L'America post-razziale
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L'America post-razziale

Razza, politica e religione dalla schiavitù a Obama

  1. 264 pagine
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L'America post-razziale

Razza, politica e religione dalla schiavitù a Obama

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L'America post-razziale è l'autointerpretazione di un paese che ha concepito, sviluppato e consolidato un privilegio razziale a favore dei bianchi e che oggi si ritrova con un presidente nero.
Questo libro racconta la storia del privilegio razziale dei bianchi in America e di come esso abbia subíto molteplici metamorfosi nell'arco di quattro secoli. L'ultima in ordine di tempo è quella che ha mantenuto nelle mani dei bianchi il potere, cioè il privilegio di controllare il sistema. L'elezione del primo presidente nero degli Stati Uniti segna un punto di svolta: da oggi, il controllo del sistema non è piú appannaggio dei bianchi; o, il che è lo stesso, non bisogna piú essere bianco per accedere al potere.
Essere bianco è sempre stato un vantaggio in America. Ma presto esserlo equivarrà ad appartenere a una minoranza razziale in un paese composto di minoranze. Ecco perché, anche per i bianchi americani, l'elezione alla presidenza di Barack Obama ha un significato chiaro: si può essere bianchi senza considerarsi superiori.

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Informazioni

Parte seconda

La battaglia contro il privilegio razziale

Capitolo quinto

Afroamericani e cristianesimo

La Bibbia non fu impiegata dai bianchi semplicemente per legittimare la schiavitú: fu anche usata per trasmettere l’idea che la schiavitú appartiene all’ordine naturale e divino delle cose. Miracolosamente, la religione degli schiavisti fu accolta e fatta propria dagli schiavi. Il cristianesimo afroamericano ha mosso i suoi primi passi nelle radure della Virginia, sulle colline della Georgia, sulle cime degli Appalachi, dove gli schiavi si riunivano di notte, per sfuggire alla sorveglianza del padrone o dei suoi accoliti. Lí, lontano dallo sguardo e dalla frusta dei bianchi, l’animismo africano s’incontrò con la solidarietà e la pietà cristiana. In seguito, battisti e metodisti aprirono la loro religione ai neri, e a volte anche le loro chiese. Le chiese dei bianchi erano a disposizione dei neri, che però potevano sedersi soltanto sui palchi, o sul fondo dell’aula: questo fu vero per qualche decina d’anni. Poi anche questo risuonò troppo promiscuo, e i pastori neri furono invitati a pregare insieme alle proprie comunità, e a costruirsi le proprie chiese. Nacque cosí la Chiesa nera («Black Church»). La Chiesa nera è il piú prezioso tesoro della comunità afroamericana.
In principio era la Chiesa nera, e la Chiesa nera era con la comunità nera, e la Chiesa nera era la comunità nera. La Chiesa nera era in principio con il popolo nero: tutto è stato fatto per mezzo della Chiesa nera, e senza la Chiesa nera niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Nella Chiesa nera era la vita e la vita era la luce degli uomini neri1.
Cosí scriveva lo storico Joseph Washington.
1. Gli schiavi e il cristianesimo.
C’era un lungo corridoio, che terminava con una porta: gli schiavi iniziarono a chiamarla «la porta del non ritorno». Ce ne sono ancora degli esempi, per esempio in Ghana. Gli schiavi erano lasciati chiusi giorni, a volte molti giorni, in un buco scavato nella roccia. Poi, incatenati uno all’altro, attraversavano il corridoio, superavano la porta di non ritorno, erano accecati dall’improvvisa luce del sole africano; quindi, a colpi di bastone e di frusta, erano spinti lungo la banchina, fatti salire sulla nave, soltanto per essere trascinati giú sui ponti interni, dove – sempre legati con catene – sarebbero rimasti per tutto il viaggio che li avrebbe portati in Nordamerica. Per decenni, per secoli, gli schiavi furono soprattutto maschi e giovani; soltanto nel XIX secolo, la percentuale di donne schiave negli Stati Uniti raggiungerà quella degli uomini. Il modo in cui erano stipati nelle prigioni africane, destinati a questa o quella partita, imbarcati su questa o quella nave, era deliberatamente condotto senza alcun rispetto per qualsiasi genere di rapporto sociale. I padri erano separati dai figli, i fratelli dai fratelli: qualunque tipo di rapporto preesistente, annullato. I membri delle diverse tribú, mischiati fra loro. Diversi linguaggi e dialetti s’intersecavano nelle stive. Una volta arrivati a destinazione, gli schiavi erano raccolti in campi, dove attendevano di conoscere la propria destinazione. Brutalmente e rapidamente, ogni legame con le proprie origini, ogni possibilità di coesione familiare, tribale o sociale, evaporava. Erano trasportati alla piantagione, dove non iniziavano immediatamente a lavorare: prima venivano istruiti da una parte, e piegati dall’altra. Coabitavano con un piccolo gruppo di schiavi che s’incaricava d’introdurli alla loro nuova condizione. Spesso il benvenuto non era tale. Gli schiavi appena arrivati nutrivano uno spirito di ribellione che causava ansia e timore in quelli ormai assuefatti alla realtà della piantagione. Una regola generale e tacita era che le assemblee di schiavi fossero vietate, i capannelli permessi solo in presenza di un bianco, la fuga punita senza pietà. Le tensioni fra i due gruppi erano permanenti: la difficoltà a rapportarsi, anche soltanto a comunicare, insormontabile. Non potendo usare la propria lingua d’origine, i nuovi arrivati venivano per la prima volta in contatto con l’inglese degli schiavi: afferravano le parole elementari, i vocaboli fondamentali. Riconoscevano i diversi ruoli giocati dagli schiavi nell’organizzazione sociale della piantagione. Imparavano a relazionarsi con il padrone e la sua famiglia, con i guardiani e – piú in generale – con il mondo dei bianchi. Facevano conoscenza con la frusta. Una volta preparati, sul piano psicologico e pratico, iniziavano la loro vita nella piantagione. L’isolamento sociale dello schiavo era totale. I neri della piantagione provenivano da diverse regioni dell’Africa occidentale, da diverse tribú: a volte, erano animisti, a volte islamici2. Le tradizioni, le religioni, le usanze e i linguaggi erano diversi. Con la perdita dell’appartenenza al clan, alla tribú, e a una forma qualsiasi di comunità, gli schiavi si allontanavano dalla forza e dalla verità dei miti e dei segni che li avevano formati in Africa: cadevano in una condizione di amnesia culturale. Cosí, restare fedeli alle proprie radici africane era praticamente impossibile. Il processo di adattamento alla nuova situazione poteva essere lento e combattuto, o veloce e compiacente, ma la conclusione era scontata.
L’esposizione al cristianesimo era praticamente immediata. Appena giunto in America, il mondo dello schiavo si popolava di pastori, chiese e missionari. L’impatto era ancora piú frastornante nella piantagione: i segni della religione del bianco erano ovunque; i ritmi, le parole e le prassi della religione del padrone permeavano l’intera comunità nera della piantagione. Il cristianesimo era una componente importante della vita del padrone e, per la proprietà transitiva, dei suoi schiavi: cosí, il contatto con la religione dei bianchi era inevitabile. Alcuni storici sostengono che gli schiavi abbracciarono il cristianesimo perché forniva loro l’unica possibile forma di organizzazione sociale3: i paesi da cui erano stati strappati godevano di un loro assetto istituzionale, di miti fondativi, di una cosmologia. L’uomo aveva un suo posto nella natura, e il rapporto con la divinità era stabilizzato. Ma quest’equilibrio si disintegrava di fronte ai processi di sradicamento messi in atto dai bianchi. Agli schiavi non restava che il suicidio – buttarsi in mare durante il trasferimento dall’Africa all’America, tentare la fuga dalla piantagione – oppure l’integrazione nelle istituzioni dei bianchi, tra cui quella religiosa. In realtà, l’incontro fra schiavi africani e cristianesimo fu un processo articolato, che durò secoli, e che maturò inizialmente in un contesto sfavorevole, dove le cautele dei padroni si accompagnavano ai sospetti degli schiavi, i quali abbracciarono il cristianesimo man mano che furono resi permeabili all’azione degli evangelizzatori anglicani e puritani. E tuttavia, questi dovettero attendere il XVIII secolo, prima di iniziare ad assolvere la propria missione. I proprietari delle piantagioni ne raffreddarono l’ardore: temevano che la conversione al cristianesimo degli schiavi comportasse la loro liberazione. La cristianizzazione degli schiavi era a un tempo motivo di preoccupazione economica e religiosa. I padroni non volevano assolutamente che il principio di proprietà fosse messo in discussione: gli schiavi avevano un valore economico che non poteva essere contestato. D’altra parte, la loro salvezza era un imperativo morale per tutti i cristiani, che devono portare la parola di Dio ovunque e a chiunque. Come ricordavano i pastori metodisti, la missione della Chiesa è portare il Vangelo a ogni creatura. Cosí, la condizione religiosa degli schiavi africani preoccupava pastori e padroni. Di fronte alla scelta di rinunciare ai propositi missionari, praticamente tutte le congregazioni protestanti, a eccezione dei quaccheri – che lavoravano per la conversione degli africani e la loro liberazione – rinunciarono a considerare la schiavitú un problema morale. Il messaggio fu recepito dalla politica: una volta che il timore dei padroni fu sepolto da leggi ad hoc, che espressamente negavano il nesso tra conversione e liberazione, i missionari ebbero vita piú facile. Una volta assunto un atteggiamento favorevole alla schiavitú, il cristianesimo iniziò a essere diffuso tra gli schiavi4. Un’altra fonte d’insicurezza per i padroni era l’implicita assunzione che la conversione al cristianesimo comportasse la lettura della Bibbia: insomma, gli schiavi avrebbero dovuto imparare a leggere e scrivere. E l’istruzione era certamente una bomba a orologeria. La soluzione fu che i padroni presero l’abitudine, personalmente o attraverso le donne della famiglia, di leggere la Bibbia agli – e con gli – schiavi. Un terzo e ulteriore motivo di esitazione per i padroni era il contenuto della Bibbia. Gli schiavi avrebbero potuto assimilare il messaggio di fratellanza universale, e tradurlo in termini pratici: l’eguaglianza tra bianchi e neri. Un esempio delle difficoltà incontrate dai missionari protestanti, stretti fra la reticenza dei padroni e i sospetti degli schiavi, è quello offerto da Francis Le Jau, un pastore anglicano residente in South Carolina all’inizio del XVIII secolo. Impegnato a incoraggiare un trattamento piú umano degli schiavi, si scontrava con l’opposizione dei bianchi, che temevano dalla conversione dei propri schiavi al cristianesimo un cambiamento nel loro status, ed era rallentato dalla sfiducia degli schiavi stessi, che avevano già avuto modo di appurare come il cristianesimo contribuisse poco a migliorare la loro condizione e alleviare le loro sofferenze5. Le Jau convertí in North Carolina una parte degli schiavi neri, che erano in numero superiore ai bianchi. Essi, come altri nelle colonie britanniche del Nordamerica, costituirono il nucleo della comunità cristiana derivata dalla diaspora africana. Abbiamo visto come il timore di una ribellione degli schiavi avesse raggiunto un livello quasi “onirico” nella psiche degli schiavisti bianchi. Ma per fortuna, la Bibbia contiene anche riferimenti alla schiavitú, e giustificazioni per tale istituto in numero adeguato per tranquillizzare i padroni. Cosí, fu aperta una porta fra Bibbia e schiavi neri, a cui fu insegnato che la schiavitú è parte della natura delle cose, e prevista da Dio; che la libertà appartiene ai bianchi in questa vita, e ai neri nella prossima.
2. La Bibbia e la schiavitú.
La Bibbia era impiegata per validare l’istituzione schiavista. Ci sono almeno una mezza dozzina di passi e storie contenute nell’Antico Testamento che possono essere utilizzate per giustificare la schiavitú. Per esempio, Abramo, Isacco, Giacobbe possedevano schiavi (o persone che i traduttori della Bibbia collocavano in tale condizione). Inoltre, la schiavitú è contenuta nella legge mosaica, al XXV capitolo del Levitico, dove si parla di schiavi come proprietà (anche qui, ci sono interpretazioni contrastanti). Il profeta Isaia parla espressamente di schiavi quando descrive la distruzione finale del mondo a opera di Dio che non risparmierà né loro né i padroni. La Bibbia contiene anche riferimenti ai diritti degli schiavi, per esempio il riposo del sabato, o la loro liberazione dopo un certo numero di anni. Questi riferimenti, che avrebbero potuto portare a condizioni piú favorevoli per gli schiavi neri, furono spesso dimenticati. In generale, l’Antico Testamento esprime un duplice messaggio: quello di prigionia, e quello di emancipazione, ma soltanto il primo fu recapitato agli schiavi neri. Non andò meglio con il Nuovo Testamento. John Robinson, pastore bianco in Ohio, spiegò nel 1845 che, poiché Cristo e gli apostoli non si erano opposti alla schiavitú, i cristiani americani non potevano fare altrimenti. Nel 1857, George Armstrong scrisse nel suo The Christian Doctrine of Slavery che Cristo e i suoi apostoli avevano preparato una dettagliata lista di peccati, e la schiavitú era esclusa; quindi, non era un peccato. C’è una distinzione sottile fra male e peccato: la schiavitú era male, ma non peccato. Nel 1850, James Henley si spinse al punto da coinvolgere le Beatitudini, in particolare Luca (6, 31), il passo dove si dice che «ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». Secondo Henley, la regola della reciprocità espressa in questo passaggio non mette in discussione il rapporto fra padrone e schiavo, perché significa «noi dobbiamo trattare i nostri schiavi come sentiamo che noi vorremmo essere trattati se noi stessi fossimo schiavi»6.
I due fondamenti della teologia della schiavitú, tuttavia, erano contenuti nelle Lettere di Paolo e in un passo della Genesi. Il messaggio di Paolo è incontestabile: per esempio, nella Lettera ai Romani (13, 1-2) egli ammonisce ciascuno a restare «sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna». Nella Lettera a Tito, poi, rincara la dose, quando «esorta gli schiavi a esser sottomessi in tutto ai loro padroni; li accontentino e non li contraddicano, non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per fare onore in tutto alla dottrina di Dio». Quando poi si rivolge ai padroni, come nella Lettera ai Colossesi (4, 1), Paolo si limita a invitarli a dare ai propri schiavi «ciò che è giusto ed equo», ma non menziona esplicitamente la libertà. E infatti, nella Lettera agli Efesini, predica gli schiavi l’obbedienza ai loro padroni
secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene.
E poi, rivolgendosi ai padroni, li esorta a comportarsi «allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui» (Ef 6, 5-8). Ovviamente, l’orizzonte di Paolo è quello della salvezza. L’apostolo sta invitando schiavi e padroni a considerare relative e temporanee le proprie condizioni sociali, in previsione della Parusia, la seconda venuta del Signore. Ma la prospettiva escatologica delle Lettere di Paolo, nell’America del XVIII e XIX secolo, era facilmente interpretabile come una conferma dello status quo: per essere buoni cristiani, gli schiavi dovevano accettare la propria condizione senza rivoltarsi, perché questa è la volontà di Dio. Il Dio cristiano era quindi un Dio che gradiva mantenere alcuni uomini in schiavitú e altri liberi. D’altra parte, Paolo offriva agli schiavisti una gratificante conferma.
Ma il passo biblico in assoluto piú usato per giustificare la schiavitú era la maledizione di Canaan (Gn 9, 21-27). È la storia di Noè che si ubriaca e giace
scoperto all’interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto. Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!» E aggiunse: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!»
Noè maledice uno dei suoi nipoti, Canaan, per lo scarso rispetto mostratogli da uno dei propri figli, Cam, padre di Canaan. La Bibbia non spiega questo strano comportamento di Noè, ma quest’interrogativo non fermò, anzi interessò alcuni difensori della schiavitú. In breve, la catena di spiegazioni che fu costruita intorno al passo della Genesi è la seguente: la maledizione non si limitava a Canaan soltanto, ma a tutti i suoi discendenti: i neri. Infatti – questa la spiegazione – Cam aveva quattro figli. Dice la Bibbia che i figli di Cam erano Etiopia, Egitto, Put e Canaan (Gn 10, 6): uno era stato il capostipite dei bianchi, un altro degli egiziani, un altro ancora degli asiatici. E poi, appunto, c’era Caanan: infatti il reverendo Frederick A. Ross dichiarava nel 1859 che «Dio mandò Canaan in Africa»7.
3. Il cristianesimo degli schiavi.
La storia della religione in America è spesso interpretata come un trapianto nel Nuovo mondo del protestantesimo europeo, ma include anche la conversione della diaspora africana. Nella seconda metà del XVIII secolo, prima ancora della guerra d’Indipendenza, la diffusione dei metodisti e dei battisti fece tesoro del grande, rinnovato interesse per la religione, e si espresse in forme piú emotive di quelle degli anglicani e dei puritani. Mentre gli anglicani preferivano la catechesi e la morale, metodisti e battisti indugiavano sulla personalizzazione del dramma della caduta nel peccato e della grandezza della Resurrezione: i primi insegnavano i dieci Comandamenti, i secondi stimolavano la fantasia degli schiavi con i racconti sul paradiso e l’inferno. Inoltre, mentre gli anglicani ponevano l’accento sulla formazione e il tirocinio, metodisti e battisti enfatizzavano l’idea di sacerdozio universale, che apriva la strada a chiunque sentisse una vocazione interiore, ricevesse un segno interpretabile come una chiamata alla conversione. La risposta degli schiavi al messaggio cristiano era molteplice: alcuni lo abbracciavano, altri lo rigettavano, altri lo mescolavano a pratiche religiose alternative. Certamente si può parlare di una cristianizzazione degli africani, ma anche del contrario. Altri storici rimarcano che fur...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’America post-razziale
  3. Prefazione e ringraziamenti
  4. L’America post-razziale
  5. Introduzione
  6. Parte prima. La costruzione del privilegio razziale
  7. Parte seconda. La battaglia contro il privilegio razziale
  8. Parte terza. L’evoluzione del privilegio razziale
  9. Conclusione
  10. Appendici
  11. Bibliografia
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Copyright