Diritti per forza
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Diritti per forza

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Diritti per forza

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La domanda alla quale queste pagine abbozzano una risposta è nella alternativa seguente. La causa di questo mondo detestabile è da cercare presso presunti nemici dichiarati dei diritti, che del resto sarebbero difficili da individuare, e quindi in un dato esteriore ai diritti, cioè nella loro attuazione difettosa, onde il rimedio debba cercarsi nel loro potenziamento? Oppure, la causa è diversa ed è intrinseca alla concezione stessa dei diritti, in un mondo come l'attuale, che si rivela sempre piú ingiusto e violento e sempre piú piccolo, non nel senso di complicato ma nel senso etimologico di totalità dove ogni parte sta in rapporto di interdipendenza con ogni altra parte? Questo nostro mondo è tenuto insieme da forze attrattive centripete potenti. Paradossalmente, la rivendicazione di diritti, invece che promuovere diversità e diversificazione, rischia di spingere all'uniformità e all'omologazione.

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Informazioni

Senza «diritto di avere diritti»

La conseguenza è che il mondo globale, saturo di spazi e di risorse dove i forti rivendicano il loro diritto assoluto al proprio «stile di vita», genera al suo interno masse d’individui, quasi una nazione senza patria e senza diritti: anzi, precisamente, senza il «diritto di avere diritti». Questa espressione, diffusa nel nostro vocabolario soprattutto per essere stata usata come titolo d’un vasto e influente studio giuridico sullo stato dei diritti nel tempo presente1, fu usata per la prima volta da Hannah Arendt in un significato basilare, relativamente alla condizione primordiale senza la quale nessun discorso sui diritti potrebbe significare qualcosa. Non indicava l’espansione dei diritti, i diritti che generano nuovi diritti, cioè quella rincorsa tra i diritti che ne ha prodotto la banalizzazione di cui s’è detto nel paragrafo precedente; indicava, invece, un’esigenza di fondamento, una premessa, un inizio di significanza.
Astrattamente, nella «età dei diritti», almeno secondo la prospettiva europea, i diritti umani spettano a tutti e la giurisprudenza dei Tribunali nazionali e sovranazionali ha ricordato agli Stati che devono essere previsti corrispondenti mezzi di difesa e di ricorso ai giudici per far valere i diritti sanciti dalle Costituzioni e dalle Convenzioni internazionali. I diritti umani valgono per ogni persona, dovunque si trovi e indipendentemente dalla nazionalità, dal sesso, dalla etnia, dalla religione, dalle opinioni politiche, cioè indipendentemente da tutte le differenze che rendono varia la composizione dell’umanità. Ciò che conta è, per cosí dire, la dignità, e la dignità, indipendentemente dal modo d’intenderla, non può che riguardare ogni essere umano, allo stesso modo2. Non è divisibile secondo le patrie, secondo le cittadinanze. Astrattamente, ma non concretamente. Non casualmente, la tutela concreta dei diritti nasce e si sviluppa entro i confini degli Stati nazionali e si configura in stretta connessione con lo status comune che chiamiamo cittadinanza. Occorre fare parte di una sfera pubblica, poter condividere la formazione democratica della volontà pubblica e poter disporre degli strumenti politici di partecipazione a essa (il voto e la libertà di formazione di una opinione pubblica, innanzitutto) e degli strumenti giuridici per difendere le facoltà proprie di quello status (il ricorso al giudice, innanzitutto). Gli Stati nazionali sono, sí, portatori dei virus nazionalisti di cui si è fatta tragica esperienza, ma non si può dimenticare che essi, avendo abolito i confini interni nella prospettiva dell’uguaglianza di diritto e di diritti, e avendo stabilito confini esterni nella prospettiva d’una, come si dice oggi, sfera comunicativa strutturata e quindi efficiente, hanno creato i presupposti storico-concreti per la lotta e il riconoscimento dei diritti. Gli attori di questo vasto movimento sono stati tutti attori nazionali e agivano in vista di obbiettivi che diremmo inclusivi. L’esito che le lotte sociali di due secoli hanno prodotto, al di là degli intenti partigiani (ad esempio, gli intenti in campo nella lotta di classe), ha finito per essere la creazione di un «noi» comune, dettato dal senso di appartenenza, che alimenta l’«io», come l’«io» alimenta il «noi»3. Oggi, al contrario, siamo in presenza di masse di persone sradicate, titolari bensí di diritti, ma solo astrattamente, poiché manca loro, possiamo dire, il diritto al confine, nel senso detto sopra. I diritti globalizzati, invece di essere rafforzati, per queste centinaia di migliaia di persone per le quali massimamente dovrebbero essere rafforzati, sono invece resi evanescenti: universalismo morale con pochi o nulli strumenti di realizzazione, lasciato alla carità privata. Di contro, molto saldamente radicata nei confini, sta minacciosamente l’espressione sopra evocata e commentata, «stili di vita non negoziabili». Essa contiene la rivendicazione dei propri diritti e il disconoscimento degli altrui diritti, tanto piú minacciosa quanto piú è forte colui da cui proviene.
In un mondo saturo com’è l’attuale, poi, non esiste per le vittime della minaccia la possibilità di «un altrove», dove affermare e difendere la propria cittadinanza o costruirne una nuova. Il progetto coltivato dal Terzo Reich nel 1940, prima di passare alla «soluzione finale», di concentrare la popolazione ebraica d’Europa in Madagascar, poteva essere preso in considerazione da menti malate di delirio d’onnipotenza, in quanto quell’isola si considerasse vuota e quindi riempibile (la sorte della popolazione malgascia era semplicemente ignorata come problema). La costruzione dello Stato d’Israele, sia pure a scapito dei diritti delle popolazioni palestinesi, ritenute dalle maggiori potenze mondiali dell’epoca, materia comprimibile, oggi non sarebbe piú possibile perché, sia pure con il senno di poi, la Palestina si dimostra essere tutt’altro che un vuoto a disposizione di chi la vuole riempire. L’idea che i milioni di migranti dall’Africa o dai Paesi mediorientali tormentati dalle guerre e dalla fame possano trovare luoghi liberi dove ricostruire una loro vita autonoma e dignitosa, non è venuta in mente a nessuno. O meglio, a qualcuno è venuta in mente: piattaforme galleggianti o navi al largo delle coste, in modo tale da non dare fastidio a chi rivendica il diritto di stare «a casa propria» senza intrusi.
Questo popolo di potenziali intrusi costituirebbe quasi una nazione se fosse tenuto insieme da un qualche carattere unificante positivo e non solo dal dato disgregante del rifiuto generalizzato. I Paesi sotto pressione – a parte il soccorso umanitario – hanno prestato attenzione soprattutto dal punto di vista della compatibilità tra la sua esistenza e i livelli di vita, il train de vie, della popolazione residente: per l’appunto il suo «stile di vita»4 . Lo «stato sociale» e i diritti che lo sostanziano non sono per tutti, ma solo per coloro che sono «di casa». Gli altri sono scarti che devono essere smaltiti. Eppure, i diritti umani spettano a tutti. Le Convenzioni internazionali e, spesso, le Costituzioni nazionali non fanno differenze tra cittadini e stranieri, quando si tratta della protezione minima essenziale della dignità delle persone. Ma questa tutela, chiara dal punto di vista giuridico astratto, è oscura dal punto di vista della realtà concreta.
I migranti senza approdo non sono, giuridicamente, apolidi: sono cittadini degli Stati da cui fuggono. Gli apolidi che abbiamo conosciuto nel secolo scorso stavano meglio: convenzioni internazionali li proteggevano e organizzazioni benefiche sovranazionali li aiutavano; spesso erano guardati con rispetto e partecipazione, in quanto sopravvissuti a tragedie politiche che suscitavano compassione (come accadde per i russi, fuorusciti dopo la Rivoluzione d’ottobre). I migranti di oggi non sono privi di cittadinanza, ma la cittadinanza non è per loro una protezione. È invece all’origine della loro persecuzione: sono cittadini, ma devono fuggire dalla loro condizione e perciò ne cercano un’altra che, però, viene loro negata. A quale ambasciata, a quale consolato potrebbero rivolgersi i profughi siriani, curdi, turchi, africani, latino-americani che fuggono dalle guerre civili, dalle persecuzioni politiche, dalle violenze criminali, cui sarebbero sottoposti nel loro Paese? Essi, di fatto, sono piú disperati degli apolidi, di coloro cioè che sono privi di cittadinanza: ne hanno una che, però, non è una casa protettrice, ma un luogo al quale rischiano di essere rimandati con la promessa di persecuzioni, sofferenze, fame e torture. Per loro il ritorno in patria non è la speranza, ma una minaccia spesso mortale; non è il ritorno a casa ma un’espulsione. Essi sono letteralmente de-territorializzati. Se non stanno definitivamente sul fondo o sulla risacca del mare, staranno precariamente in non-luoghi ch’essi ignorano quali siano e dai quali sono ignorati. Nessuna autorità si considera obbligata a garantirli, com’è invece per i cittadini appartenenti a uno Stato nazionale. Gli organismi internazionali sono palesemente insufficienti e la cooperazione tra gli Stati altrettanto. La loro condizione si avvicina a quella delle cose o degli animali: si fa qualcosa non per loro, ma quando incominciano a rappresentare un pericolo, un problema, per le popolazioni dei luoghi di transito e di arrivo. Sono l’immagine piú precisa della spoliazione, nei confronti di coloro i quali talora si mobilitano la beneficenza e l’aiuto privato, ma talaltra si fanno avanti silenziosamente sfruttatori di chi è nella condizione di estremo bisogno. In taluni casi, addirittura, s’è giunti da parte delle autorità a considerare l’assistenza e il soccorso comportamenti illegali: si è ignorato quello che nella nostra cultura dovrebbe essere il primario dovere nei confronti dello straniero, l’ospitalità.
L’espressione «diritto di avere diritti» fu coniata con riferimento al popolo ebraico, un popolo che, tanto per incominciare, si intendeva espellere dal continente europeo che, nei suoi riguardi, veniva collocato off limits5. Se noi possiamo usare la stessa formula con riguardo agli attuali popoli di senza terra, è perché le analogie sono evidenti e impressionanti e ci pongono di fronte a domande analoghe.
Gli esseri umani non sono animali stanziali, se non per ragioni affettive, politiche e culturali. Nella storia dei popoli, le migrazioni per ragioni politiche ed economiche, spontanee o indotte dai governi, sono fenomeni frequenti. Appartengono alle vicende dell’umanità che cerca di adattarsi alle circostanze. «Quel che è senza precedenti – dice Arendt con riguardo alla tragedia del suo popolo negli anni Trenta e Quaranta del Novecento – non è la perdita della patria, ma l’impossibilità di trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era determinata dalle politiche razziali e colpiva comunità umane determinate. Oggi, deriva dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato, che si esprime nell’espressione violenta dell’«a casa mia». A casa mia ho il diritto di non essere importunato da chi non è «di casa». Ognuno al suo posto. Costoro stiano «a casa loro».
L’idea di «casa», rispetto a questo uso, merita un piccolo approfondimento: piccolo nell’ambito del dibattito che si svolse in Germania tra le due guerre mondiali intorno al concetto di «ganze Haus», la casa totale, teorizzato dallo storiografo delle istituzioni Otto Brunner6. Possiamo prendere la questione concedendoci una digressione musicale, letteraria e politica, e lo facciamo a partire dal secondo tempo del Quartetto per archi in Do (Kaiserquartett) di Franz Joseph Haydn (op. 76, n. 3). Lo si ascolti e si dica se non vi è espresso un tenerissimo legame con le cose care, intime, dove il sentimento si mescola con l’amore tranquillo che unisce la vita ai luoghi prediletti, sia fisici che morali: una realtà dello spirito che non si saprebbe definire senza snaturarla – «Und niemand weiß», tre parole di Hölderlin7 – ma che sempre, e soprattutto nelle pene sofferte, si desidera vivere:
Lieto torna al quieto fiume il navigante
da isole lontane, quando ha raccolto;
cosí anch’io a casa tornerei, se avessi
raccolto beni pari al mio dolore
Care rive, un tempo mie nutrici,
lenite voi i mali dell’amore? E promettete,
[…]8.
Un altro esempio musicale di appartenenza alla Heimat accogliente, anzi avvolgente e consolante, è il Ranz des vaches, la dolcissima melodia che i mandriani svizzeri cantavano a richiamo della mandria. Celebri, in quello stile, sono un passaggio dei fiati dell’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini e il rasserenamento dopo il temporale che nella «Sinfonia pastorale» di Beethoven introduce all’ultimo tempo. Quel canto nasceva dalla struggente nostalgia di casa e, a sua volta, l’alimentava, al punto d’essere vietato ai soldati svizzeri che nel XVII secolo e poi con Napoleone erano al soldo di eserciti di tutta Europa. Chi l’avesse intonato sarebbe andato incontro a pene severe. Il Giusti di Sant’Ambrogio riferisce di analoga suggestione all’udire le note del coro verdiano «Oh, Signore dal tetto natio» e le note d’un corale luterano «lento lento», note che fanno spazio alla preghiera, al lamento, alla dolcezza amara dei canti perduti, uditi da fanciullo, al desiderio di pace e di conciliazione. Ma il mite sentimento della casa natia e delle radici domestiche è facilmente rovesciabile. È eminentemente ambiguo, perché può diventare forza comunitaria, nazionalistica, che esclude ed è pronta ad aggredire. Si ascolti, ad esempio, il tema del Quartetto di Haydn, come risuona nell’inno nazionale tedesco (Deutschland, Deutschland über alles: «Germania, Germania sopra tutto, sopra tutto al mondo […] Donne tedesche, fedeltà tedesca, vino tedesco e canto tedesco […] Unità, giustizia e libertà sono garanzia di felicità» – parole, queste ultime, che non si cantano piú, ma che stanno comunque sempre in agguato sulla porta) e si dica che genere di legame sentimentale con la terra è suggerito. In entrambi i casi c’è il senso dell’appartenenza, ma chi appartiene a chi? E, con quali conseguenze? Nel Quartetto siamo noi che apparteniamo alla terra che amiamo. La terra è il luogo che accoglie chi la ama. Nell’inno nazionale (che il nazismo fece proprio senza difficoltà, affiancandogli la sinistra canzone del partito, l’Horst Wessel-Lied ), è la terra a essere oggetto di possessione, consolidato dal tempo, definito, circoscritto e cementato dall’identica cultura mascolinizzata e dall’omogeneità etnica, alla fine razziale. Nello spazio saturo, dove s’afferma il concetto di «casa propria» nel significato della casa che è il nostro esclusivo possesso, non c’è piú nessun luogo dove chi è estirpato dalla sua terra possa andare senza le restrizioni piú severe ai diritti, nessun Paese al quale possa appartenere, nessuna terra che possa condividere con altri appartenenti. Tutti gli esseri viventi, dal batterio al mam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. Diritti per forza
  5. L’età dei diritti e la sua contraddizione
  6. La resa
  7. Dalla parte di chi?
  8. Ambiguità dei diritti
  9. La signoria delle volontà
  10. Il sommo diritto: la felicità
  11. Spazi vuoti e spazi pieni
  12. La lezione di Pasqua
  13. Felicità e infelicità
  14. Trinità mondana
  15. La fama
  16. Ingordigia
  17. Diritti violenti
  18. Diritti innocenti?
  19. Stili di vita
  20. Senza «diritto di avere diritti»
  21. Dai diritti ai doveri
  22. Il «primato»
  23. Dopo la seconda guerra mondiale
  24. Dopo la rivoluzione informatica
  25. Debiti e crediti intergenerazionali
  26. Impasse
  27. Incubazione
  28. Beni comuni
  29. Exit
  30. Il libro
  31. L’autore
  32. Dello stesso autore
  33. Copyright