Un'altra formidabile giornata per mare
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Un'altra formidabile giornata per mare

Cronaca da una portaerei

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Un'altra formidabile giornata per mare

Cronaca da una portaerei

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Informazioni sul libro

Nel novembre del 2011, Geoff Dyer ha la possibilità di esaudire un sogno d'infanzia: viaggiare a bordo di una portaerei. Il suo soggiorno sulla USS George Bush come writer in residence si rivelerà piú intenso e memorabile di quanto avesse mai potuto sperare: Dyer è un intellettuale in mezzo a migliaia di militari, è goffo, pieno di fobie e piú vecchio di ogni altro passeggero, oltre a essere l'unico cittadino britannico. Raccontando di una nave, del suo equipaggio e di sé, Dyer finisce per parlare di religione, droga, sesso, fanatismo, preghiere, lutti, ma anche di cibo in scatola e scorregge. Soprattutto, però, riflette su di noi, sulle nostre vite e sul mondo che ci circonda, guardandolo da un punto di osservazione cosí «eccentrico» da diventare privilegiato. « Un'altra formidabile giornata per mare è quella in cui si può leggere qualcosa di Geoff Dyer».
Sam Lipsyte «Forse il miglior scrittore britannico vivente».
The Daily Telegraph «Grande scrittura. Piena di urgenza, divertente, sempre sul pezzo e dolorosamente onesta».
Philip Hoare, The Guardian

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426456
Categoria
Viaggi

1.

Dalla base della Marina militare americana di Bahrain stavamo per raggiungere la portaerei a bordo di un Grumman C-2A Greyhound: uno sgraziato turboelica che piú che al levriero del nome [Greyhound] somigliava a un cavallo da guerra o da tiro. Tutto era fuorché agile e veloce. Il cielo faceva quello che fa sempre a quell’ora: aspettava che spuntasse il sole. Il sole è l’unico evento nel cielo in quella parte del mondo – il sole e le stelle, che brillavano per la loro assenza. La temperatura era gradevole; di lí a qualche ora sarebbe stata infernale. Sedici passeggeri, tutti della Marina militare tranne il sottoscritto e il fotografo, riuniti in fondo al Greyhound – anche detto Cod (Carrier Onboard Delivery: consegne a bordo di portaerei) – ad ascoltare le procedure di sicurezza prima del decollo. Ci avevano pesato i bagagli sottraendoceli per caricarli a bordo. Mi era toccato consegnare, protestando, anche la borsa del computer, una novità senza precedenti. Andava stivata perché atterrando sulla portaerei, quando l’aereo avrebbe agganciato il cavo d’arresto, saremmo passati da 140 a 0 miglia all’ora nel giro di un paio di secondi: la «trappola», la prima di tante parole che ho sentito per la prima volta, o meglio, la prima di tante volte in cui ho sentito una parola familiare usata in modo del tutto inedito. Sapevo a che cosa si riferiva e che cosa riguardava la trappola – il gancio, il cavo d’arresto – ma ero indeciso sull’uso. Facevamo la trappola? Colpivamo la trappola? Finivamo nella trappola? La trappola: esisteva isolata dalle altre parole, bruscamente e perennemente bloccata rispetto al normale andamento della sintassi.
C’era anche la parola «craniale»: in quel contesto non era un aggettivo (per esempio di massaggio) bensí un nome che si riferiva alla protezione per la testa, le orecchie e gli occhi che ti davano prima del volo. Senza farsi notare, notai, il cielo andava schiarendo dal grigio all’azzurro. Indossammo il giubbotto di salvataggio e salimmo in fila sull’aereo portandoci dietro i craniali. C’erano due sedili su ciascun lato del corridoio, tutti girati al contrario, e due finestrini grandi come piatti piani su ciascun lato della fusoliera. Non era quella la sede per lamentarsi della mancanza di spazio per le gambe, anche se era una delle cose che risaltavano subito. Le altre erano i fumi e il rumore.
La rampa che avevamo salito si richiuse sigillandoci all’interno. Fecero altri controlli legati alla sicurezza. Incluso puntare una torcia come per vedere se c’erano buchi nella fusoliera. I motivi dovevano essere altri, ma controllare che non ci siano buchi nella fusoliera è comunque buona norma. L’addetta a quei controlli era il corrispettivo militare di un’assistente di volo. Indossava una tenuta da aviatrice color sabbia e sembrava tosta come i personaggi femminili dei racconti di Annie Proulx. Non aveva niente dell’hostess bellona che passa col carrellino chiedendoti se gradisci manzo o pollo e annuncia che l’aereo sta per atterrare, anche se, quando mi si sedette davanti prima del decollo, vidi che dietro la testa aveva uno chignon stretto stretto fermato con le forcine. La Marina militare permetteva alle donne di portare i capelli lunghi. Non ero esattamente sorpreso, solo contento che cosí fosse.
