Storia della letteratura inglese. I. Dalle origini al Settecento
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Storia della letteratura inglese. I. Dalle origini al Settecento

  1. 432 pagine
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Storia della letteratura inglese. I. Dalle origini al Settecento

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Muovendo dalle prime espressioni letterarie nella lingua che diventerà l'inglese, il volume segue i percorsi dei fenomeni culturali e degli autori che, a partire dall'alto Medioevo, hanno dato vita a una delle letterature piú ricche e affascinanti dell'Occidente: dall'anonimo estensore del Beowulf all'opera di Chaucer, dai poeti e drammaturghi elisabettiani con al centro la figura grandissima di Shakespeare - agli scrittori dell'età giacomiana e carolina, da Milton e Dryden a Bunyan e ai commediografi della Restaurazione, per concludersi con la produzione letteraria del Settecento, vista nei suoi aspetti peculiari - il neoclassicismo, la nascita del romanzo - e nelle sue componenti anticipatrici di una sensibilità, per certi aspetti, non solo romantica ma già moderna. Un viaggio straordinario, dunque, che dai kennings dei canti dei bardi nordici conduce all'eleganza e alla raffinata ironia dei romanzi di Jane Austen.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426609
ROSANNA CAMERLINGO

Il Rinascimento e Shakespeare

I.
TRA UMANESIMO E RIFORMA: LA FUCINA DELLA GRANDEZZA.

Il XVI secolo fu per l’Inghilterra il secolo piú sconvolgente dopo la Conquista normanna, il piú ricco d’eventi cruciali: sociali, economici, politici, religiosi, letterari. Non lo fu naturalmente solo per l’Inghilterra, né ci furono secoli privi di eventi cruciali. Ma per l’Inghilterra il Cinquecento fu davvero l’inizio esplosivo di tutto: della sua identità nazionale e linguistica, della sua letteratura e della sua potenza politica ed economia, l’inizio anche della sua espansione nel mondo.
Abbandonata definitivamente ogni pretesa sui territori francesi al di là della Manica con la caduta di Calais nel 1558, i sovrani Tudor e i loro uomini riuscirono abilmente a trasformare gli svantaggi e i rischi che la forzata insularità comportava – provincialità culturale e irrilevanza politica – nella loro maggiore fortuna. Si trattava ora, piuttosto, di unificare l’isola annettendovi il Galles e la Scozia, che rimaneva ancora indipendente, e l’Irlanda, tenacemente ribelle e sottomessa solo in una piccolissima parte.
Approfittando con somma spregiudicatezza della posizione marginale dell’isola di fronte alle grandi controversie che attraversavano il continente, sciupandone le risorse, Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Corona inglese dalla Santa Sede e con l’Atto di supremazia nel 1534 si proclamò capo della Chiesa d’Inghilterra. Il monarca inglese usò con tempestivo opportunismo le nuove idee che erano tumultuosamente prodotte nella Germania di Lutero e clandestinamente importate in Inghilterra, al solo scopo di appropriarsi delle cospicue ricchezze ecclesiastiche da distribuire ai suoi alleati e per affermare il potere assoluto sul suo regno, e sulla sua vita privata. Fu una storia lunga e travagliata quella della Riforma in Inghilterra, intimamente intrecciata con la nascita della sua autonomia politica e culturale. La Riforma distrusse tradizioni e consuetudini, abbazie e libri, ma permise una rivoluzionaria modernizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo e il decollo orgoglioso di una nuova cultura politica e letteraria. In ogni caso per essa caddero molte teste, sia di quelli che la vollero, sia di quelli che le resistettero. Di questa storia conviene seguire l’evolversi attraverso le vicende turbolente dei protagonisti dell’accesa polemica che ne determinò il ritmo e il respiro.

1. Isole reali, isole ideali: More, Tyndale.

«Utopia» è una parola coniata sul suolo inglese da Thomas More (1477?-1535). È il titolo della sua opera piú nota, pubblicata in latino nel 1516 e tradotta in inglese solo nel 1551. «Utopia», che vuole dire non-luogo oppure luogo del bene, dal greco ou («senza») o («bene») e tópos («luogo»), è il nome dell’isola visitata da Raphael Hythlodoeus in una località indefinita del Nuovo Mondo. Un’isola che contiene 54 città-stato, «tutte spaziose e magnifiche, identiche nella lingua, tradizioni, costumi e leggi». Avendone conosciuta una se ne conoscono tutte. Qui More stabilisce la sede di uno Stato ideale dove non esistono proprietà privata, né denaro, né differenza di rango, dove la guerra è sconosciuta e tutti lavorano sei ore al giorno, dove la famiglia condivide beni e figli con la comunità e non c’è posto per l’ambizione personale o il conflitto politico, né per lo spreco del lusso, né per il privilegio o il sopruso. Qui i desideri privati sono attenuati in nome dell’interesse comune e della convivenza civile. Uniformità e giustizia, sane relazioni sociali e abbassamento dell’aggressività dell’io: queste sono le principali caratteristiche di Utopia.
Ispirata sia alla Repubblica di Platone sia ai resoconti dei recenti viaggi di esplorazione verso nuove terre che offrivano una prospettiva inedita sul vecchio continente, la sobria e retta isola di Utopia sembra voler essere la rappresentazione e contrario dell’attuale isola d’Inghilterra, rigidamente divisa da gerarchie sociali, smodatamente teatrale, vanagloriosa e pretenziosa, ingiusta e violenta, mal governata dalla folle ingordigia dei potenti. L’Utopia di More costituisce forse il primo esempio di critica della società contemporanea che adotta come strategia retorica un punto di vista esterno e «razionale» (Hythlodoeus e la sua Utopia) da cui risaltano in filigrana i difetti e le assurdità della storia presente.
L’Utopia, insomma, serve piú a stanare i vizi del reale che a decretare le virtú dell’ideale. Solo fino a un certo punto, infatti, Utopia rappresenta per lo stesso More quello che una società ideale dovrebbe essere. Controllata da un’oligarchia di uomini pii e saggi e da un fantomatico principe eletto con il consenso generale, Utopia è una società troppo virtuosa per essere probabile o persino desiderabile. Nel primo dei due libri il dialogo fra il troppo integro Raphael Hythlodoeus (che significa «dotto in nonsenso») e un raffinato e semiserio Morus (o, secondo l’etimologia greca «matto»), mette in luce i dubbi e le perplessità sul pericolo che l’abolizione della proprietà privata costituisce per il possesso interiore dell’individuo.
Principalmente, tuttavia, il dialogo tra Hythlodoeus e Morus mette in scena il dilemma cruciale dell’umanesimo europeo: può il sapere (o la filosofia) agire sulla prassi civile? Può il sapiente (o il filosofo) avere un ruolo nella vita politica del suo paese? Un dilemma che occupò un posto centrale nella carriera pubblica e letteraria di More e che assumerà una forma concreta appena dopo il 1516, la data di pubblicazione di Utopia, quando Enrico VIII offrí a More l’incarico di Lord Chancellor, la carica piú importante del governo. Questi anni segnano il passaggio dal More umanista al More teologo e polemista.
More era approdato al suo capolavoro politico/filosofico dopo aver tradotto The Life of Johan Picus Erle of Myrandula (La vita di Pico della Mirandola, 1505), il neoplatonico fiorentino convertitosi alle idee radicali del monaco dissidente Girolamo Savonarola, e molti dialoghi di Luciano, scelti, insieme con il suo amico, l’umanista olandese Desiderius Erasmus (1467?-1536), tra quelli che maggiormente attaccavano l’avidità e l’abuso dei potenti, la superstizione, l’ignoranza e la cupidigia del clero. Laureatosi in giurisprudenza all’università di Oxford, More ricevette una educazione interamente imbevuta dell’umanesimo importato dall’Italia in Inghilterra negli ultimi decenni del Quattrocento dagli ecclesiastici William Grocyn (1446-1519) e Thomas Linacre (1460-1524). Entrambi gli studiosi avevano frequentato i circoli umanisti italiani e avevano studiato il greco sotto la guida del neoplatonico Angelo Poliziano (1459-1494). Fu grazie al loro entusiasmo per il «nuovo sapere» che nei curricula dell’università di Oxford furono inseriti, sebbene in notevole ritardo rispetto all’Italia, lo studio della letteratura greca, della filosofia e delle scienze. Sulla base di un analogo entusiasmo, il decano della cattedrale di St Paul, John Colet (1466-1519), fondò la scuola di St Paul a Londra ispirandosi ai principî umanistici con l’intento di riformare l’educazione della futura classe dirigente del paese. Fu in questo clima di rinnovamento culturale che Erasmo arrivò in Inghilterra nel 1499 per risiedervi poi dal 1509 al 1514. Insieme con Erasmo, che gli dedicò il piú arguto dei suoi scritti, l’Elogio della follia (1511, in latino Morae encomium, dove morae, «follia», gioca foneticamente sul nome di More), More fu il promotore del piú eloquente e brillante programma di riforma del cristianesimo che avrebbe costituito un riferimento fondamentale per il futuro sviluppo della cultura laica e religiosa di tutta l’Europa.
Fu proprio questa brillante erudizione che Enrico volle mettere al servizio della sua causa politica negli anni turbolenti che videro lo scisma da Roma. Lusingato probabilmente dalla visibilità che offriva la scena pubblica, seppure esitante e consapevole dei pericoli che comportava diventare il consigliere del tirannico e imprevedibile Enrico, More accettò l’incarico: «I miei pensieri e il mio cuore erano a lungo stati disposti a una vita ritirata, quando improvvisamente, senza avviso, sono stato gettato in una massa di affari di vitale importanza», scriveva a Erasmo nel 1529. Ma i suoi progetti erano ora messi in pericolo da un oscuro monaco tedesco, professore di teologia all’università di Wittenberg. Quando Martin Lutero, dopo aver fatto circolare le sue celebri 95 tesi nel 1517, fu scomunicato (1521) e dichiarato fuorilegge da Carlo V, il programma di rivitalizzazione del cristianesimo dal suo interno si era trasformato in un attacco dall’esterno.

