Il mondo senza di noi
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Il mondo senza di noi

  1. 384 pagine
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Il mondo senza di noi

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Cancellateci, e osservate ciò che rimane. Come reagirebbe il resto della natura se all'improvviso si trovasse sollevata dall'incessante pressione che esercitiamo su di essa e sugli altri organismi? Quanto ci metterebbe la natura a recuperare il tempo perduto? A disfare le nostre monumentali città, i composti plastici, i rifiuti tossici? Riuscirebbe a cancellare le nostre tracce? E noi, con la nostra arte e le nostre creazioni, lasceremmo una traccia di qualche tipo, nel mondo senza di noi? Viaggiando attraverso le parti del mondo già «de-umanizzate», e avvalendosi della consulenza di esperti e di una scrittura sobria e coinvolgente, Weisman disegna il pianeta come sarebbe se un'epidemia o una catastrofe eliminassero per sempre gli esseri umani. E scrive un saggio che indaga il nostro impatto sulla Terra a ogni pagina, che i lettori e i critici hanno da subito avvertito come un punto di svolta.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426418
Categoria
Sociologia

Parte seconda

Capitolo settimo

Ciò che va in rovina

Nell’estate del 1976 Allan Cavinder ricevette una chiamata che non si aspettava. Il Constantia Hotel a Varosha stava riaprendo sotto nuovo nome dopo quasi due anni di chiusura. C’era bisogno di un elettricista: lui era disponibile?
Fu una vera sorpresa. L’accesso a Varosha, una località turistica sulla costa orientale dell’isola di Cipro, era vietato da quando due anni prima la guerra aveva spezzato in due il Paese. I combattimenti erano durati solo un mese, prima che le Nazioni Unite intervenissero promuovendo un raffazzonato accordo di pace fra ciprioti greci e turchi. Fu tracciata una striscia di terra di nessuno, chiamata Linea verde, in base alla posizione in cui si trovavano le truppe al momento esatto del cessate il fuoco. Nella capitale, Nicosia, la Linea verde ondeggiava come un ubriaco fra strade e case crivellate dai proiettili. Nelle viuzze dove si era combattuto scagliandosi baionette da un balcone all’altro, era larga poco piú di tre metri. In mezzo alla campagna era larga anche otto o nove chilometri. Adesso i turchi vivevano a nord e i greci a sud di una striscia pattugliata dall’Onu e infestata dalle erbacce, rifugio di lepri e pernici.
Quando nel 1974 era scoppiata la guerra, Varosha non aveva piú di due anni. Situata lungo una mezzaluna di sabbia a sud del porto dalle acque profonde di Famagosta – una città cinta da mura risalente al 2000 a.C. – nelle intenzioni dei greci ciprioti Varosha doveva diventare la Riviera di Cipro. Entro il 1972, alti alberghi si susseguivano ininterrotti per quasi cinque chilometri lungo la dorata spiaggia di Varosha, con alle spalle negozi, ristoranti, cinema, bungalow per le vacanze e alloggi per il personale. La località era stata scelta per le acque calde e tranquille della costa orientale dell’isola, riparata dal vento. L’unica pecca era stata la decisione di costruire il piú possibile vicino al mare quasi tutti i grossi edifici lungo la spiaggia. Troppo tardi si erano resi conto che quando il sole a mezzogiorno era allo zenit, quello schieramento di palazzoni faceva ombra alla spiaggia.
Comunque il dispiacere non durò a lungo. Nell’estate del 1974 scoppiò la guerra, e quando un mese dopo si concluse, il grandioso investimento dei ciprioti greci di Varosha era rimasto sul lato turco della Linea verde. Loro, e tutti i residenti di Varosha, erano scappati a sud, nella parte greca dell’isola.
All’incirca delle dimensioni del Connecticut, la montagnosa Cipro sembra galleggiare su un placido mare azzurro, circondata da svariate nazioni i cui popoli geneticamente intrecciati si detestano l’un l’altro. I greci arrivarono a Cipro circa quattromila anni fa, e da allora vissero sotto una sequela di conquistatori: assiri, fenici, persiani, romani, arabi, bizantini, crociati inglesi, francesi e veneziani. L’anno 1570 portò un ennesimo conquistatore, l’impero ottomano. Con esso giunsero i coloni turchi, che nel XX secolo ammontavano a poco meno di un quinto della popolazione.
