L'inchiostro della malinconia
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L'inchiostro della malinconia

  1. 584 pagine
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L'inchiostro della malinconia

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Questo volume raccoglie tutti gli scritti che il medico, storico delle idee e critico letterario ginevrino ha consacrato ai diversi aspetti della malinconia, a partire dalla sua celebre tesi di laurea dedicata alla storia dei suoi trattamenti medici. I vari saggi rappresentano un'accurata messa in prospettiva di questo potente sentimento, dalla sua prima apparizione in Omero e Galeno fino alla sua riduzione a semplice patologia psichica. Starobinski incrocia miti antichi, astrologia, medicina, letteratura, filosofia e arte, corroborando ogni argomento con una moltitudine di corrispondenze, tanto impreviste quanto perfette. Come afferma egli stesso: «Per piú di mezzo secolo i temi legati alla malinconia hanno orientato certi miei lavori. Eccoli riuniti, grazie all'amicizia di Maurice Olender e di Fernando Vidal. Questo libro spera di dimostrare che la prospettiva della malinconia può dare origine a una "gaia scienza"».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858413197

Storia del trattamento della malinconia

I.

Introduzione1

Non è possibile ripercorrere la storia del trattamento della malinconia senza interrogarsi sulla storia della malattia stessa. Infatti, da un’epoca all’altra, non soltanto si modificano le terapie, ma non sono neppure identici gli stati designati col nome di malinconia o di depressione. Lo storico si trova in presenza di una doppia variabile. Per quanto si sia vigili, certe confusioni sono inevitabili. È quasi impossibile riconoscere nel passato le categorie nosologiche che ci sono oggigiorno familiari. Le storie di malati che troviamo nei libri antichi ci inducono nella tentazione di una diagnostica retrospettiva. Ma manca sempre qualcosa: innanzitutto la presenza del malato. La nostra terminologia psichiatrica, tanto spesso esitante di fronte al malato in carne e ossa, non può certo vantare una maggior certezza quando si trova di fronte semplicemente un racconto o un aneddoto. Le storielle psichiatriche, di cui si accontenta la maggior parte dei medici fino al XIX secolo, se sono divertenti, sono certamente anche insufficienti.
Esquirol si compiaceva di ripetere che la follia è la «malattia della civiltà». Le malattie umane, in effetti, non sono mere specie naturali. Il paziente subisce il suo male, ma lo costruisce anche, o lo riceve dall’ambiente; il medico osserva la malattia come un fenomeno biologico, ma, isolandolo, nominandolo, classificandolo, ne fa un’astrazione e, cosí facendo, esprime un momento particolare di quell’avventura collettiva che è la scienza. Sia dalla prospettiva del malato che da quella del medico, la malattia è un fatto di cultura e muta al mutare delle condizioni culturali.
La persistenza della parola malinconia, conservatasi nel linguaggio medico sin dal V secolo a.C., non attesta altro, e lo si comprende facilmente, che il gusto della continuità verbale: si ricorre ai medesimi vocaboli per alludere a fenomeni diversi. Una simile fedeltà lessicografica non è inerzia: pur trasformandosi, la medicina intende affermare l’unità del suo modo di procedere attraverso i secoli. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dalla somiglianza delle parole: sotto la continuità della malinconia, i fatti designati variano sensibilmente. Non appena gli antichi constatavano una paura o una tristezza persistenti, la diagnosi pareva sicura: in tal modo confondevano, agli occhi della scienza moderna, depressioni endogene, depressioni reattive, schizofrenie, nevrosi d’ansia, paranoie, ecc. Da questo conglomerato primitivo, a poco a poco sono emerse talune entità cliniche piú distinte e si sono succedute le ipotesi esplicative piú contraddittorie. E dunque i farmaci proposti per la cura della malinconia nel corso dei secoli non hanno a che vedere con la medesima malattia né con le stesse cause. Alcuni di essi si propongono di correggere una discrasia umorale, altri mirano a modificare un particolare stato di tensione o di debilitazione nervosa, altri ancora sono messi in campo per distrarre il malato da un’idea fissa. È chiaro che i diversi tipi di cura in cui ci imbatteremo si riferiscono a condizioni cliniche e a sintomi che oggi giudicheremmo molto lontani tra di loro.
Quasi tutta la patologia mentale ha potuto essere messa in rapporto, fino al Settecento, con l’ipotetico atrabile: una diagnosi di malinconia implicava un’assoluta certezza quanto all’origine del male; responsabile era questo umore corrotto. Se le manifestazioni della malattia erano molteplici, la causa era piuttosto semplice. Abbiamo fatto giustizia di tale ingenua sicurezza, fondata sull’immaginario. Non abbiamo piú l’arroganza di trinciare giudizi categorici sulla natura e il meccanismo del rapporto psicofisico. La psichiatria del XIX secolo, non potendo assegnare a tutte le depressioni un sostrato anatomo-patologico, come era riuscita a fare per la paralisi generale, si è sforzata di isolare una serie di varietà morbose di tipo sintomatico o «fenomenologico». Facendosi piú precisa, la nozione moderna di depressione copre un territorio molto meno ampio della malinconia degli antichi. Alla facile e non verificata eziologia che ha caratterizzato lo spirito prescientifico, si è sostituita la descrizione rigorosa e si è coraggiosamente confessato che le vere cause restano ignote. Una cura pseudospecifica e pseudocausale ha ceduto il passo a qualcosa di piú modesto, che sa di essere meramente sintomatico. Una simile modestia, quanto meno, lascia via libera alla ricerca e all’invenzione.
1 La tesi del 1960 è stata qui pubblicata nella sua versione originale, senza modificazioni né aggiunte, comprese le note e la bibliografia che dopo piú di mezzo secolo si è molto sviluppata.

II.

I maestri antichi

1. Omero.
La malinconia, come tanti altri stati dolorosi legati alla condizione umana, è stata provata e descritta ben prima di aver ricevuto un nome e una spiegazione medica. Omero, che si trova all’inizio di tutte le immagini e di tutte le idee, ci fa cogliere in tre versi la dolorosa infelicità del malinconico. Vi invito a rileggere, nel sesto canto dell’Iliade (vv. 200-3), la storia di Bellerofonte, il quale subisce inspiegabilmente la collera degli dèi:
Ma quando lo presero in odio gli dèi,
Andava errando per la pianura Alea, solo,
Il cuore divorato dalla pena, fuggendo ogni traccia umana2.
Pena, solitudine, rifiuto di ogni contatto umano, esistenza errante: è una catastrofe senza ragione, perché Bellerofonte, eroe coraggioso e giusto, non ha commesso alcun crimine verso gli dèi3. Anzi, all’opposto: le sue disgrazie, il primo esilio sono dovuti alla sua virtú; tutte le prove da lui subite gli vengono dal rifiuto delle profferte di una regina che il dispetto trasforma in persecutrice. Bellerofonte ha affrontato valorosamente la lunga serie delle sue fatiche, ha vinto la Chimera, sventato le imboscate, conquistato la sua terra, la sua sposa, il suo riposo. Ed ecco che crolla, nel momento in cui tutto gli sembrava concesso. Nella lotta ha esaurito le energie vitali? In mancanza di nuovi avversari, ha rivolto contro se stesso il proprio furore? Lasciamo da parte simile psicologia che non c’è in Omero. Soffermiamoci, piuttosto, sull’immagine straordinariamente forte di un esilio imposto per decreto divino. Gli dèi, nel loro complesso, ritengono giusto perseguitare Bellerofonte: l’eroe, che ha saputo cosí bene resistere alla persecuzione degli uomini, non ha il nerbo per combattere l’odio degli dèi. E la vittima dell’ostilità universale degli Olimpi non ritrova piú il gusto di incontrare altri esseri umani. Ecco cosa deve attrarre la nostra attenzione: nel mondo omerico, tutto avviene come se la comunicazione dell’uomo con i propri simili, come se la dirittura del suo cammino avessero bisogno di una garanzia divina4. Quando tale favore è rifiutato dalla totalità degli dèi, l’uomo è condannato alla solitudine, alla pena «divorante» (che è una forma di autofagia), a errare nell’ansia. La depressione di Bellerofonte non è altro che l’aspetto psicologico di questo abbandono dell’uomo da parte delle potenze superiori. Disertato dagli dèi, coraggio e risorse gli vengono meno. Una collera misteriosa, incombendo dall’alto, lo tiene discosto dalle vie frequentate dagli uomini, lo spinge al di fuori di ogni meta, di ogni senso. È, questa, pazzia, mania? No: nel delirio, nella mania, l’uomo è incitato o abitato da una potenza sovrannaturale, della quale percepisce la presenza. Qui, tutto è distacco, assenza. Vediamo Bellerofonte errare come nel vuoto, lontano dagli dèi, lontano dagli uomini, in un deserto senza fine.
Per liberarsi della sua «nera» pena, il malinconico ha la sola risorsa di attendere o di accattivarsi nuovamente la benevolenza divina. Prima che possa rivolgere la parola agli uomini, una divinità deve restituirgli il favore di cui è stato privato. Occorre che cessi la situazione di abbandono. La volontà degli dèi è, però, capricciosa…
Ma Omero è anche il primo a evocare la potenza del medicamento, del phármakon. Mescolanza di erbe egiziane, segreto di regine, il nepenthés assopisce le sofferenze e placa i morsi della bile. È giusto che sia Elena, per il cui amore gli uomini sono pronti a dimenticare ogni cosa, a detenere il privilegio di dispensare la pozione dell’oblio: questa attenuerà il rimpianto, disseccherà per un po’ le lacrime, ispirerà l’accettazione rassegnata dei decreti imprevedibili degli dèi. E proprio nell’Odissea (canto IV, vv. 219 sgg.), poema dell’eroe ingegnoso e delle sue mille risorse, si doveva veder apparire questo meraviglioso artificio grazie al quale l’uomo attutisce i tormenti che ne accompagnano il destino violento e la tempestosa condizione.
Se dunque Omero ci offre un’immagine mitica della malinconia secondo cui l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua disgrazia agli occhi degli dèi, ci propone anche l’esempio di una mitigazione farmaceutica della pena, che nulla deve al loro intervento: una tecnica tutta umana (accompagnata con ogni probabilità da qualche rito) trasceglie le piante, spreme, mescola, decanta i loro principî al contempo tossici e benefici. Sicuramente la bellissima mano che largirà la bevanda accrescerà l’efficacia della droga, già di per sé ricca di malia. La pena di Bellerofonte ha origine nel consesso degli dèi, ma gli stipi di Elena contengono il rimedio.
2. Gli scritti ippocratici.
«Se paura e tristezza durano a lungo, ciò significa malinconia»5. Ecco dunque apparire la bile nera, la sostanza spessa, corrodente, tenebrosa che costituisce il senso letterale di «malinconia». È un umore naturale del corpo, come il sangue, come la bile gialla, come la pituita. E allo stesso modo degli altri umori, essa può sovrabbondare, spostarsi dalla sua sede naturale, infiammarsi, corrompersi. Ne deriveranno diverse malattie: epilessia, pazzia furiosa (mania), tristezza, lesioni cutanee, ecc. Lo stato che noi oggi chiamiamo malinconia non è che una delle molteplici espressioni del potere patogeno della bile nera, mentre il suo eccesso o la sua alterazione qualitativa compromettono l’isonomia (l’equilibrio armonioso) degli umori6.
È verosimile che l’osservazione di vomiti o feci nere abbia suggerito ai medici greci l’idea di trovarsi di fronte a un umore altrettanto fondamentale degli altri tre. Il colore scuro della milza, con facile associazione, ha permesso loro di supporre che questo organo fosse la sede naturale della bile nera7...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'inchiostro della malinconia
  3. Premessa di Jean Starobinski
  4. Fonti
  5. Avvertenza dell’autore
  6. Avvertenza del traduttore
  7. L’inchiostro della malinconia
  8. Storia del trattamento della malinconia
  9. L’anatomia della malinconia
  10. La lezione della nostalgia
  11. Nell’ironia, la salvezza?
  12. Sogno e immortalità malinconica
  13. L’inchiostro della malinconia
  14. L’esperienza malinconica nello sguardo della critica di Fernando Vidal
  15. L’autore
  16. Elenco dei nomi
  17. Il libro
  18. L’autore
  19. Dello stesso autore
  20. Copyright