1.1. Guerra di libri.

Lutero non rimase passivo di fronte alla scomunica. La prima reazione fu la pubblicazione di La prigionia di Babilonia, un trattato in latino indirizzato a un clero colto in cui, partendo dalle stesse premesse di Erasmo sulla ignoranza e prepotenza della classe ecclesiastica, proponeva la liberazione della spiritualità cristiana dalla corruzione delle istituzioni della Chiesa cattolica. Inoltre, respingeva la validità di tutti i sacramenti a eccezione del battesimo e dell’eucarestia (a cui conferiva un diverso significato da quello della Chiesa).
Se Lutero da una parte destituiva il clero di ogni potere sulla vita spirituale del fedele (il solo principio di autorità sono le Sacre Scritture), dall’altra accresceva immensamente quello di Dio. Per Lutero, infatti, la grazia, la salvezza nell’aldilà, è concessa da Dio solo a un certo numero di eletti, indipendentemente dai meriti acquisiti sulla terra. Si tratta di quella che Calvino definirà piú tardi teoria della predestinazione, una teoria inconciliabile con quella cattolica. Per quest’ultima la salvezza è ugualmente distribuita a tutti gli uomini e tocca al singolo individuo riconoscerla e farne buon uso. Per i cattolici la grazia si guadagna con le «opere», per Lutero essa dipende interamente dalla imperscrutabile decisione divina.
Al di là del dilemma teologico-filosofico – è libera o meno la volontà umana? può il singolo individuo forgiare il suo destino? – le due tesi avevano naturalmente conseguenze etico-sociali del tutto divergenti. E sono queste conseguenze che maggiormente interessavano More, In primo luogo, la negazione delle opere e la giustificazione tramite la fede sostenute da Lutero avrebbero portato a una graduale apatia sociale e civile. Una simile dottrina, More scriveva nel Dialogue Concerning Heresies (Dialogo sulle eresie, 1528), porta ad ascrivere ogni azione, buona o cattiva, a Dio o al destino, ad abbandonare ogni «diligenza o buona volontà per essere virtuosi, ogni saldo proponimento contro il vizio, [...] ogni rifiuto del peccato, ogni legge del mondo, ogni ragione tra gli uomini». In secondo luogo i riti, le cerimonie, le immagini che Lutero voleva abolire sono forme simboliche per mettersi in contatto con Dio e per tenere uniti i fedeli. L’ostinata iconoclastia di Lutero minacciava la comunicazione con Dio e tra gli uomini.
More, come Erasmo, pur condividendo con Lutero la necessità di una riforma, e pur riconoscendo la verità di molte delle sue proteste, temeva piú di ogni altra cosa la disobbedienza civile e la frammentazione dell’Europa cristiana. Ma se Erasmo rifiutò di prendere partito, invocando la sua indipendenza intellettuale da quello che stava divenendo un radicale schieramento politico, per More l’unità del cristianesimo e il sistema giuridico garantiti dalla Chiesa cattolica andavano difesi a tutti i costi. Ed è per questo che il More umanista, un po’ buffone, ironico, sofisticato e sfuggente cedette il posto a un More polemista mai esitante o insicuro. Qualsiasi dubbio egli abbia potuto concepire nella sua coscienza sulle posizioni che difendeva, esso non affiorò mai nella sua produzione polemica. Qui i toni sono duri, seri, decisi, sarcastici, anche violenti. E lo divennero ulteriormente quando, nonostante i tentativi di fermare l’arrivo della letteratura protestante che veniva stampata clandestinamente ad Anversa nei Paesi Bassi, l’«infezione» dell’eresia di Lutero si diffuse inevitabilmente sul suolo inglese.
Non fu Lutero, tuttavia, il piú accanito avversario di More, bensí l’inglese William Tyndale.
Tyndale nacque nel Gloucestershire nel 1495, si laureò a Oxford nel 1515 e pronunciò i voti nel 1528. Nel 1523 arrivò a Londra con la speranza di produrre, sotto la protezione del vescovo Tunstall, una Bibbia in inglese che «anche un aratore potesse capire». Ma la traduzione dei testi sacri, che per primo Erasmo aveva intrapreso con successo, incominciò a essere identificata con la causa luterana, e la richiesta di Tyndale fu respinta. Fu allora che Tyndale cambiò protettori e paese. Sostenuto finanziariamente dai mercanti di Londra che simpatizzavano con le nuove idee sulla religione, Tyndale si recò all’università di Wittenberg dove conobbe Lutero, e da liberale ed erasmiano divenne convinto luterano. Nel 1526 completò la prima traduzione in inglese del Nuovo Testamento. Le prime copie che attraversarono la Manica furono presto confiscate e bruciate per ordine del vescovo Tunstall. Enrico, ancora fedele difensore della Chiesa cattolica, rafforzò l’operato del clero annunciando pene severe per coloro che si avvicinavano alla «falsa e corrotta traduzione» di Tyndale.
Il rogo e l’accanita censura del Nuovo Testamento di Tyndale provocarono non poco malcontento tra i sostenitori della causa protestante e non poco sospetto tra i fedeli cattolici. Ma le misure repressive che avevano con successo regolato il dissenso di una cultura fondata sul manoscritto si dimostrarono impotenti di fronte alla forza dirompente che conteneva quel recente e rivoluzionario strumento di trasmissione della cultura e delle idee che fu la stampa. Il Nuovo Testamento di Tyndale continuò a essere stampato a Anversa e distribuito clandestinamente in Inghilterra.