Dopo il crollo dell’impero ottomano nel corso della Prima guerra mondiale, Cipro diventò una colonia britannica. I greci dell’isola, cristiani ortodossi che si erano periodicamente rivoltati contro i turchi ottomani, non accolsero con favore i nuovi dominatori britannici, e richiesero invece a gran voce l’unificazione con la Grecia. La minoranza musulmana di ciprioti turchi protestò. Le tensioni ribollirono per decenni, con molte esplosioni di violenza nel corso degli anni Cinquanta. Nel 1960 un compromesso portò a una Repubblica di Cipro indipendente, con il potere spartito fra greci e turchi.
L’odio etnico tuttavia era ormai diventato un’abitudine: i greci massacravano intere famiglie turche, e i turchi le vendicavano con altrettanta ferocia. La presa del potere da parte dei militari in Grecia provocò un colpo di Stato nell’isola, con il patrocinio della Cia in omaggio al nuovo regime anticomunista greco. Nel luglio del 1974 la Turchia reagí inviando delle truppe per impedire che i ciprioti turchi fossero annessi dalla Grecia. Nel corso della breve guerra che ne seguí, ciascun lato fu accusato di commettere atrocità contro i civili del gruppo avverso. Quando i greci piazzarono delle batterie antiaeree in cima a un albergo nella località marittima di Varosha, i bombardieri turchi di fabbricazione americana aprirono il fuoco, e i greci di Varosha si diedero alla fuga.
Allan Cavinder, un ingegnere elettrotecnico inglese, era arrivato sull’isola due anni prima, nel 1972. In quel periodo la sua ditta di Londra lo mandava in giro per tutto il Medioriente, e quando capitò a Cipro, Cavinder decise di restare. Escludendo i torridi mesi di luglio e agosto, il clima dell’isola era mite e sereno. Si stabilí sulla costa settentrionale, ai piedi di montagne i cui villaggi di pietra calcarea sopravvivevano grazie ai raccolti di olive e carrube, che poi venivano esportati dal porto della sua cittadina, Kyrenia.
Quando iniziò la guerra, lui decise di aspettare, nutrendo il fondato sospetto che alla fine i suoi servizi sarebbero stati molto richiesti. Però non avrebbe mai immaginato la chiamata da parte dell’albergo. Dopo che i greci avevano abbandonato Varosha, i ciprioti turchi, invece di lasciarla colonizzare da occupanti abusivi, avevano pensato che quella località turistica alla moda sarebbe stata piú preziosa come merce di scambio quando fossero cominciate le trattative per una riconciliazione permanente. Perciò l’avevano circondata con un reticolato, avevano posato rotoli di filo spinato sulla spiaggia, piazzato dei soldati a fare la guardia e appeso cartelli che diffidavano chiunque dall’avvicinarsi.
Dopo due anni, però, una vecchia fondazione pia ottomana, la cui proprietà comprendeva un albergo ai margini settentrionali di Varosha, chiese il permesso di rimetterlo in sesto e riaprirlo. Era un’idea sensata, constatò Cavinder. L’albergo a quattro stelle, che sarebbe stato ribattezzato Palm Beach, era abbastanza arretrato rispetto alla linea costiera, cosí che il dehors e la spiaggia rimanevano assolati per tutto il pomeriggio. Il torreggiante albergo a fianco, che aveva per breve tempo ospitato una postazione dell’artiglieria greca, era stato distrutto dal bombardamento turco, ma a parte quelle rovine, quando Allan Cavinder entrò nella zona tutto il resto gli parve intatto.
Era uno spettacolo sinistro: fu colpito da quanto gli umani se n’erano andati in fretta. Il registro dell’albergo era ancora aperto all’agosto 1974, quando gli affari si erano di colpo interrotti. Le chiavi delle stanze erano posate sul bancone, dove le aveva lasciate la gente in fuga. Le finestre che davano sul mare erano rimaste aperte, e la sabbia era entrata formando piccole dune nell’atrio. I fiori erano seccati nei vasi; le tazze di caffè turco e i piatti della colazione ripuliti dalle lingue dei topi erano ancora al loro posto sui tavolini apparecchiati.
Il suo compito sarebbe stato rimettere in funzione l’aria condizionata, ma quel lavoro di routine si dimostrò piú difficile del previsto. La porzione greca dell’isola era riconosciuta dall’Onu come sede del legittimo governo cipriota, mentre lo Stato turco nel Nord era riconosciuto solo dalla Turchia. Dato che risultava impossibile procurarsi i pezzi di ricambio, fu stretto un accordo con le truppe turche che sorvegliavano Varosha, e a Cavinder fu permesso di saccheggiare il necessario dagli altri alberghi vuoti.
Cosí prese a vagare per la città abbandonata. Circa ventimila persone avevano abitato o lavorato a Varosha. L’asfalto e i marciapiedi erano crepati; non lo sorprese vedere che le strade deserte erano invase dalle erbacce, ma non si aspettava di trovare veri e propri alberi. Le acacie australiane a crescita rapida usate dagli alberghi come piante da giardino svettavano in mezzo alle vie, alcune già alte un metro. Piante grasse rampicanti serpeggiavano dai giardini degli alberghi, attraversando le strade e inerpicandosi sui tronchi degli alberi. Le vetrine dei negozi esponevano ancora souvenir e creme solari; un concessionario della Toyota offriva Corolla e Celica del 1974. Le detonazioni delle bombe dell’aviazione turca, notò Cavinder, avevano frantumato le vetrine. I manichini delle boutique erano mezzi nudi, con gli abiti d’importazione ridotti a brandelli; alle loro spalle gli espositori erano pieni, ma ricoperti da uno spesso strato di polvere. Le imbottiture dei passeggini erano strappate; lo sorprese vedere quanti ne erano stati abbandonati. E quante biciclette.
Le facciate crivellate degli alberghi vuoti, dieci piani di porte a vetro scorrevoli ormai distrutte e balconi con vista sul mare esposti agli elementi, erano diventate gigantesche piccionaie. Gli escrementi di piccione coprivano ogni cosa. I ratti delle carrube facevano il nido nelle camere d’albergo, vivendo di arance e limoni Jaffa di ex frutteti ormai assorbiti dalla rigogliosa natura di Varosha. I campanili delle chiese greche erano inzaccherati dal sangue e dalle feci dei pipistrelli La sabbia trascinata dal vento lungo le strade ricopriva i pavimenti. Sulle prime fu sorpreso dall’assenza di qualunque odore, se non un misterioso fetore proveniente dalle piscine degli alberghi, che per lo piú erano state inesplicabilmente svuotate ma puzzavano come se fossero piene di cadaveri. Intorno a esse, le sedie e i tavolini rovesciati, gli ombrelloni strappati e i bicchieri caduti a terra facevano pensare a una grande festa conclusa nel peggiore dei modi. Ripulire tutto sarebbe stato molto costoso.
Per sei mesi, mentre smantellava e recuperava condizionatori d’aria, lavatrici e asciugatrici industriali, e intere cucine piene di forni, grill, frigoriferi e congelatori, il silenzio lo opprimeva. Gli faceva male alle orecchie, diceva alla moglie. L’anno prima della guerra aveva lavorato in una base navale britannica a sud della città, e spesso lasciava la moglie davanti a uno di quegli alberghi perché si godesse una giornata di mare. Quando a sera la passava a prendere, di solito c’era una banda musicale che suonava per i turisti inglesi e tedeschi. Adesso non c’erano piú bande, soltanto l’incessante mormorio delle onde, che aveva perso qualunque effetto rilassante. Il vento che soffiava attraverso le finestre aperte si trasformava in un gemito. Il tubare dei piccioni era assordante, l’assenza di voci umane fra le pareti era snervante. Cavinder tendeva le orecchie nel timore di sentire avvicinarsi i soldati turchi, che avevano ordine di sparare ai saccheggiatori. Ignorava quanti di loro sapessero che lui aveva il permesso di stare lí, e quanti gli avrebbero concesso l’opportunità di dimostrarlo.
Ma non fu un problema. Di rado vedeva qualche guardia. Non lo sorprendeva che evitassero di mettere piede in quel sepolcro.