Prima ancora del rullaggio i motori salirono rumorosamente di giri, un chiasso assordante. E dire che mi era sembrato assordante montando sull’aereo, quando non sapevo nemmeno cosa fossero il rumore e l’assordamento. Somigliava a Il volo della fenice. Dava anche quell’impressione, per quanto non ci fossimo ancora mossi, altro che volare. Era chiaramente il momento di indossare il craniale schiaccia-orecchie. Detto fatto rimasi lí, legato stretto, a guardare colpito l’uso non dissimulato di chiodi metallici sul sedile di fronte. Sull’aereo era tutto strappato, rigato, graffiato, scrostato. Tubi, condotti, cavi e sovrastrutture erano visibilissimi. Gli aerei di linea dei paesi piú poveri del mondo lo surclassavano quanto a orpelli; il solo paragonare quell’aereo a uno qualunque delle compagnie low cost occidentali dava un’immagine distorta del lusso. La comodità del passeggero era stata bellamente ignorata in ogni singola fase della progettazione.
Dopo essersi portato a uno stadio di intensità inarrestabile, l’aereo accelerò su una pista per tanto di quel tempo da dare l’impressione che tentassimo l’impossibile a rigor di logica: raggiungere la portaerei via terra. Alla fine il suolo – intravisto, dal finestrino appena dietro sulla sinistra – scomparve. Volammo sopra il Golfo sfocato ma siccome allungare il collo all’indietro per guardare dall’oblò era scomodo e doloroso, mi rimisi dritto in quel tubo silenziosamente rumoroso, vibrante e stracarico a studiare l’ordito di chiodi metallici.
Dopo quaranta minuti l’accidentata corsa si fece ancora piú turbolenta mentre scendevamo in sella all’aria sgroppante. Una sbandata e una risalita da sconquassarti lo stomaco. Eravamo atterrati – no, non ancora! L’assistente di volo sollevò il braccio ruotandolo come se agitasse il lasso, segno che avevamo mancato il cavo d’arresto e stavamo risalendo: bisognava rifare tutto da capo.
Facemmo il giro e riprendemmo la discesa a capofitto. Stavolta calammo con un tonfo fermandoci di botto. All’istante. Un arresto immediato ma non violento come credevo e temevo, forse perché essendo seduti al contrario eravamo stati sospinti nei sedili anziché venire sbalzati fuori.
L’apertura della rampa in fondo all’aereo rivelò che eravamo atterrati in un altro mondo, benché con lo stesso cielo azzurro immacolato del mondo che avevamo lasciato. Radar rotanti, una bandiera americana, «l’isola» (altra parola vecchia-nuova, che si riferiva alla plancia di comando e alle varie stanze per le operazioni di volo impilate su un lato del ponte: un’isola sull’isola della portaerei). La rampa calò lentissimamente rivelando l’intero ponte popolato da esseri con la visiera sul volto e i giubbotti di salvataggio rossi, verdi, bianchi e gialli. Jet – F-18 – ed elicotteri parcheggiati.
Eccoci. Eravamo arrivati sul mondo-portaerei.
Mai visto un cambiamento cosí repentino. Paragonatelo all’esperienza di partire da Londra e atterrare a Bombay – dall’inverno gelido a ventisei gradi di temperatura – alle due di una mattina di gennaio. Perfino un cambiamento tanto drastico è graduale: nove ore di volo; un atterraggio lungo e lento; l’aereo che rulla per l’aeroporto fino al gate; l’ufficio immigrazione, il ritiro bagagli, l’uscita dal terminal. Di norma ci vuole un’ora e mezza prima di ritrovarsi nella notte indiana con quel suo odore di fumo di legna e la sensazione di un’enormità di persone che ancora dormono. Mentre lí un attimo prima viaggiavamo a 140 miglia orarie e quello dopo ci eravamo fermati, si era aperto il portello ed eravamo entrati in un altro mondo con regole, culture, convenzioni e scopi tutti suoi.
