzione di chi abbiamo davanti – un caro amico, un conoscente, una persona mai vista, nostra madre, nostro suocero, il nostro capo, il nostro allenatore o l’insegnante di piano di nostro figlio – perché abbiamo imparato che, dal punto di vista sociale, è la cosa giusta da fare. Di conseguenza, dato che nel corso della giornata veniamo a contatto con tante persone in situazioni differenti, moduliamo costantemente ogni aspetto del nostro comportamento.
Ovviamente qualunque filosofo avrebbe notato che, al variare delle circostanze, varia anche il nostro modo di salutare ed esprimerci. Ma in pochi avrebbero ritenuto la cosa significativa a livello filosofico.
È in questo che Confucio è diverso. Secondo lui, infatti, se passiamo la stragrande maggioranza del tempo in cui siamo svegli a comportarci cosí, allora filosoficamente è proprio da qui che dobbiamo partire. Dobbiamo chiederci il motivo delle nostre azioni. Questi piccoli gesti sono consuetudini, convenzioni che veniamo abituati a ripetere tramite la socializzazione. Ma, almeno in parte, potrebbero essere trasformati in riti, un termine che Confucio definisce in maniera nuova e provocatoria.
Gli uomini sono creature abitudinarie. Siamo soliti fare una serie di piccole cose – scostarci per lasciar passare uno sconosciuto, metterci la cravatta per andare a un colloquio di lavoro – e le ripetiamo senza rendercene conto.
Anche quando agiamo inconsciamente, l’effetto è positivo. Se ci sentiamo un po’ giú di corda, staccare un attimo per rivolgere un ciao a qualcuno può interrompere una spirale negativa. Se salutiamo una persona con cui abbiamo avuto un contrasto, possiamo mostrarle un lato piú civile di noi e uscire temporaneamente dallo schema di disaccordo. Per quei brevi istanti sperimentiamo con chi ci circonda un rapporto diverso.
Ma, se riprodotte giorno dopo giorno meccanicamente, le convenzioni sociali perdono il potere di trasformarsi in riti capaci di cambiarci nel profondo. Non possono fare molto per aiutarci a migliorare come persone.
Per favorire il mutamento, dobbiamo prendere consapevolezza del fatto che solo abbandonando i nostri abituali modi di essere possiamo sviluppare altri aspetti di noi stessi. I riti – intesi in senso confuciano – sono trasformativi perché per un momento ci consentono di diventare persone differenti. Creano una realtà alternativa che, seppure effimera, ci riporta alla nostra vita normale leggermente cambiati. Per un attimo viviamo in un mondo «come se».

Il mondo «come se».

Nell’antica Cina gli uomini erano visti come un coacervo di elementi contraddittori – emozioni conflittuali, energie turbolente, stati d’animo caotici – che con il tempo ognuno si sforzava di affinare. Al momento del trapasso, però, le forze piú pericolose – la rabbia e il rancore provati all’idea di morire mentre le persone care continuavano a vivere – sarebbero state rilasciate e avrebbero poi perseguitato i vivi. Si credeva quindi che il mondo fosse pieno degli spiriti dei defunti, che guardavano i sopravvissuti con invidia. La morte tirava fuori il peggio anche in chi restava: profonda tristezza, confusione, collera inspiegabile.
Per combattere queste forze negative fuori controllo, vennero sviluppati degli atti rituali, il piú importante dei quali era il culto degli antenati. Il suo scopo era quello di trasformare gli spiriti maligni in benevoli. A tal fine i familiari mettevano della carne, in genere di maiale, in appositi recipienti di bronzo e la cuocevano direttamente sul fuoco all’interno del tempio, invocando gli spiriti affinché scendessero a cibarsi del ricco fumo che si sprigionava. Con queste offerte speravano di addolcirli, riportarli in seno alla famiglia e convincerli ad accettare il ruolo di avi benevoli.
Al termine del rito, però, poco alla volta gli antenati tornavano a essere astiosi e persecutori, e bisognava ripetere la procedura.
Nei Dialoghi, interrogato sul culto degli antenati, Confucio risponde che il rito è assolutamente necessario, ma che non fa alcuna differenza se gli spiriti ci sono oppure no: «Si compiano i sacrifici», dice, «come se fossero presenti». L’importante è partecipare al rito pienamente: «Persino per me non partecipare ai sacrifici sarebbe come non compierli».
Ma se non è nemmeno detto che gli spiriti presenzino, perché compiere il rito come se lo facessero?
In vita il rapporto tra i defunti e i vivi era teso e imperfetto come sono i rapporti nella realtà. Può succedere che un padre sia severo, freddo e irascibile; può succedere che i figli siano ostili e ribelli. Queste tensioni irrisolte diventano per i figli ancora piú tormentose quando il padre scompare e ogni possibilità di riconciliazione svanisce. Se compiuto correttamente, il rito allontana dal problematico mondo delle relazioni umane e crea uno spazio – uno spazio rituale – in cui è possibile costruire relazioni ideali. È come se, all’interno di questo spazio, gli spiriti maligni fossero benevoli antenati modello. Dal canto loro, i vivi si comportano come se fossero discendenti modello. La rabbia, l’invidia e il rancore esistiti tra i vivi e i morti vengono trasformati in un rapporto di gran lunga migliore.
Per Confucio, il rito era essenziale per l’effetto che aveva su chi lo compiva. Chiedere se quegli atti influissero davvero sui defunti era ozioso. I membri della famiglia avevano bisogno di fare sacrifici perché, agendo come se gli antenati fossero lí, avviavano un cambiamento in loro stessi.
Il rito modificava anche ciò che i vivi provavano l’uno per l’altro. Un decesso altera sempre i rapporti tra chi resta. Una rivalità d’infanzia tra due fratelli che era sopita da tempo d’un tratto si riaccende; un figlio scapestrato diventa all’improvviso capofamiglia mettendo gli altri in agitazione. All’interno del rito, però, tutti interpretano i loro nuovi ruoli come se non ci fossero disaccordi.
Il potere del rito sta nel suo essere chiaramente distinto dal mondo reale. Consideratene una variante in cui tre generazioni si scambiavano i ruoli. Un nipote interpretava il nonno morto, mentre suo padre interpretava lui. Ogni discendente in vita era obbligato a adottare il punto di vista della persona con cui nella realtà aveva avuto piú tensioni.
Era evidentemente un mondo «come se». I partecipanti non potevano in alcun modo prendere i ruoli che stavano interpretando per ruoli che potessero mai veramente assumere: un padre non viene educato a essere il figlio del figlio. Ma tramite questo rito i vivi non solo sviluppavano un rapporto diverso con il defunto: venivano anche spinti a entrare in relazioni nuove tra di loro.
Ovviamente il rito ha sempre un termine. I membri della famiglia escono dallo spazio rituale e, in quello stesso istante, si ritrovano nel mondo caotico. Man mano la fragile pace va di nuovo in frantumi. Fratelli e sorelle battibeccano, i cugini si ribellano, padri e figli sono ancora in rotta.
È per questo che il rito veniva ripetuto. La fragile pace poteva anche sbriciolarsi una volta che tutti lasciavano il tempio, ma gradualmente, celebrando il rito con continuità e ricreando cosí quei legami piú sani, il miglioramento dei rapporti tra i presenti avrebbe cominciato a manif...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Christine Gross-Loh
  4. La Via
  5. Premessa
  6. I. L’Età dell’autocompiacimento
  7. II. L’Età della filosofia
  8. III. Sulle relazioni: Confucio e i riti «come se»
  9. IV. Sulle decisioni: Mencio e il mondo capriccioso
  10. V. Sull’influenza: Laozi e il generare mondi
  11. VI. Sulla vitalità: La coltivazione interiore e l’essere come uno spirito
  12. VII. Sulla spontaneità: Zhuangzi e il mondo in trasformazione
  13. VIII. Sull’umanità: Xunzi e il dare ordine al mondo
  14. IX. L’Età della possibilità
  15. Ringraziamenti
  16. Fonti e approfondimenti
  17. Nota della traduttrice
  18. Il libro
  19. Gli autori
  20. Copyright