Tradotto non dalla vulgata in latino, ma direttamente dall’originale greco, il Nuovo Testamento di Tyndale è scritto in un inglese semplice, non solenne, diretto. Alla lingua inglese Tyndale attribuí la dignità per competere con le prestigiose lingue antiche e una «grazia» capace di accordarsi meglio con il greco e con l’ebraico che con il latino (la lingua dell’odiata Roma). A lui si devono neologismi significativi basati sull’ebraico come passover («passaggio») e scapegoat («capro espiatorio»). Ma la scelta di tradurre parole chiave come ekklesia con congregation («congregazione») piuttosto che con church («chiesa»), per esempio, o presbyteros con senior («anziano») piuttosto che con priest («prete»), suscitò l’ira filologica di More. La versione in inglese del Nuovo Testamento di Tyndale, scriveva More contestandola parola per parola, era tendenziosa. Le glosse, il commento a margine, che sostituivano quelle dei padri della Chiesa, erano di chiara marca luterana. Seguendo Lutero, Tyndale rifiutava decisamente l’interpretazione allegorica della Chiesa, mentre proponeva una lettura «semplice» e «fedele» del testo: «Cleave unto the texte and playne storye» [Attieniti al testo e al semplice racconto] scriveva rivolgendosi al lettore nel Prologo alla Genesi, tradotto insieme agli altri quattro libri del Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia) nel 1530, e applica gli «esempi» alla tua situazione immediata. La Bibbia non era piú testo di pochi ma guida morale e spirituale della vita quotidiana di tutti.
Il dibattito tra More e Tyndale è stato definito la classica controversia della Riforma, contraddistinta, come è stato detto, da una «monotona verbosità». «Verboso» e «tedioso», il dibattito tuttavia è la voce piú alta ed esaustiva di quella «guerra linguistica» che percorrerà tutto il secolo e oltre in un paese ormai decisamente diviso, e che sfocerà in una vera e propria guerra civile.
Tyndale fu giustiziato per eresia nel 1536, ma il suo Nuovo Testamento continuò a essere letto. Per ironia della sorte, la traduzione della Bibbia che venne autorizzata dallo stesso Enrico nel 1537, e in seguito, la famosa Bibbia di Ginevra del 1560, cosí come quella del 1611, la Bibbia di Giacomo I, si avvalsero a piene mani, senza mai riconoscerlo, di quella di Tyndale.
Non fu l’interpretazione della Bibbia che divise radicalmente More e Tyndale, ma l’interpretazione del potere del sovrano. Quando, per confutare le accuse di istigazione alla disobbedienza civile lanciate dalla propaganda cattolica che faceva capo a Enrico ed eloquentemente rappresentata da More, Tyndale pubblicò The Obedience of a Christen Man (L’obbedienza dell’uomo cristiano, 1528), la «fede» del cattolico re d’Inghilterra cominciò a vacillare. Disobbedire alle leggi del clero, scriveva Tyndale, non significava disobbedire alla legge di Dio. Il re governa lo Stato per diritto divino. Come vicario di Dio egli ne detiene anche l’autorità spirituale. Poiché è suo dovere punire il male, egli dovrebbe cominciare col punire il clero che ha usurpato le sue funzioni giuridiche e si è arricchito a spese dei suoi sudditi. L’autorità del clero va limitata alla predicazione, e le sue leggi vanno soppresse. Né Tyndale né i suoi confederati erano convinti sostenitori della supremazia del sovrano. Tyndale la difese al solo scopo di affermare la massima supremazia: la sua interpretazione della parola scritta di Dio. Ma Enrico fu ovviamente attratto da una teoria che lo liberava dalla sottomissione alla regola ecclesiastica.
Tyndale non assecondò mai il divorzio del re – questione giuridica cruciale della Riforma – e con questo rifiuto pose il sigillo sulla sua vita. È stato detto, tuttavia, che l’ispirazione dell’Obedience si può rintracciare in ogni atto del Parlamento che condusse alla Sottomissione del clero e all’Atto di supremazia del 1534.

1.2. Ragioni di Stato.

L’Inghilterra divenne una nazione protestante non tanto per motivi di fede religiosa quanto per motivi dinastici. Enrico voleva a tutti i costi divorziare da Caterina d’Aragona, che non aveva dato alla luce un erede di sesso maschile. E voleva a tutti i costi sposare Anna Bolena. Il papa Clemente VII esitava a concedere quello che in altre occasioni aveva concesso, e che infine negò per il sol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione di Paolo Bertinetti
  4. Dalle origini al Settecento
  5. I. La letteratura medievale di Enrico Giaccherini
  6. II. Il Rinascimento e Shakespeare di Rosanna Camerlingo
  7. III. Il Seicento di Lucia Folena
  8. IV. Il teatro della Restaurazione di Paolo Bertinetti
  9. V. Il Settecento di Mirella Billi
  10. Bibliografia
  11. Elenco dei nomi
  12. Elenco delle opere
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright