Una cosa che volevo dirti da un po'
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Una cosa che volevo dirti da un po'

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Una cosa che volevo dirti da un po'

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«Il problema, l'unico problema, resta mia madre. Ed è ovviamente lei quella che cerco di afferrare; è per raggiungere lei che è stato intrapreso l'intero viaggio. A quale scopo? Per delimitarla, descriverla, illuminarla, celebrarla, per liberarmene; e non ha funzionato, perché incombe da troppo vicino, come ha sempre fatto. Io potrei sforzarmi in eterno, con tutto il talento che ho, e con tutti i trucchi che conosco, e sarebbe sempre lo stesso». È questa la profetica conclusione cui giungeva la narratrice dell'ultimo racconto di questa raccolta di Alice Munro, la seconda, datata 1974. «Una cosa che volevo dirti da un po'»: la formula di un'intima, innocua confessione per un viaggio che da allora non cessa di tracciare percorsi inesauribili e sempre nuovi. «Alice Munro mette nero su bianco il dolore e il piacere della vita nel canto di una prosa asciutta, senza mai sperperare una parola».
«The Daily Telegraph» Le tredici storie che compongono la seconda raccolta di Alice Munro, pubblicata nel 1974 e ora per la prima volta in Italia, sono accomunate in larga misura da uno sguardo retrospettivo sulle cose e da riflessioni postume su un passato che tramanda i suoi misteri senza risolvere rancori, gelosie e amori complicati e cattivi. Gli anni non possono spegnere gli incendi della giovinezza, i quali continuano imperterriti a consumare l'ossigeno delle relazioni. Quella tra le due sorelle Et e Char, per esempio, avvinghiate l'una all'altra dal risentimento non meno che dall'affetto, dall'invidia dell'una per la luminosa e invincibile bellezza dell'altra, dal ricordo di piombo di un fratellino annegato, e dalla loro futile rivalità sentimentale. O la danza macabra fitta di tradimenti e amarezze fra la narratrice del racconto Dimmi se sí o no e il suo amante, al quale la donna si rivolge, ora che il caso l'ha messa in contatto con una lancinante verità su di lui. E nel solco delle relazioni difficili, in bilico tra generosi silenzi e slanci superflui, si colloca pure il racconto Cerimonia di commiato, nel quale la morte di un figlio adolescente riporta dopo anni sotto lo stesso tetto due sorelle, madre e zia del ragazzo, senza tuttavia riuscire a produrre un autentico riavvicinamento. Su tutte queste relazioni dilaga naturalmente l'acqua torbida e scura del rapporto tra madre e figlia del racconto finale, L'Ottawa Valley, costruito come una sorta di album di famiglia per viaggi paralleli nel passato. «Il problema, l'unico problema », - confessa la narratrice, - resta mia madre. Ed è ovviamente lei quella che cerco di afferrare; è per raggiungere lei che è stato intrapreso l'intero viaggio ». E prosegue poi: «I suoi contorni fluttuano e sfumano. Il che vuol dire che mi sta ancora incollata addosso come una volta, che si rifiuta di staccarsi e che io potrei sforzarmi in eterno, con tutto il talento che ho, e con tutti i trucchi che conosco, e sarebbe sempre lo stesso». Una cosa che Alice Munro dice, meravigliosamente, da un po'.
Susanna Basso

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858424513

Camminare sull’acqua

In quella parte del paese abitavano ancora parecchi anziani, anche se molti si erano trasferiti nei condomini di là dal parco. Mr Lougheed aveva un certo numero di amici, o forse sarebbe meglio dire di conoscenti, che gli capitava di incontrare quasi ogni giorno alla fermata dell’autobus o sul lungomare, diretti in centro. Ogni tanto ci faceva una mano a carte nei loro alloggi o monolocali. Era socio di una bocciofila per il gioco su prato e, in inverno, di un cineforum che proiettava documentari di viaggio in una sala comunale. Si era iscritto ai due club non per autentico desiderio di socialità ma per contrastare quella naturale tendenza che a suo giudizio avrebbe potuto fare di lui un eremita. Durante gli anni di lavoro all’emporio aveva imparato a uscire indenne da qualsiasi discorso con qualsiasi tipo di persona, a dribblare affabilmente senza mai smettere di pensare ai casi suoi. Applicava lo stesso sistema con la moglie. Il suo obiettivo era dare a tutti quel che volevano e proseguire, frattanto, solo e indisturbato. Se si esclude la moglie, ben pochi avevano mai sospettato l’espediente. Ora però, non dovendo piú niente a nessuno, in termini di quotidiana routine, cercava di costringersi a interagire di quando in quando, convinto com’era che gli potesse giovare. Se fosse dipeso esclusivamente da lui, con chi avrebbe parlato? Con Eugene, punto. E avrebbe finito per importunarlo.
La prima volta che Mr Lougheed aveva sentito della boutade di Eugene, era sul lungomare.
– Dice che sa camminare sull’acqua.
Mr Lougheed era certo che Eugene non avesse tirato fuori niente di simile.
– È solo questione di pensare il peso sganciato dal corpo, a sentire lui. Se ci si impegna, non c’è niente che non si possa controllare, dice.
Erano Mr Clifford e Mr Morey, seduti a riprendere fiato sulla panchina panoramica.
– La mente che vince sulla materia.
Invitarono Mr Lougheed a sedersi con loro ma lui rimase in piedi. Era alto e sottile e se non teneva un passo troppo sostenuto non si ritrovava a corto di fiato.
– A Eugene piace parlare di queste cose, ma lo fa tanto per dire, – precisò lui. Non gli andava a genio il tono con cui parlavano di Eugene, pur riconoscendo che in parte era giustificato. – È una persona molto intelligente. E non è matto.
– Beh, bisognerà che aspettiamo di vederlo all’opera, per decidere.
– Se non è matto lui, lo sono io. A meno che non sia Gesú Cristo.
– In che senso, vederlo all’opera? – chiese cauto Mr Lougheed, con un presentimento.
– Intende dare dimostrazione, dal molo di Ross Point.
Mr Lougheed disse che di sicuro Eugene voleva scherzare. Mr Clifford e Mr Morey gli garantirono che non scherzava affatto, faceva sul serio, invece. (Mentre lo dicevano, Mr Clifford e Mr Morey ridacchiavano un po’, scuotendo la testa divertiti, mentre Mr Lougheed era serio e compassato, sostenendo che si trattava di uno scherzo). L’evento era stato fissato per la domenica mattina. Adesso era venerdí. Quanto all’ora si era optato per le dieci precise, per dare modo a tutti di andare in chiesa dopo la camminata o la non-camminata. Ma, come aveva sospettato Mr Lougheed, né Mr Clifford né Mr Morey erano presenti alla dichiarazione di quegli accordi; ne avevano soltanto sentito dire da altri. Mr Morey, mentre giocava a carte con amici, e Mr Clifford, nella sala di lettura anglo-israelita.
– Se ne parla con entusiasmo dappertutto.
– Beh, tanto vale calmare gli entusiasmi, allora, perché Eugene non è fuori di testa, o comunque non fino a questo punto, – tagliò corto Mr Lougheed, prima di proseguire il tragitto. E si diresse a casa scegliendo un percorso piú breve del solito.
Bussò alla porta di Eugene dirimpetto alla sua. Con tono di voce sereno ma ammonitore Eugene disse: – Avanti.
Mr Lougheed aprí e fu investito da una fresca folata di brezza d’oceano che entrava nella stanza dalla finestra spalancata.
Eugene sedeva sul nudo pavimento davanti alla finestra, con le gambe flesse e incrociate in quel modo bislacco che, a suo dire, gli era ormai del tutto naturale. Aveva addosso un paio di jeans, nient’altro. Mr Lougheed contemplò la snella delicatezza del torso del giovane. Che lavoro avrebbe potuto fare, quanti chili sarebbe riuscito a sollevare? In compenso, era capace di quei contorsionismi, quegli avvitamenti e allungamenti che gli permettevano posizioni a vedersi scomodissime, ma che lui definiva al contrario molto confortevoli, naturalmente. Ne andava piuttosto fiero.
– Si accomodi, – disse Eugene. – Esco subito.
Intendeva dalla meditazione, vale a dire dalla parte conclusiva dei suoi esercizi. Talvolta si sedeva a meditare senza preoccuparsi di chiudere la porta. Mr Lougheed distoglieva subito lo sguardo, se gli capitava di passare di lí. Non ci teneva a vedere l’espressione sul volto di Eugene. Rapita, cosí doveva essere, giusto? La cosa lo rendeva sgomento e imbarazzato fin nei profondi recessi del suo io, come se avesse sorpreso qualcuno a far l’amore.
E anche quello era successo.
Al piano di sotto della casa abitavano tre giovani. Rispettivamente Calla, Rex e Rover. A quanto pare Rover era il soprannome scherzoso affibbiato al ragazzo secco e malaticcio con il corpo di un dodicenne e, certi giorni, la faccia di un cinquantenne. Mr Lougheed l’aveva visto dormire sulla moquette dell’ingresso, come un cane. Del resto anche Rex e Calla erano nomi insoliti, piú appropriati a un animale e a un fiore; saranno stati proprio quelli con cui li chiamavano i loro genitori? A Mr Lougheed sembrava curiosamente che i ragazzi fossero approdati lí senza padre né madre, senza un passato di seggioloni e tricicli e passeggini; parevano come spuntati dal nulla, fatti e finiti com’erano. Di sicuro cosí si percepivano gli interessati.
Un giorno gli era successo di tornare a casa e di trovare la porta del pianoterra aperta. Come se qualcuno fosse appena scappato fuori. In fondo all’ingresso, ma ben visibili, non nel sottoscala, c’erano due figure avvinghiate l’una all’altra. Rex e Calla. Lei indossava come sempre una gonna lunga: sembrava accucciata a quattro zampe e si dimenava gemendo come se la costringessero. La gonna, rovesciata sulla testa, in parte la intrappolava e in parte attutiva il suono della sua voce. Mr Lougheed non vide altro se non uno spicchio di carne spugnosa, il posteriore di lei, subito coperto dal ragazzo che la montava. La consapevolezza della presenza di Mr Lougheed fu presumibilmente ciò che gli fece sfuggire un guaito – al tempo stesso di piacere e di stupore – e lo spinse a gettarsi di peso addosso a lei cosí che crollarono a terra entrambi, con ogni probabilità interrompendo il collegamento essenziale; le loro voci al contrario si unirono in una risata che a Mr Lougheed parve non solo priva di vergogna ma proprio irriverente. Si sarebbe detto che fosse lui il personaggio di cui ridere, per averli visti fare sesso ed esserne stato scioccato.
Gli sarebbe piaciuto informarli che non l’avevano affatto scioccato invece. Da studente della Stone School sulla Fifth Line della municipalità di Killop, aveva fatto parte del pubblico pagante per lo spettacolo offerto da uno dei fratelli Brewer con sua sorella minore. L’evento aveva avuto luogo nell’antibagno dei servizi maschili, un postaccio. Niente simulazioni. Nessuno doveva pensare che fosse solo una messinscena.
Ma se non di shock si trattava, allora cos’era? Il cuore gli batteva forte, si sentiva la testa serrata in una morsa di malinconia. Una volta in camera, dovette sedersi. La risata di quei due avrebbe echeggiato dentro di lui per un pezzo. Immaginò i loro sessi lanuti muoversi insieme, nelle rispettive feroci tumescenze, tra sciaguattii rumorosi che si concludevano in quella risata. Come animali. No, anzi, ritirava il pensiero. Gli animali lo facevano senza bisogno di attirare l’attenzione, con serietà. Quello che lui disapprovava, aveva detto a Eugene, quello che disapprovava nella generazione attuale, ammesso che questo fosse il punto, era che non si potesse fare niente senza esibizionismi. Perché si doveva sempre berciare su ogni cosa, si chiedeva. Non si era piú capaci di piantare una carota senza congratularsi dell’impresa.
Ad esempio. Sulla strada che portava in centro avevano aperto un negozietto dove aveva preso l’abitudine di fermarsi perché gli piacevano quelle ceste in fila sul marciapiede piene di ortaggi bitorzoluti ancora un po’ sporchi di terra. Gli ricordavano le verdure nelle botteghe di quando era bambino, o nella cantina di casa sua. Solo che i ragazzi del negozio, coi loro capelli lunghi e incolti, le fasce indiane e i costumi di scena fatti di tute a righe e canottiere bucate (cos’altro erano se non costumi di scena? Nessun contadino in grado di intendere e di volere, per quanto povero in canna, si sarebbe mai presentato in paese con quella tenuta addosso), e i loro devoti melodiosi discorsi su giardinaggio e regime alimentare, lo avevano irritato al punto che aveva smesso di entrare. Si incensavano troppo. Non era la prima volta che qualcuno infornava del pane o coltivava rape. Era tutto cosí finto, in un certo senso piú finto che al supermercato.
– Secondo me piú che finti sono noiosi, – commentò saggio Eugene. – Tipo i protocristiani. Dovevano essere noiosissimi.
– Tanto non durano. Non se la caveranno a lavorare la terra.
– Può darsi. Ma qualcuno c’è che si organizza la vita intorno a una filosofia, e se la cava benissimo. Gli hutteriti. I mennoniti.
– Hanno una mentalità diversa, – disse Mr Lougheed. Aveva consapevolezza dell’impressione che doveva fare, quella del testardo brontolone, del vecchio.
Ora che Eugene era uscito del tutto dalla sua meditazione, si alzò, si sgranchí le gambe e chiese a Mr Lougheed se gradiva una tazza di tè. Sí, disse Mr Lougheed. Eugene accese il bollitore elettrico e prese a muoversi nella stanza sistemando ogni cosa. Teneva la stanza molto ordinata. Dormiva su un materasso per terra, ma ci metteva le lenzuola che erano sempre pulite; le portava alla lavanderia a gettoni. I suoi libri stavano su scaffali improvvisati di assi e mattoni, oppure impilati sul pavimento o sui davanzali. Ne aveva centinaia, di libri, quasi tutti tascabili; erano l’arredo essenziale dell’alloggio. Mr Lougheed sbirciava spesso i titoli, con un senso di inadeguatezza e di soggezione. Da Heidegger a Kant. Chi fosse Kant lo sapeva, ovviamente, anche se non aveva mai letto nessuna opera, ma solo qualcosa sul suo conto, sul manuale La storia della filosofia. E forse un tempo aveva anche saputo chi fosse Heidegger, ma ora non piú. Al college non era andato. Ai suoi tempi non era necessario frequentare l’università per diventare farmacista; bastava fare apprendistato, come era successo a lui, con suo zio. Piú tardi comunque per un certo periodo si era dato seriamente alla lettura. Non a questi livelli, però. Ne sapeva quanto basta per riconoscere i nomi, tutto qui. Meister Eckhart. Simone Weil. Teilhard de Chardin. Loren Eiseley. Nomi rispettati. Nomi insigni. Il punto era che Eugene non si era limitato a raccogliere tutti quei libri, ripromettendosi di leggerli un giorno o l’altro. No. Lui li aveva proprio letti. Eugene aveva letto si può dire tutto il leggibile delle discipline di maggior rilievo, e piú impervie. Filosofia. Religione. Misticismo. Psicologia. Scienze. Eugene aveva ventotto anni e non era esagerato affermare che avesse trascorso gli ultimi venti a leggere. Aveva titoli di studio. Aveva vinto premi e sovvenzioni. Tutte cose che disdegnava o perlomeno liquidava con una specie di imbarazzo. Aveva insegnato per brevi periodi; nessun altro lavoro fisso, a quanto sembrava. A un certo momento c’era stato un crollo, una crisi prolungata dalla quale non è escluso che si ritenesse tuttora convalescente. Sí, aveva l’aria di qualcuno che si misuri e protegga il proprio stato di convalescenza. Appariva cauto, nonostante l’elasticità dei movimenti, e la leggerezza d’animo. Portava i capelli come un paggio medievale. Occhi e capelli brillavano di una luce calda, sensuale, castano ramata. Aveva un paio di baffetti che non contribuivano a fargli dimostrare la sua età.
– Ho sentito la storia della camminata sulle acque, – disse Mr Lougheed sforzandosi di assumere un tono scherzoso.
– Miele? – disse Eugene, facendone scivolare una grossa cucchiaiata nella tazza di Mr Lougheed.
Mr Lougheed, che amava il tè non dolcificato, afferrò distrattamente un cucchiaino.
– Non ci ho dato credito.
– Oh, sí, – disse Eugene.
– Ho detto che non saresti stato matto fino a quel punto.
– Si sbagliava, invece.
Sorridevano entrambi. Quello di Mr Lougheed era un sorriso appena accennato e pieno di speranza, strategico. Quello di Eugene era franco, cordiale. Ma di quale franchezza, poi? Niente a che fare con la spontaneità, era costruito. Eugene, il giovane che sapeva tutto di storia militare e misticismo e astronomia e biologia, che poteva conversare di arte indiana (che si parlasse di questi indiani o di quegli altri) come dei vari sistemi di avvelenamento, che si sarebbe potuto fare una fortuna ai tempi dei quiz televisivi, come una volta gli aveva fatto notare Mr Lougheed (era scoppiato a ridere, Eugene, dicendo che, beh, grazieadio e per il bene dell’anima sua, quei giorni appartenevano al passato). Eugene, per il quale ogni gesto qualunque, ogni scambio quotidiano era una conquista ottenuta a dispetto di qualcosa di innominato. Il suo crollo nervoso, forse? Il suo eccesso di sapere? La sua intelligenza?
– Beh, magari sono io che ho capito male, – disse Mr Lougheed. – Ma mi è parso che il proposito fosse quello di camminare sull’acqua.
– È cosí.
– E lo scopo quale sarebbe?
– Lo scopo è camminare sull’acqua. Se è possibile. Secondo lei è possibile?
Mr Lougheed non trovò una risposta.
– Cos’è, uno scherzo?
– Potrebbe, – disse Eugene, per poi aggiungere allegramente: –...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una cosa che volevo dirti da un po’
  4. Materiali
  5. Come ho conosciuto mio marito
  6. Camminare sull’acqua
  7. Perdono in famiglia
  8. Dimmi se sí o no
  9. La barca trovata
  10. Giustizieri
  11. Marrakesh
  12. La dama spagnola
  13. Vento d’inverno
  14. Cerimonia di commiato
  15. L’Ottawa Valley
  16. Il libro
  17. L’autrice
  18. Della stessa autrice
  19. Copyright