Io sono con te
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Io sono con te

Storia di Brigitte

  1. 264 pagine
  2. Italian
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Io sono con te

Storia di Brigitte

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Informazioni sul libro

L'ha scelta fra mille possibili, come si apre una porta o si imbocca un sentiero. Perché è solo dentro gli occhi di ogni singola persona che si può vedere il mondo. Brigitte arriva alla stazione Termini un giorno di fine gennaio. Addosso ha dei vestiti leggeri, ha freddo, fame, non sa nemmeno bene in che Paese si trova. È fuggita precipitosamente dal Congo, scaricata poi come un pacco ingombrante. La stazione di Roma diventa il suo dormitorio, la spazzatura la sua cena. Eppure era un'infermiera, madre di quattro figli che ora non sa nemmeno se sono ancora vivi. Quando è ormai totalmente alla deriva l'avvicina un uomo, le rivolge la parola, le scarabocchia sul tovagliolo un indirizzo: è quello del Centro Astalli, lí troverà un pasto, calore umano e tutto l'aiuto che le serve. Di fatto è un nuovo inizio, ma è anche l'inizio di una nuova odissea. Io sono con te è un libro raro e necessario per molte ragioni: è la storia di un incontro e di un riconoscimento, di un calvario e una rinascita, la descrizione di un'Italia insieme inospitale e accoglientissima, politicamente inadeguata e piena di realtà e persone miracolose. Melania Mazzucco si è messa in gioco a ogni pagina come essere umano e come scrittrice, scegliendo una forma flessibile e nuova, esatta, personale, carica di un'emozione trattenuta e dirompente. Se in Vita aveva narrato l'epopea dell'emigrazione italiana, ora ribalta la prospettiva: guardando negli occhi questi uomini e queste donne, specchiandoci nelle loro storie, non potremo non riconoscere l'energia disperata che ci accomuna tutti, quando la vita ci ha travolti e tentiamo di rimetterci in piedi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858424292

Cinque

Quale misura dare a questa solitudine?
W. Benjamin, Sonetto.
Dietro la confusione di viale Manzoni, la strada, bordeggiata di villini a due piani per lo piú trasformati in hotel senza pretese per viaggiatori di limitate risorse, è silenziosa e tranquilla. Sugli scalini dell’ingresso indugiano infermiere, pensionati, utenti in attesa col bigliettino in una mano e lo smartphone nell’altra. Nell’edificio della Asl, recentemente ristrutturato e insolitamente accogliente, il SaMiFo occupa una vasta porzione del pianterreno. Ci sono un ufficio, un atrio, svariate stanze per i dottori (i generici, il medico legale per il rilascio dei certificati, gli psicologi, gli psichiatri), una sala d’aspetto con una ventina di sedie rosse e le pareti appena ridipinte con una tenue tinta gialla, e una biblioteca da cui possono essere liberamente asportati libri e riviste. Italiani residenti nei municipi centrali di Roma e richiedenti asilo si sfiorano quasi senza notarsi.
I bianchi prendono i numeri alla macchinetta e si distribuiscono tra le casse, per prenotare o pagare le prestazioni specialistiche che riceveranno ai piani superiori; gli stranieri, quasi tutti neri, le oltrepassano e, sulla destra, approdano all’orientamento del SaMiFo. Il tavolo si protende verso il centro della sala in modo strategico: nessuno può ignorarlo o sentirsi spaesato. L’operatore del desk, un maliano poliglotta, è pronto a dare spiegazioni in francese, bambara, wolof. Su prenotazione, trova qualcuno che parli tigrino o amarico. Anche i neri ricevono un numeretto. Si visitano trenta persone al giorno.
Abdu aiuta Brigitte a sbrigare le pratiche per chiedere la tessera sanitaria e poter usufruire del servizio. Poi la introduce nel back office – perché possa spiegare di cosa ha bisogno in un ambiente riservato. I rifugiati, e soprattutto le rifugiate, hanno diritto a non informare gli estranei delle loro sofferenze.