Al tempo in cui a vedere Varosha fu Metin Münir, quattro anni dopo il termine dell’opera di recupero di Allan Cavinder, i tetti erano crollati e gli alberi crescevano dentro le case. Münir, uno dei piú noti articolisti turchi, è un cipriota turco trasferitosi a Istanbul per studiare, tornato a casa a combattere una volta cominciati i guai, poi tornato in Turchia quando i guai non accennavano a finire. Nel 1980 fu il primo giornalista ad avere accesso a Varosha per qualche ora.
La prima cosa che notò fu la biancheria a brandelli ancora appesa ai fili per stendere. Ciò che lo colpí di piú, però, non fu l’assenza di vita, ma la sua vibrante presenza. Ora che gli umani che avevano costruito la città se n’erano andati, la natura si stava prendendo la rivincita. A soli cento chilometri dalla Siria e dal Libano, Varosha ha un clima troppo mite per essere soggetta al ciclo di gelo e disgelo, eppure il manto stradale era dissestato. I manovali all’opera non erano solo gli alberi, notò Münir meravigliato, ma anche i fiori. Minuscoli semi di ciclamino selvatico si erano insinuati nelle crepe, germinando e scalzando intere lastre di cemento. Sulle strade ondeggiavano distese bianche di ciclamini, con le loro belle foglie variegate. «Si comprende, – scrisse Münir ai suoi lettori in Turchia, – cosa intendono i taoisti quando dicono che il tenero è piú forte del duro».
Trascorsero altri due decenni. Finí il millennio, e ne cominciò un altro. I ciprioti turchi erano sicuri che Varosha fosse troppo preziosa per i greci, e che li avrebbe convinti a sedersi al tavolo delle trattative. Nessuna delle due parti avrebbe mai immaginato che, piú di trent’anni dopo, la Repubblica turca di Cipro Nord sarebbe esistita ancora, separata non solo dalla Repubblica greca di Cipro ma dal mondo intero, una nazione paria per tutti tranne che per la Turchia. Anche la forza d’interposizione dell’Onu era esattamente allo stesso punto del 1974, ancora impegnata a pattugliare svogliatamente la Linea verde, dando di tanto in tanto una lucidata a un paio di Toyota del 1974 ancora nuove e mai piú reclamate.
Nulla è cambiato eccetto Varosha, che sta entrando in una fase di avanzata decomposizione. La recinzione e il filo spinato sono ormai arrugginiti, ma non hanno da proteggere altro che fantasmi. Qua e là un’insegna della Coca-Cola e un cartello con il prezzo dell’ingresso in un night-club sono ancora appesi a porte che da trent’anni non vedono entrare un cliente, e non lo vedranno mai piú. Le finestre a due battenti si sono spalancate e sono rimaste aperte, senza piú vetri agli infissi. Il rivestimento in pietra calcarea si è sgretolato. Pezzi di muro sono crollati dagli edifici denudando stanze vuote, da cui l’arredamento è stato da tempo trafugato. La pittura si è sbiadita; l’intonaco sottostante, dove c’è ancora, si è ingiallito trasformandosi in una tenue patina. E dove non c’è piú, delle cavità a forma di mattone mostrano i punti in cui la malta si è già dissolta.
A parte l’andirivieni dei piccioni, l’unico movimento è quello del rotore cigolante dell’ultimo aerogeneratore ancora in funzione. Gli alberghi – silenziosi e senza vetri alle finestre, alcuni con i balconi diroccati da cui precipitano cascate di macerie – fiancheggiano ancora la riviera che un tempo aspirava a essere una Cannes o un’Acapulco. A questo punto, su questo concordano tutti, nessuno di essi può essere recuperato. Niente può essere recuperato. Se un giorno vorrà tornare ad attrarre i turisti, Varosha dovrà essere rasa al suolo e ricostruita di sana pianta.
Nel frattempo la natura continua a reclamare quel che era suo. Gerani selvatici e filodendri fanno capolino dai tetti scoperchiati e si riversano oltre le pareti esterne. Alberi di fuoco, alberi dei rosari e fratte di ibisco, oleandro e passiflora spuntano in recessi in cui l’esterno e l’interno ormai si confondono. Le case scompaiono sotto tumuli color magenta di bougainvillea. Lucertole e serpenti guizzano in mezzo a ciuffi d’asparago selvatico, fichi d’India e graminacee alte due metri. Un tappeto sempre piú esteso di erba limone addolcisce l’aria. Di notte, la spiaggia buia, senza piú nessuno che faccia il bagno al chiaro di luna, brulica di testuggini franche e tartarughe caretta caretta intente a nidificare.
L’isola di Cipro ha la forma di una padella, con il lungo manico che punta verso la costa della Siria. La casseruola è solcata da due catene montuose orientate in direzione est-ovest e divise da un’estesa depressione centrale – e dalla Linea verde, con una sierra da ogni lato. Un tempo le montagne erano coperte da pini di Aleppo e pini corsi, querce e cedri. Una foresta di cipressi e ginepri riempiva l’intera pianura centrale fra le due catene. Ulivi, mandorli e carrubi crescevano sulle aride pendici rivolte verso il mare. Alla fine del Pleistocene, elefanti nani delle dimensioni di una vacca e ippopotami pigmei non piú grandi di un maiale d’allevamento vagavano fra questi alberi. Dal momento che Cipro è sorta direttamente dal mare, senza alcun collegamento con i tre continenti che la circondano, entrambe le specie dovevano essere arrivate a nuoto. Furono seguite dagli umani circa diecimila anni fa. Almeno un sito archeologico suggerisce che l’ultimo ippopotamo pigmeo fu ucciso e cucinato da cacciatori Homo sapiens.
Gli alberi di Cipro furono massicciamente sfruttati dai costruttori di navi assiri, fenici e romani; e nel corso delle crociate, quelli che restavano furono sacrificati alla flotta di Riccardo Cuor di Leone. A quel punto la popolazione di capre era cosí numerosa che le pianure rimasero senz’alberi. Nel corso del XX secolo furono introdotte piantagioni di pino domestico nel tentativo di risuscitare le antiche primavere. Ma nel 1995, in seguito a una lunga siccità, scomparvero insieme a quel che rimaneva della foresta autoctona nelle montagne a nord, distrutti da un inferno di fulmini.
Il giornalista Metin Münir era troppo addolorato per tornare da Istanbul a contemplare la sua isola natale ridotta in cenere, finché un orticoltore cipriota turco, Hikmet Uluçan, lo convinse che doveva vedere ciò che stava accadendo. Ancora una volta Münir scoprí che i fiori stavano rinnovando il paesaggio di Cipro: le colline bruciate erano tappezzate di papaveri rossi. Alcuni semi di papavero, gli spiegò Uluçan, vivono piú di mille anni, in attesa che il fuoco spazzi via gli alberi permettendo loro di fiorire.
Nel villaggio di Lapta, nell’entroterra montagnoso della costa settentrionale, Hikmet Uluçan coltiva fichi, ciclamini, cactus e uva, e accudisce con reverenza il piú vecchio gelso pendulo di tutta Cipro. I suoi baffi, la barbetta alla Van Dyck e quel che resta dei capelli si sono imbiancati da quando da giovane è stato costretto a lasciare il Sud, dove suo padre aveva un vigneto, allevava le pecore e coltivava mandorli, ulivi e limoni. Prima dell’assurda faida che ha spaccato a metà la sua isola, venti generazioni di greci e turchi avevano condiviso quella vallata. Poi alcuni vicini furono uccisi a bastonate. Trovarono il corpo massacrato di un’anziana donna turca che stava portando al pascolo la sua capra, con l’animale belante ancora legato al polso. Era una barbarie, ma anche i turchi stavano trucidando i greci. Quel reciproco odio omicida fra le due tribú non era piú giustificato, o complesso, dell’istinto genocida degli scimpanzé – un fatto naturale che noi umani pretendiamo, vanamente o pretestuosamente, di trascendere grazie ai codici della nostra civiltà.
Dal suo giardino, la vista di Hikmet spazia fino al porto di Kyrenia, sorvegliato da un castello bizantino del VII secolo costruit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mondo senza di noi
  4. Preludio. Il koan della scimmia
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Parte quarta
  9. Coda. La nostra Terra, le nostre anime
  10. Bibliografia essenziale
  11. Indice analitico
  12. Ringraziamenti
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright