La traduzione tedesca di Se questo è un uomo uscí in Germania alla fine del 1961, pubblicata dalla Fischer. Intitolata Ist das ein Mensch?, fu il risultato di un lavoro – svolto in collaborazione e testimoniato da una fitta corrispondenza – tra Primo Levi e il suo traduttore tedesco Heinz Riedt. Una volta completata la versione, l’editore Fischer chiese all’autore un testo introduttivo. Levi non riuscí a scriverlo e propose di riprendere una parte della lettera con cui aveva ringraziato Riedt per la sua opera.
Questa storia ci è familiare: Levi l’ha raccontata in «Lettere di tedeschi», pubblicato come ultimo capitolo dei Sommersi e i salvati nel 1986 e con tutta probabilità scritto poco prima. In «Lettere di tedeschi» Levi racconta, a distanza di trent’anni, la traduzione e ricezione del suo primo libro in Germania, rievocando un tempo passato da una prospettiva presente. Da quel preciso punto di osservazione, si domanda chi fossero i tedeschi a cui Se questo è un uomo era rivolto. Le risposte che formula sono piú d’una.
I tedeschi sono i carnefici: «da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi che mi avrebbero letto erano “quelli”, non i loro eredi»; sono il popolo coinvolto, «non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS»; e sono anche il popolo non coinvolto, ma che sapeva e aveva ignorato: «quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana»2.
Tutte e tre queste categorie interessano Levi: tutti si trovavano dall’altra parte, e nessuno di loro poteva non sapere. Levi vuole parlare a chi sapeva già, non per informare sui fatti ma per offrire la propria versione. Per indicare il suo intenso desiderio di allora – che Se questo è un uomo venisse letto dai tedeschi – ricorre a due metafore: «quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi» e «li avrei costretti, legati davanti ad uno specchio»3. Come ha fatto notare lo studioso Thomas Trezise, entrambe le immagini evocano una forma di giustizia retributiva: sentirsi minacciati e provare vergogna sono due delle condizioni subite dalle vittime, e che ora vengono trasferite sui persecutori4. Levi è animato dal desiderio di capire, ma vuole anche restituire un torto.
La lettera-prefazione a Ist das ein Mensch?5 – che, come nota Levi, in Germania «viene letta come parte integrante del testo»6 – è trascritta, in «Lettere di tedeschi», in forma quasi integrale:
Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere. […]
Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto7.
Il segno di omissione indica che il testo originale (tanto la lettera privata a Riedt quanto la prefazione apparsa in Ist das ein Mensch?) contiene un periodo in piú, qui riportato in corsivo:
Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere. So anzi, da quando ho imparato a conoscere Thomas Mann, da quando ho imparato un po’ di tedesco (e l’ho imparato in Lager!), che in Germania c’è qualcosa che vale, che la Germania, oggi dormiente, è gravida, è un vivaio, è insieme un pericolo e una speranza per l’Europa.
Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto8.
In queste righe si incunea un’immagine della Germania che nel testo tagliato scompare: gravida, vivaio, pericolo ma anche speranza. Compare anche una prospettiva cronologica che fa risalire a prima di Auschwitz il rapporto di Levi con i tedeschi. «Da quando ho imparato a conoscere Thomas Mann» significa da ben prima della guerra: La montagna incantata fu un viatico fondamentale per Levi negli anni dell’università, probabilmente insieme alla trilogia di Giuseppe9. Tedesco era anche Ludwig Gattermann, autore del manuale di chimica organica pratica che Levi inserirà nella propria «Antologia personale», La ricerca delle radici, traducendone di proprio pugno alcune pagine10: di quel manuale il dottor Pannwitz aveva mostrato una copia a Levi durante il famoso «esame di chimica» in Lager.
Chi sono i tedeschi per Levi?
Prima della guerra, i tedeschi sono alcuni dei suoi padri letterari e scientifici: Mann, Heinrich Heine, Gattermann. Ad Auschwitz, sono oppressori: la figura che li definisce e comprende tutti è il dottor Pannwitz («ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli»)11, quella che li introduce è il soldato che compare per primo in Se questo è un uomo, sulla soglia del Lager, e domanda «ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli»12. Le SS non sono i soli abitanti tedeschi del Lager: ci sono i civili che lavorano nell’industria della Buna, e ci sono i Prominenten, i prigionieri privilegiati, politici o criminali comuni.