Quelli con la visiera nera o guardavano dalla nostra parte o si affannavano, o bighellonavano o gesticolavano. Tre, in maglia e giubbotto di salvataggio bianchi, salirono sulla rampa e ci dissero di seguirli in fila indiana. Dovevano urlare perché emergemmo in un mondo silenzioso – solo allora mi resi conto di quanto funzionasse bene la protezione per le orecchie del craniale – dove i vapori si arricciolavano sospesi su una parte del ponte. Nell’aria c’era un forte odore di carburante aereo. Il caldo sparazzato dal cielo rimbalzava sul ponte di volo. Altri tre tipi con il craniale e maglia e pantaloni marrone erano avvolti da pesanti catene come meccanici del Medioevo, addetti a una macchina d’assedio. Volevamo fare un giretto ma eravamo entrati in un mondo incalzante dove i giretti non erano contemplati e facevi quello che ti dicevano, nella fattispecie andare in fila indiana sulla passerella al bordo del ponte e poi scendere i gradini che portavano all’Air Transfer Office (Ato, l’ufficio per il trasferimento aereo). Già stipato di gente che si predisponeva a partire, l’ufficio si riempí all’inverosimile con tutti i nuovi arrivati.
L’alfiere Paul Newell, che ci avrebbe scortati per tutta la nave, si strizzò dentro l’ufficio per presentarsi. È sempre bello essere accolti in un mondo estraneo! Specie quando ad accoglierti è un tipo simpatico, sorridente e caloroso come Paul. Sembrava di essere arrivati in un resort, comodamente ubicato sotto l’aeroporto, trovando un drink di benvenuto e una ghirlanda di fiori da appendere al collo – con la differenza che non c’erano drink né fiori. Aveva la maglia bianca e sfoggiava una cosa che avrei finito con l’identificare come una caratteristica tutt’altro che rara nella vita sulla portaerei: una forma di baffi ormai quasi del tutto estinta nella vita civile. Non il vecchio baffone esagerato dei piloti della Raf bensí un piccolo sotto-naso, sopra-labbro che non voleva prendersi sul serio, che per lo piú si vergognava con discrezione della sua protratta ancorché sparuta esistenza.
Eravamo pronti ad andare… anzi, no. Sul Greyhound avevo preso appunti e anziché tenermi stretto il quaderno l’avevo diligentemente consegnato all’assistente di volo che, quando stavamo per cominciare il primo atterraggio non riuscito, l’aveva scaricato in una sacca insieme alla roba degli altri passeggeri. E si era perso. Perciò a Paul toccò frugare tra il materiale da cancelleria per recuperarlo. Perché non me l’ero semplicemente ficcato in tasca? Perché avevo fatto quello che mi dicevano. Ma facendo quello che mi dicevano avevo dimostrato una mancanza d’iniziativa che adesso stava ritardando, e forse mettendo anche a repentaglio, la missione.
Gli altri nuovi arrivati furono condotti nei loro alloggi e chi lasciava la portaerei venne scortato sul ponte di volo. Al ritorno di Paul eravamo rimasti solo io e il fotografo.
– C’era soltanto questo, – disse Paul. In mano non aveva un solido taccuino Moleskine del tipo usato e mitizzato da Chatwin e Hemingway bensí un esile quadernino con la copertina verde e qualche scarabocchio infantile sulle pagine.
– È lui! – dissi, contento di ripristinare la mia identità professionale.
Adesso sí che eravamo pronti ad andare. Il che significava che eravamo pronti a trascinarci lungo un’infinità di passaggi, portelli ed entrate, alcuni sollevati di vari centimetri (perfetti per sbatterci le ginocchia), altri rasoterra. Sembrava una galleria di specchi e il fotografo, naturalmente, ci teneva a fotografare quel corridoio infinito. Ma doveva aspettare. Ogni tre metri uno di quei portelli era aperto e c’era qualcuno che puntualmente o ci cedeva il passo o passava mentre noi aspettavamo – di solito si verificava il primo caso. Essendo un civile e perciò privo di grado, venivo trattato come se sopravanzassi praticamente tutti. La disponibilità a cedere il passo, a darmi la precedenza, era la dimostrazione, a livello di cortesia, di un concetto piú ampio: erano disposti a sacrificare la propria vita per me, per noi. Se fosse arrivato l’ordine di abbandonare la nave mi avrebbero scortato, in modo fermo e gentile, alla prima scialuppa di salvataggio disponibile perché ero un civile. Oltre a quelli che cedevano il passo – tra cui uno con un taglio mezzo rimarginato sul setto nasale e i residui di un occhio nero – c’era sempre qualcuno che puliva. Dovunque andassi, sotto ogni passaggio e rampa di scale, i marinai lavavano, sfregavano, sciacquavano, spolveravano, spazzavano, strofinavano, spazzolavano, lucidavano, lustravano, splendevano.