Nel back office del SaMiFo la ascolta Martino, un italiano con gli occhialetti rettangolari da miope, alto, bello, bruno – lui pure con gli occhi neri brillanti e barbuto come Filippo. Brigitte gli parla in francese, e in francese Martino le risponde. Lei capirà in seguito che anche Martino è un operatore del Centro Astalli ed è lí proprio per questo. All’inizio, invece, la sua competenza linguistica contribuisce a illuderla che la maggior parte degli italiani parli francese, che sia la lingua dei loro studi a scuola, proprio come è stato per lei. Quando Martino le chiede dove alloggi in questo momento, risponde: da nessuna parte. Lui segna sulla scheda «senza alloggio» e, allarmato, la manda subito in medicina generale.
La dottoressa del SaMiFo ritiene che abbia la tubercolosi e le fa compilare il questionario per la TBC. Le dice anche che dovrebbe ricoverarsi. Brigitte rifiuta. Sostiene di essere infermiera, e di saper riconoscere i sintomi della malattia. Le tre T: tosse, traspirazione, temperatura. E lei non ha tosse né sudori, solo la febbre. Ha curato centinaia di tubercolotici, al suo ambulatorio. La dottoressa la sottopone comunque al test.
Riscontra inoltre una severa infezione alle vie urinarie, e all’apparato riproduttivo. La paziente non ha mestruazioni da quattro mesi. È in età fertile, e riferisce violenze recenti. Benché la sparizione del ciclo possa dipendere dagli stupri, dalla malnutrizione e dallo choc, benché l’amenorrea non sia necessariamente sintomo di gravidanza e quasi tutte le richiedenti asilo, provate dal viaggio e dai traumi subiti, ne siano affette, le prescrive una visita ginecologica, e l’analisi del sangue per misurare le beta hcg.
Brigitte non fa un test di gravidanza da sette anni, ma ne ha eseguiti centinaia. All’inizio, prima che arrivassero i test moderni, quando lavorava in laboratorio, li eseguiva alla maniera tradizionale. Con una siringa, iniettava l’urina della donna nel dorso di un rospo maschio. Dopo due ore aspirava il liquido e lo applicava sul vetrino. Il microscopio rivelava infallibilmente se gli spermatozoi avevano fecondato l’uovo. La sua mente rifiuta l’idea. Non vuole nemmeno immaginare di poter essere incinta.
La dottoressa le prescrive una terapia antibiotica e una sfilza di altri esami. Brigitte non rivolge neanche un’occhiata alle ricette, e le consegna subito all’operatore del desk – perché le prenoti gli appuntamenti. È un’infermiera. Sa che cos’ha, e sa cosa sono quegli esami.
Anche se in francese si chiama Sida, è la stessa malattia. Con molta cautela, le hanno spiegato che i sieropositivi e i malati di Aids in Italia ricevono asilo umanitario. E anche gli invalidi, e gli affetti da malattie gravi, che nei loro paesi d’origine non potrebbero curarsi. È una forma di protezione minore, ma dà gli stessi diritti dell’asilo politico. Il permesso vale due anni, e può essere rinnovato. L’Italia è l’unico paese che preveda questa protezione. Possiamo vantarci di questa eccezione.
L’Italia? ha chiesto lei, incerta. Sei in Italia. In Europa, ma in Italia. Lei ha annuito. Si ricorda della prima volta che ha sentito nominare l’Italia. Era nella cartina della Bibbia. L’apostolo Pietro, spiegavano le suore belghe a catechismo, è andato a diffondere la buona novella nella capitale dell’Impero, in Italia.
L’informazione sull’asilo umanitario per i malati l’ha lasciata perplessa, ed è convinta di non aver compreso bene. Di solito nessuno vuole i malati. Sono gli ultimi degli ultimi. Questa Italia in cui si è ritrovata senza averlo voluto si annuncia come uno strano paese. Ma non sarà comunque il suo caso. Non sarà una rifugiata per motivi umanitari. Quando, qualche giorno dopo, le prelevano il sangue, giura che, se il risultato sarà: «positiva», si lascerà morire.
La dottoressa la invia dallo psicologo. Con urgenza: il che vuol dire che deve essere ricevuta il prima possibile. Come evidenzia l’acronimo SaMiFo, l’ambulatorio è riservato ai migranti forzati, e moltissimi richiedenti asilo hanno bisogno di sostegno psicologico. Le donne, praticamente tutte. Le scampate alle violenze sessuali sono eccezioni rare. Tante africane poi le hanno patite prima, durante e dopo la fuga. Ma anche i piú giovani sono fragili come un vetro. Neanche tre giorni fa, all’aeroporto di Fiumicino si è verificato un incidente gravissimo, che ha amareggiato tutti i dottori del SaMiFo – perché per uno che riesci a recuperare, nove ne perdi. Alle dieci e trenta del mattino un ragazzo della Costa d’Avorio si è dato fuoco al Terminal 3. Era un «caso Dublino» – rimpatriato da Amsterdam perché il primo paese nel quale aveva chiesto asilo era l’Italia, e gli era stato rifiutato. Appena sbarcato, gli avevano notificato il decreto di espulsione. Probabilmente nessuno lo aveva informato che aveva diritto a presentare ricorso contro il diniego. Ma il piano del ragazzo non prevedeva il ritorno. Il suo era un viaggio di sola andata. In borsa, aveva una tanica di benzina. E appena lo avevano bloccato, se l’era rovesciata sui vestiti. Mentre armeggiava con l’accendino, un poliziotto gli era coraggiosamente saltato addosso, col risultato di prendere fuoco anche lui. Non fosse stato per una funzionaria della dogana che aveva svuotato su entrambi il contenuto dell’estintore, sarebbe arso come una torcia – e il poliziotto con lui. Le ultime notizie lo davano ricoverato al Sant’Eugenio reparto grandi ustionati – grave, sebbene non in pericolo di vita. La stampa non ha diffuso la sua fotografia, e solo le iniziali del suo nome: C. A. Tutti gli operatori del SaMiFo e del Centro Astalli si sono chiesti se lo conoscessero, se fosse passato dalla mensa, se lo avessero aiutato loro, o i colleghi di altre città italiane, a presentare la domanda che era stata respinta. Aveva diciannove anni. Eppure cosí solo, disperato e determinato da preferire la morte al rimpatrio.
Abdu le fissa l’appuntamento il primo giorno utile: il 21 febbraio. Oggi è il 19. Brigitte pensa che non si presenterà. Non ha bisogno di uno psicologo. Semmai di un ginecologo, o di un infettivologo. Le targhette sulle porte le hanno rivelato che al SaMiFo ci sono gli uni e gli altri specialisti. Crede nella medicina, nei farmaci, nella scienza. E se proprio nessuno di questi rimedi funziona, allora può pensare a un guaritore. Diffida della credulità ancestrale, dell’ignoranza che riconduce le malattie al malocchio e la perdita di ragione a una fattura. Ma qualche volta, nel buio della prigione, credere che fossero gli spiriti a farle del male sarebbe stato un sollievo – come credere che è stato Dio a salvarla. La magia è lo specchio della religione. Uno psicologo, invece, cosa può fare per lei? Io ho bisogno di un letto, di un tetto, di soldi, dei miei figli. Oggi è il compleanno di Gervais. Compie quindici anni. È la prima volta che lo festeggia senza di me. Penserà che l’ho abbandonato. Mi odierà per sempre.
Brigitte esce dal SaMiFo agitata e sconvolta. Si trova in una zona della città che non conosce, qualche isolato dietro la fermata Manzoni della metropolitana. È un mezzogiorno grigio e nuvoloso. Ha piovuto tutta la mattina, e i marciapiedi del viale sono viscidi e allagati di pozzanghere scure. Un mendicante protende la gamba monca sotto il ginocchio: nel bicchiere di carta raccoglie le elemosine dei passanti. Lo agita, quando lei lo oltrepassa, facendo tintinnare le poche monetine di rame. Brigitte lo ignora, ma il pensiero che quello abbia creduto che lei avesse qualcosa da dargli la rincuora. Cammina senza meta, attratta da una costruzione bianca, che le sembra familiare. Lo è infatti: è il caseggiato degli uffici ferroviari della stazione Termini, lungo come i treni che gli sfilano davanti.
Si ritrova nell’atrio e, per qualche ora, si ripara dal freddo. Riesce perfino a sedersi sul muretto della fontana del piano interrato. Scambia qualche parola con un bianco – non saprebbe se italiano, o di un altro paese. Non sa ancora distinguerli. Divide il mondo in neri, e bianchi. Non subito, ma capisce che il bianco le sta proponendo soldi in cambio di una prestazione. Non molti, anzi pochi, ma per una cosa veloce, conosce un posto, qui vicino. Soldi… Ne ha bisogno. In tasca ha due euro e un biglietto dell’autobus. Glielo hanno dato al Centro Astalli. Le hanno raccomandato di pagare il biglietto sui mezzi. L’opinione pubblica è già ostile ai richiedenti asilo, bisogna evitare le occasioni che possono alimentare l’intolleranza. Il bianco è sicuro che lei sarà d’accordo. È abituato a fare proposte simili, e non gli è mai capitato di essere respinto. Ma Brigitte si alza, disgustata. Che piova, che nevichi, non dormirò mai piú a Termini. Le notti seguenti, le passa su una panchina di piazza Venezia.
Potremmo incontrarci in uno di quei giorni di febbraio del 2013. A piazza Venezia, al primo piano del palazzo che fu sede dell’Ambasciata della Repubblica Serenissima, poi dell’Austria e infine di Mussolini, che aveva installato lo studio nella sala del mappamondo, col famigerato balcone, c’è la Biblioteca di archeologia e storia dell’arte. In quel periodo, sto scrivendo per «la Repubblica» la serie del Museo del mondo. Ogni domenica, nella quarta pagina di cultura, racconto un quadro. Mi sono impegnata a consegnarne uno la settimana, per un anno intero. Sono un fulmine quando penso, e lenta quando compongo: per non sentirmi pressata dalle scadenze, prima dell’inizio della pubblicazione ne ho già preparati una ventina. Klee, Beato Angelico, Kokoschka, Jackson Pollock… Ho scelto i quadri che piú amo e meglio conosco, ma ciononostante ho continuamente bisogno di verificare date, notizie, ricordi. Devo essere la redattrice di me stessa: sviste, lapsus ed errori saranno imputati solo a me. Cosí certe mattine vado in pellegrinaggio in biblioteca. Se piove e non posso usare il mio scooter, prendo l’autobus. Scendo alla fermata dell’Aracoeli, attraverso i giardinetti di piazza Venezia, sul pendio che dal Campidoglio declina verso la fossa della piazza. Un riquadro verde delimitato da una scalinata di travertino e da una bassa recinzione di ferro, tra la piazza di Aracoeli e i capolinea degli autobus. L’erba, mai innaffiata né curata, è stecchita dal gelo e cosparsa di bottiglie vuote, mozziconi, bucce d’arancia e altri residui di bivacchi, ma un cartello a cura di ROMA CAPITALE, infilzato nella terra nuda, ammonisce che è vietato calpestarla – e vietato condurre cani, gettare immondizie, cogliere fiori. Il cartello affida l’intimazione non a vane parole, ma a quattro eloquenti vignette: ciononostante è stata ignorata. Una fila di panchine di marmo costeggia il pianoro ricoperto di ghiaia, sulla cima del pendio, sotto alti pini secolari e obesi cipressi. È proprio una di quelle panchine il letto di Brigitte.
Lo ha scelto per la vicinanza ai capolinea degli autobus. Benché di notte ne parta appena uno l’ora, e vi salgano poche persone, pure c’è sempre qualcuno. Autisti, studenti ubriachi reduci dal tour di bevute nei pub di Campo de’ Fiori, qualche barbone che si regala un viaggio in ambiente riscaldato, baristi e camerieri che tornano a casa dopo la chiusura dei locali. E poi c’è la volante della polizia che, mentre il lampeggiante blu rotea pigro sul tetto, perlustra le strade del centro. E ci sono i militari armati posti a presidio del candido, imponente monumento che incombe sulla piazza: cosí gigantesco e fuori scala, l’Altare della Patria sembra vegliare sulle creature lillipuziane che lo attorniano. L’illuminazione dei lampioni a lanterna è scarsa, ma comunque quella porzione di piazza non resta mai del tutto al buio. Le è sembrato un luogo protetto e infatti lo è. Il freddo è il suo solo nemico nelle notti di piazza Venezia.
Ma non ci incontriamo. Brigitte – indolenzita, intirizzita – si risolleva dal suo giaciglio prima delle sei del mattino. Si scrolla dalla giacca gli aghi di pino che l’hanno ricoperta durante la notte, si sciacqua il viso alla vicina fontanella di piazza San Marco, una pigna di marmo che erutta, silenziosa e ininterrotta, un rivolo d’acqua dura e buona dell’acquedotto di Roma. Beve fino a dissetarsi, e se ne va quando ancora non è nemmeno giorno. Non vuole che nessuno la veda dormire su una panchina, per strada, come una vagabonda.
Oppure forse la incrocio quando in biblioteca ci vado invece nel pomeriggio, ed esco alla chiusura, dopo le sette di sera: il buio è già denso, e Brigitte si appresta, furtiva come un’ombra, a riprendere possesso della sua panchina. Non faccio caso a lei.
Non ha letto, né tetto, né soldi, né figli. Vaga due giorni tra piazza Venezia e la stazione. Cammina, cammina per ore, stringendosi nella giacca, senza guardarsi intorno, senza vedere nulla, senza sapere dov’è, senza meta. Il sole splende in un cielo stupendamente azzurro, ma l’aria è fredda. Non conosce l’esito del test di gravidanza e delle analisi del sangue. Non parla con nessuno da ore. Ma di Martino si fida come di Francesca. Il 21 febbraio al SaMiFo si presenta puntuale.
Martino le ha già assicurato che sarà al suo fianco: tradurrà le sue parole, sarà l’interprete. Ma quando la introduce nella stanza delle visite, lei si blocca. Lo psicologo di turno è una donna, Maria. Di nuovo, Brigitte ha un moto di rifiuto. Anche se la petite fille, Francesca, comincia a piacerle, si ostina a preferire un uomo. Un blanc. Ma non può scegliere. Una volta, aveva il controllo di tutto. Delle sue azioni, di quelle degli altri. Ora, nulla può scegliere, nulla dipende da lei.
Maria avrà una cinquantina d’anni. Piccola di statura, coi capelli neri lisci, separati nel mezzo della testa da una riga inesorabile, l’espressione mite. Chi lavora al SaMiFo ha scelto di farlo. Ma un turno nella stanza di via Luzzatti equivale a un mese nello studio proprio. Le altre psicologhe curano depressioni ed esaurimenti, hanno per clienti donne infelici, vittime di abbandoni e tradimenti, licenziamenti, maternità difficili e sindromi del nido vuoto. Maria, vittime di torture innominabili, che hanno devastato corpo e psiche, e che solo anni di terapia potranno forse restituire a una vita normale, o semplicemente accettabile.
Maria è lí per ascoltarla, per conoscerla, per capire chi è stata, chi è, e come può aiutarla. I dottori del SaMiFo lavorano in gruppo: ogni mercoledí pomeriggio si riuniscono per scambiarsi pareri, opinioni, aggiornamenti. A volte, quando pubblicano articoli su opuscoli di informazione scientifica nemmeno li firmano: le osservazioni di uno sono condivise da tutti. Ognuno, però, benché sempre affiancato dal mediatore, si confronta col suo paziente da solo. E Brigitte oppone a Maria una sorda resistenza. Non si fida, e non si confida. Soprattutto, non vuole ricordare quello che le è successo. Si sforza, ogni minuto di ogni singolo giorno, di cancellare tre mesi della sua vita. Solo cosí può rimuovere l’angoscia che la divora, e ritrovare la dignità. E l’orgoglio. Quello non le manca. Ha – aveva – un’alta opinione di sé. In Africa, un’infermiera è qualcuno.
Cosí, con gesto solenne, depone sulla scrivania una tesserina – piccola come un biglietto da visita, inserita nella protezione di cellophane trasparente. I bordi sono rialzati: la tesserina è caduta in acqua, o ha preso molta pioggia. In alto a destra, la fotografia raffigura una giovane e piacente donna nera, il sorriso sulle labbra e i capelli acconciati alla je m’en fous. C’est moi, je suis infirmière, dice Brigitte a Maria, ma in realtà rivolgendosi a Martino, perché è il suo rispetto che cerca.
I due si chinano, devono avvicinarsi alla tesserina perché la foto è fuori fuoco, e la scritta sbiadita. Riescono a leggere che BRIGITTE KU PHAKUA è membro della Croce Rossa della Repubblica Democratica del Congo. Regardez bien, dice Brigitte, elle m’a sauvé la vie.
Io sono nata per lavorare, non per stare in casa. Ho cercato di fare affari fin da ragazzina. Sono sempre stata sveglia. E maline. Non c’è una parola italiana che abbia lo stesso identico significato. Potresti tradurre scaltra, o furba – ma non è la stessa cosa. Tutti gli africani sono malins, e tutti gli africani sono commercianti. Una volta mi avete detto quanto vi stupisce che tutti – quando ci chiedete la professione – diciamo di essere commercianti. Da voi un commerciante deve avere un negozio. Da noi deve avere solo il cervello. Io il dono del commercio ce l’avevo. Sono diventata marchande, al dettaglio. Anche mia madre lo era, forse ho iniziato per imitare lei. Nella mia infanzia, tutti i giorni l’ho vista andare al mercato. Aveva una bancarella e vendeva riso, fagioli, pesce affumicato, noci di palma. Prima di andare a scuola, passavo a salutarla o a chiederle dei soldi. Una volta ne avevo bisogno per comprare la maionese. Ricordo che le suore belghe ci avevano promesso di farci assaggiare la maionese. Lei non ha voluto, o potuto, darmi i soldi. Me li ha prestati una sua amica, che vendeva frutta, garí e chikuange con arachidi e baccalà. Non ho mai dimenticato la generosità di quella povera donna. Molti anni dopo, quando mi sono comprata la macchina, prima di portarmi in clinica, dicevo all’autista di passare al pont Maréchal. Collega le due rive del Congo, è il ponte sospeso piú lungo dell’Africa. Caricavo tutte le maman amiche di mia madre, che ormai erano anziane e malandate e non ce la facevano piú a trascinare i loro pacchi di mercanzie, e le accompagnavo al mercato.
Io invece ho cominciato con le uova. Mezzo cartone, quindici uova. Le ho comprate a uno, le ho vendute a due. Ho comprato venti uova, e poi un cartone intero. E dopo ancora due, tre, dieci, cento. Sono arrivata a millecinquecento. Fa quarantacinquemila uova. Nel giro di un anno, avevo i camion per andare a comprare le uova nei villaggi, e per trasportarle in città. I commercianti si fornivano da me. Il segreto è essere pronti a vendere le cose di cui c’è bisogno. E a Matadi la cosa di cui c’è piú bisogno sono le cure...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Io sono con te
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Quattro
  8. Cinque
  9. Sei
  10. Sette
  11. Otto
  12. Nove
  13. Dieci
  14. Undici
  15. Dodici
  16. Tredici
  17. Quattordici
  18. Quindici
  19. Sedici
  20. Diciassette
  21. Diciotto
  22. Diciannove
  23. Venti
  24. Post scriptum
  25. Il libro
  26. L’autore
  27. Della stessa autrice
  28. Copyright