L'assedio
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L'assedio

Troppi nemici per Giovanni Falcone

  1. 400 pagine
  2. Italian
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L'assedio

Troppi nemici per Giovanni Falcone

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Tragico e coinvolgente, L'assedio ci riporta a uno dei periodi piú bui della nostra Repubblica, eppure, nonostante tutto, non è la cronaca di una sconfitta: racconta la straordinaria avventura dell'uomo che, con la sua azione, ha segnato il declino di Cosa nostra. A venticinque anni dall'attentato di Capaci, Giovanni Bianconi ricostruisce, attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti, l'ultimo periodo della vita di Giovanni Falcone. Un'indagine nella Storia, che rivela la condizione di accerchiamento in cui si è trovato il giudice palermitano, stretto tra mafiosi, avversari interni al mondo della magistratura e una classe politica nel migliore dei casi irresponsabile. E individua coloro che, nascosti dietro il paravento del «rispetto delle regole», lo contrastarono, tentarono di delegittimarlo e lo isolarono fino a trasformarlo nel bersaglio perfetto per i corleonesi di Totò Riina. «Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio - prolungato nel tempo, proveniente da piú parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme - diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone - certamente il piú capace magistrato italiano - fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all'interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il piú meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il piú bravo e il piú preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l'associazione criminale».
Dalla sentenza della seconda sezione Penale della Corte di Cassazione. Roma, 6 maggio 2004.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858425602
1.

Il difficile viene adesso

Il nome ufficiale era Stay behind, che letteralmente significa «stare dietro»; sottinteso: le linee dell’ipotetico invasore dall’Est comunista, da scompaginare attraverso la rete clandestina di patrioti addestrati a sabotare e resistere. Un’operazione imbastita dall’Alleanza atlantica a metà degli anni Cinquanta, ma in Italia nessuno ne ha saputo niente – tranne pochi governanti e ufficiali del servizio segreto militare – finché il presidente del Consiglio Giulio Andreotti l’ha resa pubblica, a ottobre del 1990. Chiamandola col nome «Gladio», dal simbolo della piccola spada a doppia lama contornata dal motto Silendo libertatem servo, «in silenzio servo la libertà».
Da quel momento cominciarono a inseguirsi interrogativi e polemiche, come sempre quando s’intrecciano politica e trame occulte, nel Paese a «sovranità limitata» imposta dagli americani. Stavolta c’erano di mezzo anche la Cia e i depositi nascosti di armi ed esplosivi, quanto bastava per alimentare dubbi su possibili collegamenti con le bombe che hanno condizionato la vita pubblica dal dopoguerra in avanti.
Dopo un anno e tre mesi di indagini, sospetti e scambi d’accuse, ecco le prime conclusioni. Giudiziarie e politiche. Ovviamente discordanti e contrapposte, come si addice ai misteri italiani.
Giovedí 30 gennaio 1992, i quotidiani riferiscono dello scontro fra i partiti sulla relazione preparata dal presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e «sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi», il repubblicano Libero Gualtieri.
Nella sua lettura, ci sono pochi dubbi: «Non vi è alcuna giustificazione per Gladio, né all’inizio, né alla fine. Vi è invece un accrescimento della sua pericolosità e della sua illegittimità con il passare degli anni. Non tutto ciò che è accaduto negli anni torbidi della nostra storia recente va attribuito a Gladio. Ma Gladio è stata una componente di quella strategia che, immettendo nel sistema elementi di tensione, ha giustificato la necessità di opportuni interventi stabilizzatori».
E ancora: «Il tentativo, abbastanza scoperto, di racchiudere Gladio solo nella sua fase iniziale per poter giustificare quella struttura occulta come un fatto di patriottismo e di eroismo, non può essere consentito. E cosí pure gli arruolamenti postumi e i riconoscimenti elargiti con abbondanza».
L’ultimo rifermento è al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, rappresentante dell’ala piú filoatlantica della Democrazia cristiana nonché strenuo difensore dell’organizzazione paramilitare, tanto da essere incappato nel tentativo di messa in stato d’accusa da parte del Partito democratico della sinistra. Il capo dello Stato non replica alla relazione di Gualtieri, ma per lui parlano altri esponenti della maggioranza: cosí com’è, quella relazione non può essere approvata. Non a caso un altro organismo parlamentare, il Comitato di controllo sui servizi segreti guidato dal democristiano Tarcisio Gitti, ha pronte ben altre conclusioni: Stay behind era non solo legittima ma persino «opportuna», a prescindere da eventuali deviazioni.
I magistrati della Procura di Roma sono arrivati piú o meno allo stesso risultato, negando che ci fosse alcuna cospirazione politica dietro la rete dei patrioti. Il governo ha deciso con un apposito decreto di posticipare di due anni la pensione del procuratore Ugo Giudiceandrea, e il sospetto è che l’abbia fatto per evitare sorprese nella gestione del fascicolo.
Tuttavia il giudice istruttore di Venezia Felice Casson, che ha scoperto la rete occulta all’interno del servizio segreto indagando sulla strage di Peteano del 1972 (tre carabinieri morti e due feriti, con due alti ufficiali condannati per depistaggio), e suo malgrado è stato costretto a cedere l’inchiesta ai colleghi romani, continua a pensarla diversamente: Gladio dipendeva dalla Cia, non dalla Nato, e molti documenti dimostrano che «fu impegnata non solo per scopi difensivi ma anche in chiave di opposizione anticomunista». Dunque illegali.
Anche il giudice Giovanni Falcone, ora in servizio al ministero della Giustizia come direttore generale dell’ufficio Affari penali, era interessato a Gladio. Quando da magistrato inquirente a Palermo conduceva ancora le indagini antimafia aveva intenzione di approfondire il ruolo della struttura clandestina presente pure in Sicilia, per verificare se potesse celare una delle zone grigie dove gli interessi degli «uomini d’ordine» si mescolano con quelli degli «uomini d’onore». Come in alcuni circoli massonici, o in qualche ordine cavalleresco. Nell’ultimo periodo aveva chiesto al procuratore di potersene occupare, ma non gli fu concesso. Un motivo in piú per andarsene.
Oggi però, Falcone è concentrato su altro.
Per il pomeriggio sono annunciate le dimissioni di Andreotti da capo del governo, una mossa che anticipa la fine della legislatura in vista delle elezioni che si terranno in primavera, accompagnata da nuove tensioni connesse a un altro mistero italiano, che periodicamente torna d’attualità: il caso Moro. L’ultimo sospetto è che dal ministero dell’Interno, un feudo nel quale sono entrati sempre e solo esponenti democristiani, siano scomparsi alcuni documenti relativi ai cinquantacinque giorni del sequestro dello statista poi assassinato dalle Brigate rosse. Nuove ombre, destinate a non diradarsi mai.
Il responsabile del Viminale, Vincenzo Scotti, assicura che non è vero, e il segretario della Dc Arnaldo Forlani commenta: «Quando si avvicinano le campagne elettorali accadono tante cose strane». Il giorno dopo Bettino Craxi, segretario del Partito socialista, prova a rassicurare: «Ritengo che gli argomenti di cui ci occuperemo saranno altri. Almeno spero che sia cosí». Andrà cosí, ma i temi di cui si occuperanno lui e gli altri partiti di governo nel dibattito pre-elettorale non saranno piú tranquillizzanti. Anzi.
Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che del Psi è vicesegretario, invita a non alimentare dietrologie e conferma che sul caso Moro «non c’è giallo: le carte sono dove dovevano essere, e cioè presso l’autorità giudiziaria; piú precisamente la Procura della Repubblica di Roma». Sempre lí si va a finire.
Da quando è andato via da Palermo Falcone lavora proprio con Martelli, che l’ha consultato anche per dirimere questa vicenda. Quel giorno, però, il giudice pensa ad altro.
Sui giornali del 30 gennaio i titoli piú vistosi annunciano che i presidenti degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica, George Bush e Boris El ’cin, hanno concordato un disarmo bilaterale che dovrebbe portare al taglio di circa 2 500 testate nucleari su ciascuno dei due fronti.
In Algeria c’è grande preoccupazione per gli attacchi militari sferrati dalle fazioni integraliste islamiche; in Somalia la guerra civile fra le diverse tribú ha già provocato decine di migliaia di morti e folle di profughi ancora piú numerose.
In Italia i partiti affilano le armi per la battaglia delle urne, ciascuno con i propri problemi interni. Andreotti lascia palazzo Chigi con l’idea di trasferirsi al Quirinale, dove Cossiga sta per chiudere il suo settennato. Ma non è l’unico pretendente. Il nodo principale riguarda le correnti democristiane, sebbene non tutto fili liscio nemmeno negli altri schieramenti. Giorgio Napolitano, primo esponente dei cosiddetti «miglioristi» del Pds, denuncia una «campagna strisciante» per delegittimare l’ala riformista del partito, quella piú dialogante con i socialisti, quasi ad auspicarne la fuoriuscita; ma una forza politica, ammonisce, non può essere guidata «gettando il sospetto sull’una o sull’altra delle sue componenti».
I partiti sono pure alle prese con le mai sopite polemiche intorno alla Rai, soprattutto per via delle trasmissioni condotte da Michele Santoro, Samarcanda, e da Enzo Biagi, Una storia; con l’avvicinarsi delle elezioni, si teme che possano debordare dal «rispetto dei principi di imparzialità, pluralismo e possibilità di contraddittorio». La commissione parlamentare di vigilanza e il direttore generale della tv di Stato sono in allarme.
L’imprenditore delle televisioni private Silvio Berlusconi ha presentato un piano per il salvataggio della catena francese La Cinq, ma in patria la sua Fininvest deve fare i conti con le norme antitrust dopo l’acquisizione della casa editrice Mondadori. «Nessuna regola è stata violata o elusa», garantisce il vicepresidente Gianni Letta.
Preoccupa l’aumento degli immigrati, clandestini e non. A Cisterna di Latina c’è stata una rissa tra italiani e bengalesi, con il capo dei picchiatori locali che rivendica l’assalto contro gli stranieri, giudicati troppo invadenti: «Da ieri mi sento razzista», dice quasi orgoglioso. A Trieste la polizia di frontiera ha bloccato un tir dov’erano stipati, nascosti dietro pacchi di merce da esportare, ventuno profughi albanesi, prontamente rispediti in patria.
A Bologna una coppia di omosessuali ha chiesto al Comune l’assegnazione di un’abitazione popolare, sostenendo di averne il diritto, e l’amministrazione «rossa» prende tempo per la decisione; a Roma invece, l’assessore socialista alla Casa assicura che «in caso di bisogno» non farebbe discriminazione sugli orientamenti sessuali dei richiedenti.
Il campionato di calcio prosegue senza scossoni, con il Milan primo in classifica anche dopo la vittoria dell’Inter sulla Cremonese nella partita giocata a metà settimana per recuperare la gara sospesa il 5 gennaio a causa della nebbia; è il primo successo del neoallenatore Luisito Suárez sulla panchina nerazzurra.
L’attrice e cantante Liza Minnelli, 48 anni non ancora compiuti, ha ottenuto il suo terzo divorzio.
Un mensile economico-finanziario ha reso noti i risultati di una ricerca sul «prodotto dell’anno», per indicare gli oggetti piú amati dagli italiani. Primo in classifica, senza rivali, è il telefono cellulare. Seguono, nell’ordine: il marsupio, versione avanzata dell’antico borsello; il lettore di compact disc; la mountain bike; la marmitta catalitica; il personal computer; la fidelity card, utilizzata per premiare i clienti di supermercati e grandi magazzini; le lenti a contatto monouso; le bevande ricche di sali minerali, che funzionano da integratori alimentari.
Anche il giudice Falcone è attirato da alcune di queste novità, soprattutto quelle nel campo dell’innovazione tecnologica: dal telefonino alle agende elettroniche che cambia e aggiorna in continuazione. Quel giorno, però, ha altro per la testa.
Pensieri che ne richiamano l’attenzione su un articolo pubblicato a pagina 7 del «Corriere della Sera» di quel giovedí. È un reportage da Palermo firmato da Corrado Stajano, intitolato: Ecco le cifre della paura – L’unica città al mondo dove sono stati assassinati tutti gli uomini dello Stato. Il giornalista racconta di come, nella capitale della mafia, si stiano riassestando «equilibri diventati precari». Quattro o cinque persone sono sparite dalla circolazione, «di solito è il segnale che la pax mafiosa sta finendo». Forse sono ricominciati gli omicidi, col vecchio metodo della «lupara bianca», nella città dove pochi mesi prima, a fine agosto, è stato ucciso Libero Grassi, l’imprenditore che aveva sfidato i boss rifiutandosi di pagare il pizzo. «Mi auguro che i miei figli decidano di andarsene, di emigrare», dice la vedova di Grassi a Stajano. Il quale conclude il suo articolo ricordando il brano del Gattopardo in cui i siciliani si sentono calunniati e rivendicano la «normalità civilizzata» della propria terra rispetto alle «stramberie» altrui. Pretesa mal riposta, nota il giornalista, perché «purtroppo non esiste città al mondo dove in pochi anni sono stati ammazzati tutti, proprio tutti, gli uomini dello Stato. I migliori, quelli che avevano in animo di fare: il presidente della Regione, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il consigliere istruttore, il capo della Squadra mobile, giudici, medici legali. Il capo dell’opposizione, colonnelli, generali».
Giovanni Falcone legge e ricorda. Su quei «delitti eccellenti» ha indagato a lungo, a volte venendone a capo e a volte no. Costruendo pezzo dopo pezzo, insieme ai colleghi dell’ufficio Istruzione, il maxiprocesso a Cosa nostra; scaturito, fra l’altro, dalle intuizioni e dall’impegno di alcune vittime della mattanza: da Rocco Chinnici a Ninni Cassarà.
Proprio oggi, 30 gennaio 1992, quella missione potrebbe arrivare a compimento, perché dopo una settimana di camera di consiglio, i giudici della Corte suprema di Cassazione dovrebbero uscire per emettere la sentenza. Il sigillo definitivo sul «maxi», sull’esistenza della mafia come struttura unitaria, sul «teorema Buscetta» che ha svelato l’organizzazione interna e le regole della mafia. Oppure la sua sconfessione. Dentro o fuori, sí o no. Il lavoro di un decennio, costato fatica e sangue, è arrivato all’ultimo traguardo. Vittoria o sconfitta.
Ecco su che cosa è concentrato, oggi, il giudice Falcone.
Alle 15.30, nell’aula di Montecitorio, Giulio Andreotti scandisce il discorso di fine mandato per il suo esecutivo e per la legislatura. C’è un’atmosfera solenne perché la circostanza lo richiede, ma è come se si seguisse un copione ormai logoro, un rituale obbligato ma non sincero. Nessuno immagina che con questo commiato lungo sessantadue pagine dattiloscritte e un’ora e mezza di lettura, il presidente del Consiglio stia celebrando non solo la fine di un governo ma di una stagione politica durata piú di 45 anni: la cosiddetta Prima Repubblica.
Andreotti parla senza apparenti emozioni, senza eccessive preoccupazioni, auspicando che «la dialettica tra le forze politiche non sia turbata da alcuna interferenza, e che i mezzi di informazione rispecchino correttamente posizioni e opinioni». È un invito a non esagerare con le polemiche e con gli scandali, veri e presunti, da Gladio a Moro; che sono niente rispetto a ciò che accadrà di lí a poche settimane. Ma nel clima ovattato dei palazzi del potere, non si avverte la tempesta in arrivo. Immaginando di esserne ancora protagonista, il capo del governo ricorda «la necessaria ricerca delle convergenze possibili sulle riforme istituzionali». E spiega che dopo le elezioni e l’inevitabile fase di rodaggio, si dovrà «dare avvio, senza indugio e con vigore, ad anni costruttivi di riforme e di irrobustimento strutturale». A cominciare da una modifica del sistema elettorale che sappia coniugare «la salvaguardia del pluralismo con l’esigenza di efficacia e concretezza dell’azione di governo».
Succederà tutt’altro, ma nessuno sembra prevederlo, né preoccuparsene.
Il discorso di Andreotti viene trasmesso in diretta su RaiUno, la televisione è accesa anche nell’ufficio di Falcone, al quarto piano del palazzo di via Arenula dove ha sede il ministero di Grazia e Giustizia. Il giudice guarda e ascolta, ma aspetta altre notizie. Che non arrivano. In Cassazione ancora tutto tace. I presagi non sono negativi, ma un po’ per scaramanzia e un po’ per esperienza, nulla si può dare per scontato fino alla pronuncia del verdetto.
Per Falcone stanno per concludersi dieci anni di lavoro e di vita, a partire dal 1982, confluiti prima in u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’assedio
  4. 1. Il difficile viene adesso
  5. 2. Sei mafiosi a Fontana di Trevi
  6. 3. Un giudice «protagonista»
  7. 4. «Il momento giusto»
  8. 5. Il mare in tempesta
  9. 6. «Qualche vizio si troverà»
  10. 7. Ostilità e pregiudizio
  11. 8. «Siamo arrivati al capolinea»
  12. 9. Un ufficio su misura
  13. 10. «Abbiamo trovato cose piú grosse giú»
  14. 11. L’indipendenza offuscata?
  15. 12. Un «ramo secco»
  16. 13. Allarmi, conflitti, offese
  17. 14. «Ci facciamo saltare l’autostrada»
  18. 15. Partita ancora aperta
  19. 16. «Non passare da lí»
  20. 17. L’ultimo viaggio
  21. 18. È andata cosí
  22. Note
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Dello stesso autore
  26. Copyright