Malamore
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Malamore

Esercizi di resistenza al dolore

  1. 184 pagine
  2. Italian
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Malamore

Esercizi di resistenza al dolore

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« Malamore è un libro del 2008 e ha una forza che cresce col passare degli anni: cresce perché resta intatta, nel tempo, la vera domanda che lo anima. E la domanda non è perché gli uomini si sentano tanto spesso autorizzati a esercitare violenza – verbale, fisica, psicologica – sulle donne che sostengono di amare. La vera questione – mi pare, piuttosto – è perché le donne non siano in grado di respingere la violenza, quando la riconoscono. Cosa le induce, cosa ci induce a sopportare il crescendo di umiliazioni, le piccole angherie domestiche, le prepotenze pubbliche che sempre preludono a un epilogo tragico? Cosa ci fa credere di poter cambiare, accogliere, domare la minaccia? C'è una sorta di presunzione, dice l'antica favola che apre questo libro: la topolina si innamora del gatto, convinta che lo renderà vegetariano. C'è un oscuro sentimento profondo che si nutre di sensi di colpa, raccontano le tante storie di donne – celebri, anonime – che come stelle cadenti illuminano la scena del delitto. Esercizi di resistenza al dolore, recita il sottotitolo. Forse la chiave è qui: nella confidenza che le donne hanno col dolore, la palestra che serve a trasformarlo in forza. Ciascuno troverà la sua risposta, leggendo. Troverà qualcosa della sua storia e forse il coraggio di guardarla negli occhi. Se accadesse anche una volta sola, è per quella volta che ho scritto questo libro». Concita De Gregorio

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Informazioni

1. La rateta

Quando ero molto piccola ho ricevuto in dono da mia madre, che a sua volta l’aveva avuta da mia nonna, una spilla d’argento. Toccava a me in quanto figlia femmina primogenita, mi fu detto – ricordo – con una certa solennità. Una cosa di famiglia, una tradizione. Non l’ho mai messa. È la riproduzione di una topolina con una scopa in mano: in fondo alla scopa brilla una minuscola pietra preziosa che del gioiello costituisce il pregio. Da adolescenti le spille d’argento non si mettono, da ragazza alle prime vanità mi sembrò orrenda, me ne sarei vergognata: come si fa a esibire la riproduzione di un topo, un topo femmina per giunta, che addirittura scopa? A parte il significato letterale del gesto, cosí retrivo, c’era il riferimento allusivo ai secondi significati delle parole: improponibile. Restò in un cassetto. Furono piuttosto anni di monili indigeni e di simboli, di collane di corda e di conchiglie. Vent’anni dopo, l’estate scorsa, leggevo distratta su una spiaggia un bestseller da edicola. Storie di donne malamate, amori andati a male. Trovo, a un certo punto: «D’altra parte il monito della topolina che scopa la scala, i suoi insegnamenti sono cosí spesso disattesi…» La topolina che scopa la scala? Come la mia spilla di bambina? E qual è il monito? Ricerche, telefonate agli anziani superstiti della famiglia: ma certo, la rateta. Ma che mi dici, che non conosci la storia della rateta? No, non la conosco. Non è possibile: dí piuttosto che non te la ricordi. Tua nonna e tua madre te l’avranno recitata in versi di sicuro, da piccola.
È vero. Me l’avevano recitata ma avevo due, forse tre anni e non me la ricordavo piú. Anche di questa smemoratezza ci sarà una ragione. Comunque: l’ho ritrovata. È semplicemente meravigliosa. Esistono decine di libri per bambini che la rinnovano ancora oggi in versione a volte edulcorata, a volte ambigua (a finale aperto, diremmo), a volte secca e tagliente com’era. La versione originale è in rima. Si tratta di un antichissimo racconto popolare catalano, La rateta que escombrava l’escaleta. La topolina che scopava la scala. Riassumo. C’è una topolina che scopa le scale di casa (nei disegni ha un grembiule da domestica, forse sono le scale della casa di qualcun altro). A un certo punto, mentre scopa, trova un soldo. Un soldo, ecco cos’è il minuscolo brillantino in fondo alla spilla, un dinaret, una moneta. Che fortuna ho avuto!, dice la topina. Cosa ci potrei fare? Se mi compro una caramella mi si rovinano i denti, e se mi compro… e se mi compro… Fa ipotesi e le scarta. Infine trova: ecco, un nastro. Mi comprerò un fiocco rosa que l’amor s’hi posa. In rima: un nastro rosa su cui l’amor si posa. Nella traduzione in castigliano il racconto s’intitola, infatti, La rateta presumida, la topolina vanitosa. Ma è riduttivo e fuorviante: non si tratta di vanità, come vedremo. Andiamo avanti. La topolina si lega il fiocco rosa sulla coda e immediatamente, come per una legge di natura – come per un riflesso incontrollabile degli astanti, i maschi – arrivano i pretendenti. Non l’avevano notata finora, la vedono grazie al fiocco. I tacchi a spillo, la scollatura, le giarrettiere, il reggiseno a balconcino, il seno nuovo, le labbra tumefatte: i tempi cambiano ma il senso è quello. Il fiocco. C’è la fila in fondo alla scala. Arrivano un cane, un asino, un gallo. Tutti le dicono: topolina, sei deliziosa, ti vuoi sposare con me? Allora lei fa loro un test perché è furba, sembra furba. Chiede a ciascuno: dimmi cosa farai di notte. Domanda cruciale, purtroppo a tre anni non ne capisci il senso. Chiede anche: fammi sentire la tua voce che ti voglio conoscere meglio. Il cane abbaia, l’asino raglia, il gallo fa chicchirichí. In alcune versioni l’elenco degli animali è lunghissimo, i bambini impazziscono a fare tutti i versi come nella Vecchia fattoria. Da ultimo arriva il gatto. Mellifluo, vellutato, seduttore. Bello. Un gatto, comunque, e lei è un topo. Lui fa miao. La topolina cade in estasi: sei tu, eccoti, sei tu il mio amore. Ti sposo. Annuncia le nozze. Gli amici topi le dicono: sei pazza, è un gatto, ti mangerà. Lei risponde loro a malapena, con indulgente sufficienza: questo gatto mi ama, mangia gli altri topi ma non mangerà me, fidatevi. Sarò la prima topolina a domare un gatto, aspettate e vedrete: con me diventerà un altro, ne farò un gatto che mangia verdura. Si sposano. Un minuto dopo le nozze il gatto le si avvicina, voi direste per baciarla. E invece… La mangia, naturalmente. Nell’ultimo disegno resta solo il fiocco rosa. Quello che l’amor s’hi posa. È una storia tremenda. La protagonista muore sbranata. D’altra parte, cosa credeva.
Morale: i gatti sono gatti e questo restano. Retromorale: i topi femmina tendono a scegliere i gatti. Forse pensano che li salveranno, forse sono in preda a un delirio di onnipotenza o hanno una vocazione al martirio: comunque lo fanno. Ecco l’insegnamento, il segreto, saggissimo sapere che si tramanda attraverso le spille per via femminile, di nonna in nipote: evita i gatti. Sarai tentata di preferirli, li sceglierai con ostinazione ma evitali, invece. Non esistono gatti vegetariani. Esistono solo gatti melliflui, dissimulatori dei loro propositi, gatti e basta. Esistono poi, in numero enorme, topine presuntuose (presumida, ecco il vero senso della parola: non è il primo significato, vanitosa, è il secondo, una che presume molto di sé) che credono di cambiare i gatti in topi, di essere piú forti di loro. Piú pazienti, piú abili, piú ostinate. Piú lungimiranti, piú generose, piú sensibili. Un totem, quella spilla. Un amuleto. Peccato averla tenuta in un cassetto tutto questo tempo.
Cuneo. 13 maggio 2008, agenzia «Ansa».
Una ragazza romena di quindici anni è stata violentata e costretta a prostituirsi da un gruppo di giovani connazionali. È successo nella zona di Mondoví, nel cuneese, dove i carabinieri hanno arrestato i sette componenti del branco. I militari hanno anche ricostruito la storia della ragazza, che era stata lasciata dal proprio fidanzato e nello stesso periodo era stata avvicinata dai connazionali, sette giovani tra i ventuno e i ventisei anni, che si erano offerti di starle vicino per aiutarla e l’avevano riempita di attenzioni e di premure. Poi il brusco cambiamento e l’inizio dell’inferno. La quindicenne viene sottoposta a violenze sessuali inaudite anche di gruppo, indotta a prostituirsi e minacciata insieme ai suoi familiari. Non passa giorno senza che il branco approfitti della ragazza, offrendola a domicilio anche ad altri connazionali, evitando di farla prostituire per strada per non incorrere in controlli. Dopo due mesi di questa vita lei si è ribellata ed è riuscita a denunciare i suoi aguzzini. Sono stati tutti arrestati e portati in carcere a Cuneo: sono ritenuti responsabili di violenza sessuale, individuale e di gruppo, nonché di induzione e sfruttamento della prostituzione minorile. Del fatto si è occupato il sostituto procuratore di Mondoví, Ezio Domenico Basso.

2. Dalia

Il mio nome è Dalia. Se fossi nata fiore avrei voluto essere giallo: come il sole, come i campi d’estate davanti a casa mia. Quello che vi chiedo è di ascoltare la mia storia perché potrebbe essere la vostra. Non voglio compassione, né pietà, né aiuto: non mi servono, non servono a nessuno. Non serve niente dopo, serve prima. Perciò voglio solo chiedervi: avete una figlia di dodici anni? Conoscete una bambina di quell’età? Ricordate i vostri dodici anni? Ecco: quella sono io. Vi porto a casa mia, entrate. È questa: piccola sí, non c’è nemmeno l’acqua corrente e per andare in bagno bisogna uscire fuori. Anche d’inverno quando c’è la neve: fa freddo ma ci si abitua. Anzi, mia nonna, che adesso ha quasi novant’anni e una pelle di bambola, dice che è il freddo a mantenerci cosí: lisci, sani. Il mio letto è quello con la stoffa a fiori. A voi che vivete nelle case di città sembrerà una baracca, lo so che le chiamate cosí le nostre case: baracche. È come quando ci guardate e ci dite: poveretti. Sono parole che non mi piacciono. Anche se sono dette con dispiacere, è proprio quello che non mi piace, la pena nello sguardo degli altri. La mia casa va bene cosí, è la mia casa. Quando ero molto piccola mi chiamavano regina. Mia nonna mi diceva: in questo angolo di mondo è nata una regina, sei bella come la prima stella della notte, sarai la nostra ricchezza. Io ero sicura che sarei stata una regina davvero prima o poi. Che sarebbe arrivato un re a portarmi via e che poi sarei tornata con una macchina bianca a prendere mia nonna e mia madre, i miei fratelli piccoli: li avrei portati tutti a palazzo. Mio padre non lo so chi è, non c’è mai stato un uomo a casa nostra. Mia madre esce il pomeriggio, la vengono a prendere, va a lavorare nel paese vicino: torna la notte, a volte non torna, però basta aspettare perché prima o poi torna sempre. È molto stanca, di mattina dorme. Aspetta un altro figlio, ne ha sette. I miei fratelli grandi sono partiti, in casa adesso siamo quattro. Sarai la nostra ricchezza. Era una frase bella ma non sapevo perché: pensavo che sarei stata ricca con la bellezza, con il re che sarebbe venuto a prendermi di certo. Poi ho compiuto dodici anni, l’età in cui si trova marito. Non avevo ancora il seno grande, non ero diventata una ragazza ma aspettavo: da un giorno all’altro succederà, mi diceva mia nonna. Per il mio compleanno abbiamo raccolto dei fiori, coi miei fratelli, e abbiamo cucinato una zuppa con la farina scura, buonissima. Io mi ero pizzicata le guance per farle diventare rosse come quelle delle bambole, delle signore. La nonna mi aveva intrecciato i capelli biondi in una corona sulla testa.
Gli uomini che venivano a prendere mia madre mi hanno vista cosí, ero proprio una regina. Hanno parlato tra loro e con mia nonna, mi guardavano e ridevano, poi sono andati via. La mattina dopo la mamma piangeva. Mi ha detto solo: «È venuto il momento di partire, regina. Poi quando avrai abbastanza soldi ti potrai sposare». Cosí ero felice: avrei avuto i soldi per sposarmi. Dovevo solo trovare il re. La nonna mi ha venduta per ottocento dollari. Moltissimi, li ho visti: so quanti erano perché li hanno contati. Sono venuti quegli uomini, sono entrati in casa e da una sacca scura hanno tirato fuori tanti soldi come non ne avevo visti mai. Hanno contato per un mucchio di tempo, i miei fratelli sono venuti vicino e battevano le mani, sembrava una festa. Cosa avremmo fatto con tutti quei soldi enormi e colorati? Saremmo partiti, avremmo comprato una casa in città, una macchina e una tv? Avremmo avuto una casa con l’ascensore, addirittura? Però no, non volevo andare via da casa mia, non volevo una casa in città, ho chiesto alla nonna «a cosa servono tutti questi soldi» e lei mi ha detto: a vivere, a mangiare, li terrò io nascosti e una parte quando tornerai sarà per te. Perché, dove vado? Vai a lavorare, mi ha detto. Vai con questi uomini che ti portano dove avrai una casa piú calda e un lavoro, non avere paura. Però io avevo paura, tanta. Ma la nonna era la nonna, la nonna decideva sempre per noi e io ero la sua regina. La sua ricchezza, ecco perché. Era per me che pagavano tanto. Cosí sono andata. Avevo dodici anni. Come vostra figlia a dodici anni, come voi al tempo della scuola. Il viaggio è stato lunghissimo. Nel posto dove siamo arrivati parlavano una lingua che non capivo. Non conoscevo nessuno. Mi hanno dato un letto in una stanza: la casa era piú calda, sí, ma non era la mia. Entravano uomini a vedermi, parlavano di me con altri uomini. Sono passati i giorni. Dormivo, aspettavo. Alla fine quello coi baffi sottili mi ha detto alzati, partiamo. Sono partita in macchina con due sconosciuti, abbiamo attraversato una città e siamo arrivati al mare. Sono salita su una nave, sono arrivata in un altro posto, un’altra stanza, un altro letto. Non avevo niente con me, solo le mie scarpe e i miei vestiti: una borsa piccola. Anche un fiore secco, uno di quelli del mio compleanno.
Non voglio parlare di quel posto dove sono stata né di quello che mi è successo. Non c’è niente da raccontare. Era uguale ogni giorno, orribile. Le ore non passavano mai. La gente che entrava non la vedevo neanche in faccia, non ricordo nessuno. Solo odore di umidità, puzzo, sudore, mani, vestiti sporchi. Non voglio parlare. Dopo un po’ ho smesso di piangere perché se piangi, mi dicevano, nessuno ti vuole e ti buttiamo in mare. Ho avuto due figli, non so dove siano, li ho partoriti in casa, li hanno portati via. Non so se erano maschi, femmine. Li ho sentiti uscire da me, piangere mentre li portavano fuori dalla stanza, non li ho visti. Un giorno uno degli uomini che veniva mi ha picchiata, era ubriaco, rideva, mi ha tagliata dappertutto con un piccolo coltello, rideva, alla fine mi ha aperto la faccia. Sentivo il sangue ma non dolore. Mi ha curata una donna che non parlava mai. Con il segno sulla faccia valevo di meno, non mi volevano piú. È una cicatrice che sembra una corda in rilievo, arriva fino alla bocca. L’ho vista un giorno in un pezzo di specchio. Non sono piú bella come la prima stella della notte, ho pensato solo. Non ho pianto. Ho pensato che forse sarei tornata a casa, se ero brutta. Cosí ho cominciato a tagliarmi da sola. Sulle braccia, sul petto, sulla pancia. Ho segni dappertutto adesso. Ma ho fatto bene, lo sapevo che dovevo fare cosí: diventare brutta e farmi buttare via. Mi hanno buttata via infatti. Un giorno mi hanno fatta salire in macchina e mi hanno portata in un campo, pensavo che mi volessero ammazzare invece mi hanno solo fatta scendere. Vai, hanno detto. Era notte, c’era un campo e una strada senza luci. Ho sentito la macchina andare via, poi solo il rumore del mio cuore. Non so come, sarà stata la stanchezza o la paura, mi sono addormentata. La mattina ho cominciato a camminare lungo la strada, è passato un camion, mi ha fatta salire. L’uomo mi ha portata a casa sua e mi ha tenuta lí molti giorni, pensavo che volesse tenermi come moglie ma non mi parlava mai. Veniva la sera, ripartiva la mattina. Ero sua moglie, ho pensato. Va bene, resto qui. Poi invece si è stancato. Mi ha detto vai. Credo che mi abbia detto vai, insomma: mi ha dato la borsa coi miei vestiti e mi ha portata davanti a una chiesa. Cosí sono tornata a casa. Un prete, poi della gente in un ufficio, poi dei soldati, poi un ospedale, poi uno che parlava la mia lingua, poi – molto tempo dopo – un aereo enorme. A casa ci sono arrivata a piedi. Mi hanno lasciata al villaggio vicino ma io la strada me la ricordavo benissimo. L’ho vista subito, da lontano. Mio fratello, quello piú piccolo, stava giocando fuori. Io l’ho riconosciuto, lui no. La nonna è morta. La mamma non torna da molte settimane mi ha detto Eric, che adesso è il capofamiglia: ha quattordici anni. Mio fratello piccolo, nato quando non c’ero, ne ha dieci. Cos’hai fatto in faccia, mi ha chiesto. Niente, si è rotto un vetro. E sulle braccia? Niente, una malattia ma sono guarita. Mi sono stesa sul mio letto, la stoffa a fiori era la stessa. Eric mi ha detto che un giorno spostando delle pietre hanno trovato dei soldi: il tesoro della nonna. Cosí non abbiamo problemi a vivere, abbiamo i soldi per mangiare e poi lui lavora, adesso, lavora ogni tanto per certi che costruiscono case. Quello che c’è ci basta, se vuoi restare, mi ha detto. Io sí che voglio restare.
Non voglio parlare con nessuno di quello che è successo, voglio solo stare qui. Diventare vecchia come mia nonna, cucinare la zuppa quando c’è la farina. Non verrà un re, lo so. Per fortuna non verrà piú nessuno. Mi chiamo Dalia, come un fiore. Ho ventitre anni, sono vecchia. Non avrò marito, non avrò una macchina che viene a prendermi per portarmi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Malamore
  4. Introduzione
  5. 1. La rateta
  6. 2. Dalia
  7. 3. Cristina
  8. 4. Paura di volare
  9. 5. Circe
  10. 6. La mala educación
  11. 7. Ti do i miei occhi
  12. 8. Franca
  13. 9. Dora. La luce nell’ombra
  14. 10. Lee
  15. 11. Barbablú e le spose cadavere
  16. 12. Eva
  17. 13. Louise
  18. 14. Il ministro
  19. 15. Noir Désir
  20. 16. Aghi
  21. 17. L’avvocato
  22. 18. Disuguali
  23. 19. Il programma segreto
  24. Il libro
  25. L’autrice
  26. Della stessa autrice
  27. Copyright