Quanto a me, ho passato il resto del tempo sulla portaerei a schivare e scansarmi o, piú esattamente, a scansarmi e chinarmi. Attraversavo i passaggi e mi chinavo-scansavo varcando i portelli, sempre concentrato su un’unica ambizione: non sbattere la testa anche se ne avevo occasione ogni paio di secondi. Era come stare in un cottage gallese epicamente espanso e convertito in una potenza nucleare. Ogni volta che mi ergevo in tutta la mia altezza, ero a rischio. Perciò ondeggiavo e zigzagavo, schivavo e mi chinavo.
Piú si invecchia piú diventa chiaro che i vantaggi di essere bassi in questa piccola vita superano di gran lunga i mitici benefici di essere alti. In cambio di un relativo privilegio quando servi a tennis e dell’attrazione (forse illusoria) esercitata sulle donne alte, passiamo il nostro tempo a rattrappire gli arti dentro automobili e aerei e in generale a fracassarci la capoccia. Quei quattordici giorni a bordo sono stati i piú curvi che abbia mai passato, quattordici giorni che hanno reso la tecnica Alexander obsoleta e si sono fatti beffe dell’idea di postura corretta. Mi sono subito messo di vedetta alla ricerca di altri alti con cui fare lega. Ero il piú alto della nave? (La Marina militare prevedeva un’altezza massima come la Polizia o l’Esercito ne prevedevano una minima? In tal caso l’altezza del soffitto si riduceva ulteriormente nelle condizioni già notoriamente anguste di un sottomarino?)
Dopo cinque minuti a sbattere le ginocchia e camminare curvo siamo arrivati alla mia cabina privata. Notate il pronome possessivo. Non «nostra», «mia»: singolare, non plurale. Hanno portato me nella mia stanza. L’idea di condividere una stanza mi aveva terrorizzato al punto che, fin dall’inizio, avevo insistito per l’isolamento. Non sarebbe stato possibile, mi avevano detto: io e il fotografo avremmo diviso la stanza con l’alfiere Newell e altri tre ufficiali. Sei persone in una stanza! Ma a noi scrittori serve una stanza tutta per sé, avevo dichiarato, confidando che lo sfondone grammaticale sarebbe stato ampiamente compensato – agli occhi della Marina militare – dall’allusione a Virginia Woolf. A me piace scrivere di notte, avevo aggiunto, e il rumore dei tasti disturberebbe gli altri. Per quello non c’è da preoccuparsi, mi avevano allegramente risposto. Con i jet che decollano e atterrano ti abitui a filtrare i rumori, e il ticchettio di una tastiera non avrebbe disturbato nessuno. Non è solo quello, avevo replicato (tramite gli intermediari incaricati di organizzare il mio soggiorno a bordo). Ho la prostata disastrata. La notte ho bisogno di pisciare come minimo due volte. Deve capire, era stata la replica della Marina militare, che lo spazio è estremamente limitato. I soldati semplici, maschi e femmine, dividono fino a duecento cuccette, perciò una stanza per sei è un privilegio enorme. Devono capire, avevo replicato io, che sono troppo vecchio per condividere qualcosa. Divento matto se devo condividere qualcosa. Sono cresciuto senza fratelli né sorelle. Sono costituzionalmente incapace di condividere qualcosa. Mia moglie se ne lamenta di continuo, avevo detto. Sostanzialmente soltanto il capitano e pochi altri alti ufficiali hanno una stanza privata, era stato il severo monito. Allora potrei occupare la stanza del capitano e lui potrebbe trasferirsi una quindicina di giorni con Newell e i ragazzi, tanto per riprendere contatto con le masse, avevo risposto nella e-mail (destinata all’intermediario, convinto che la tenesse per sé). L’ora della mia missione si avvicinava e io mi sforzavo di accettare l’inevitabilità di condividere una stanza – avevo perfino comprato un pigiama a strisce –, ma proprio non ci riuscivo.
Immaginate perciò il sollievo quando mi condussero alla Stanza vicepresidenziale in uno speciale corridoio Vip di «suite per gli ospiti». Avevo ottenuto una stanza tutta per me solo con la determinazione e la forza di volontà. Avevo sfidato la potenza della Marina militare statunitense e avevo vinto. Newell scortò il fotografo nei loro alloggi condivisi dicendo che sarebbero tornati dopo un quarto d’ora, ma chi se ne fregava del fotografo: per quanto mi riguardava poteva anche dormire all’addiaccio, sotto le stelle sul ponte di volo. L’importante era che non dormisse lí, con me, anche se c’era una brandina in piú (o cuccetta, come la chiamano in Marina). Quello sarebbe stato il risvolto peggiore di tutti: dividere la stanza con il fotografo, o con chiunque, se è per questo. Dividere la stanza con una persona è peggio che dividerla con sei, e dividerla con sei in un certo senso è peggio che dividerla con sessanta. Ma stare lí per conto mio… avere quell’adorabile stanzetta, con una scrivania, una poltroncina, un lavandino (per lavarsi e fare pipí di notte) e una copia delle memorie di George Bush senior scritte dalla figlia: che meraviglia. C’era perfino un accappatoio bello spesso; caspita, era praticamente la suite per la luna di miele, un posto dove potevi dedicarti solo soletto all’arte marittima della masturbazione.
C’era un solo piccolo problema che si rese evidente dopo tre minuti che ero in quella stanza. Lo schianto e il rimbombo dei jet che decollavano. Santo Iddio! Un boato, uno schianto e poi il suono poderoso della catapulta che si riavvolgeva o che so io. Il rumore piú fastidioso della via dove abito a Londra è qualche raro soffiatore per le foglie. Avete presente quant’è forte, quant’è esasperante? Il rumore che c’era lí faceva somigliare un soffiatore al venticello che smuove le foglie, ai cd ambient riprodotti durante una cristalloterapia o una seduta di reiki. Sembrava un treno che ti sferragliava sopra la testa. Non sembrava affatto un treno che ti sferragliava sopra la testa; sembrava un jet che ti decollava sopra la testa – o dentro la testa. Era un rumore che travalicava qualunque metafora. Ogni cosa che non era, sminuiva ciò che era. Era inconcepibilmente rumoroso ma il rumore dei jet che decollavano non era niente in confronto al rumore dei jet che atterravano. Credevo che sarebbe crollato il soffitto. E poi c’era il colpo dell’ingranaggio d’arresto che faceva la sua parte, perciò la botta e il rombo iniziali erano seguiti da un poderoso scossone a scatto che squarciava l’intera nave. Sapevo di essere un piano piú in basso, direttamente sotto il ponte di volo e, pur non essendo in grado di stabilire con esattezza a cosa corrispondessero i vari rumori, sembrava che la mia stanza fosse esattamente sotto il punto dove la maggior parte degli aerei toccavano il ponte.
Come sarei riuscito a chiudere occhio? Specie considerato che – come Newell spiegò quando lui e il fotografo tornarono – la cosa andava avanti tutta la notte. Sarei rimasto lí due settimane. Non avrei dormito un solo minuto. Era cosí anche dove stavano loro? No, loro stavano due piani piú giú, disse Newell. I jet si sentivano ma il rumore era molto meno. Urlavamo a squarciagola non per litigare ma all’unico scopo di farci sentire.
– E va avanti tutta la notte? – urlai, ripetendo sotto forma di domanda quello che avevo appena sentito.
– Ventiquattr’ore su ventiquattro. È una portaerei. Il nostro campo, per cosí dire, è il volo degli aerei.
– C’è ancora una cuccetta libera in camera vostra? – dissi, non sapendo bene se scherzassi. Ero combattuto fra il sollievo di avere una stanza tutta per me e il timore di quello che comportava avere una stanza tutta per me.
– Ci farà l’abitudine, – disse Newell. «È qui che ti sbagli», avrei voluto urlargli in risposta. L’essenza del mio carattere sta proprio nell’incapacità di abituarmi alle cose. È soltanto a questo che sono riuscito a fare il callo: all’incapacità di abituarmi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un’altra formidabile giornata per mare
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. 34.
  38. 35.
  39. 36.
  40. 37.
  41. 38.
  42. 39.
  43. 40.
  44. 41.
  45. 42.
  46. 43.
  47. 44.
  48. 45.
  49. Gradi della marina statunitense
  50. Ringraziamenti.
  51. Il libro
  52. L’autore
  53. Dello stesso autore
  54. Copyright