Rientrato a Torino, Levi scrive dei tedeschi in Se questo è un uomo, un libro pubblicato nell’autunno 1947 da una casa editrice prestigiosa ma piccola, e che trova pochi lettori; i tedeschi sono diventati i personaggi di una memoria recente, messa per iscritto per necessità di testimonianza e per terapia. Negli anni successivi, Levi si sposerà, avrà due figli, troverà impiego stabile nella fabbrica di vernici SIVA. Durante gli anni Cinquanta i suoi tedeschi saranno colleghi di lavoro da incontrare in Germania e ai quali rivelare, di proposito e con spirito provocatorio, il passato di Auschwitz. I tedeschi, a quel punto, non sono piú oggetto di scrittura: l’esperienza di Se questo è un uomo sembra archiviata, e i pochi racconti che Levi continua a scrivere (anche racconti di Lager) non paiono funzionare.
Nel 1960, a questa schiera si aggiunge Heinz Riedt, «tedesco anomalo» per trascorsi e funzione: grazie alla sua opera di traduttore i tedeschi-oppressori, i tedeschi-cittadini, i tedeschi-colleghi e anche gli stessi tedeschi-anomali potranno diventare i lettori del suo libro.
“Chi sono i tedeschi per Levi?” può sembrare una domanda provocatoria. Lo è, ma solo in parte. Intende chiamare in causa chi crede all’esistenza di un Levi atemporale, monolitico, sempre uguale a se stesso, e che dunque non potrebbe che dare un’unica e invariabile risposta: i tedeschi sono i carnefici. Viceversa, quella domanda assume un rilievo piú serio se declinata, di volta in volta, all’interno della cronologia di Levi autore, dei suoi incontri, della sua autopercezione come scrittore e come testimone. I tedeschi per Levi non smettono mai di essere i carnefici, ma possono, devono diventare anche altro: è questo il senso concreto dell’espressione «capire i tedeschi».
Levi è un grande scrittore di memorie. Come tutto il suo ultimo libro, il capitolo «Lettere di tedeschi» contiene documenti autentici e ricordi scrupolosamente vagliati. Nello stesso tempo, l’esperienza con i lettori tedeschi è descritta da Levi a distanza di trent’anni; il Levi-presente racconta il Levi-passato. È un dato di fatto, come tale neutro; ma occorre tenerne conto quando lo si usa per costruire una biografia intellettuale dell’autore o una qualsiasi ipotesi critica.
Nel 1986, i tedeschi sono per Levi – come, del resto, per chiunque ne avesse percepito la presenza durante l’ultima guerra – qualcosa di diverso da ciò che erano nel 1960. Sono ancora «gli oppressori», ma nel corso degli anni questa categoria è diventata piú complessa e multiforme; è stata discussa e perfino negata. Si è aggiunto a Riedt un numero considerevole di nuovi interlocutori, in Germania; Levi possiede ora un punto di vista piú ampio sull’universo concentrazionario; ha letto Döblin, Tucholsky, Toller, Fallada; si è cimentato seriamente con il tedesco e ha tradotto Kafka; ha provato a far tradurre Se questo è un uomo anche nella DDR13; in Germania Ovest ha stretto vere amicizie; ha ritrovato qualcuno che ad Auschwitz era dall’altra parte, e il suo libro è stato letto e commentato da un ex ministro e architetto del Reich, Albert Speer14; infine, ha pubblicato altri libri, ha avuto riconoscimenti internazionali, è diventato uno scrittore.
Capire i tedeschi fu per Levi un esercizio costante, un’attitudine morale e un pungolo per l’immaginazione. In questa Lezione cercherò di raccontare come andò sviluppandosi questa storia di incontri, letture, scambi epistolari, tentativi editoriali, elaborazioni letterarie. Che i tedeschi abbiano rappresentato un rovello per Primo Levi (uomo, scrittore, testimone, perfino chimico) è un dato di fatto. Come questa relazione difficile, ondivaga, a tratti entusiasta, a tratti frustrante, si sia modificata nel tempo, dentro e fuori la sua scrittura, è quanto proverò a indagare.