Hitch 22
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Hitch 22

Le mie memorie

  1. 568 pagine
  2. Italian
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Hitch 22

Le mie memorie

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Le memorie pubbliche e private di uno dei piú grandi intellettuali a cavallo tra due millenni. Le battaglie, le provocazioni, le cause perse, le invettive di un «bastian contrario» la cui autobiografia è la storia di mezzo secolo di Storia. Questo libro è l'occasione per ripercorrere, in una galoppata affascinante, alcuni dei capitoli piú intensi e decisivi della storia contemporanea, partendo dalle proteste degli anni Sessanta e Settanta, passando per la caduta del muro di Berlino e il crollo delle ideologie, per approdare agli scenari successivi all'11 settembre, quando Hitchens attaccò i terroristi islamici.
Nemico giurato di ogni fondamentalismo religioso, Hitchens ha attraversato gli ultimi quarant'anni di storia delle idee a passo di carica, disseminando il suo percorso di critiche feroci a tutti gli ismi sopravvissuti all'èra delle ideologie, ma anche di saggi illuminanti sul rapporto tra potere e religione, e sull'importanza fondamentale della critica e del dissenso.
In questo monumentale memoir, che si affianca alle piú celebri e classiche autobiografie anglosassoni, Hitchens si scopre non solo saggista, ma anche narratore di razza. Tra aneddoti e ritratti al vetriolo di celebri personalità del mondo politico e culturale, da Henry Kissinger a Madre Teresa, da Martin Amis a Noam Chomsky, l'autore riversa in questo libro una quantità di materiali, idee, storie personali e collettive che si incontra, forse, soltanto nei grandi romanzieri dell'Ottocento. *** «La miracolosa fluidità della sua prosa non lo abbandonava mai, il suo impegno era appassionato. È rimasto sempre fedele al suo mestiere. Uno scrittore consumato, un amico brillante. Come nella celebre frase di Walter Pater, arso "in quella dura fiamma, simile a una gemma". Fino alla fine». Ian McEwan *** «Addio, amico carissimo. Una grande voce si spegne. Un grande cuore si ferma». Salman Rushdie

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409886

Hitch 22

per James Fenton

Prologo con premonizioni

Cos’ha in comune l’Inghilterra del 1940 con l’Inghilterra del 1840? Del resto, cos’avete in comune col bambino di cinque anni che appare nella fotografia che vostra madre tiene sul caminetto? Niente, tranne che per caso siete la stessa persona.
GEORGE ORWELL, England your England:
Socialism and the English Genius
(1941)
Leggere il proprio annuncio mortuario dice che allunga la vita. Ti fa riprendere fiato. Nuova erogazione di vita.
JAMES JOYCE in Ulisse («Leopold Bloom»)
Di fronte a me ho una bella edizione di «Face to Face», l’elegante rivista che arriva agli amici della London’s National Portrait Gallery. Contiene le solite notizie di eventi in allestimento e di esposizioni. A catturare e trattenere il mio sguardo è la pagina che illustra una mostra che verrà inaugurata il 10 gennaio 2009, dedicata a Martin Amis and Friends. Presenterà l’opera di una fotografa di talento, Angela Gorgas, che fu l’amante di Martin tra il 1977 e il 1979. Sulla pagina c’è un’istantanea scattata a Parigi nel 1979. Da sinistra a destra, vi compariamo io, James Fenton e Martin, schierati lungo una balaustra che domina Parigi. Ricordo molto bene l’occasione: era dopo un buon pranzetto da qualche parte a Montmartre e stavamo probabilmente guardando, oltre le armoniose spalle di Angela, l’orribile architettura, in stile torta nuziale, del Sacré-Coeur. (Forse questo spiega l’espressione lievemente dispeptica del mio volto). Nella didascalia c’è questa frase, evidentemente scritta da Angela, che si riferisce al suo primo incontro col seducente Amis:
Martin era il direttore letterario del «New Statesman». Lavorava col defunto Christopher Hitchens e con Julian Barnes, che era sposato con Pat Kavanagh, all’epoca agente letteraria di Martin.
Cosí sulla pagina fredda c’è la semplice frase disadorna che un giorno diventerà indiscutibilmente vera. Non è dato a tutti di leggere della propria morte, figurarsi poi se annunciata in modo tanto secco. Mentre scrivo, negli ultimi mesi del 2008, dopo aver appena ricevuto un simile memento dal futuro, il futuro prevede ancora l’apertura di questa mostra e la pubblicazione di queste memorie. Ma la mostra, e i riferimenti presenti nel suo catalogo, palesano elementi ancora vivi del mio passato. E ora, con un salto piuttosto brusco:
Tra l’idea
E la realtà
Tra il movimento
E l’atto
Cade l’Ombra .
Gli «uomini vuoti» di T. S. Eliot non sono la mia coorte, o cosí spero, anche se qualche volta si potrebbe desiderare di essere tra gli stoici «che sono penetrati, con lo sguardo diritto, nell’altro Regno della morte». Il fatto è che qualsiasi tentativo di immaginare la propria estinzione è futile per definizione. Si possono solo dipingere i tratti banali dell’evento: nel mio caso non i dolenti al mio funerale (esclusi ancora una volta dalle regole stesse della partita), ma il costante tonfo delle e-mail nella cartella della posta in arrivo il giorno del mio decesso, e anche il congestionamento della mia casella postale, finché qualcuno non farà qualcosa per arrestare la robotica stupidità elettronica o finché l’inadempienza nei pagamenti non porterà a un improvviso annullamento di conti, assegni e solleciti, nessuno dei quali in tutta la mia vita è arrivato in giusta misura nel giorno giusto. (Magari ottengo un abbonamento perpetuo a «Face to Face», e questo andrà avanti per sempre, o dovrei dire per l’eternità?)
Il direttore della National Portrait Gallery, l’ottimo Sandy Nairne, mi ha scritto una lettera angosciata in cui non solo si scusa per avermi fatto morire, ma cerca di fornirmi spiegazioni e scuse. «La mostra, – scrive, – include una fotografia di Pat Kavanagh con Kingsley Amis. Un cambiamento dell’ultimo minuto introdotto nel testo e questo invece di recitare “la defunta Pat Kavanagh” ha finito col riferirsi a te».
Questa missiva che voleva essere gentile rende le cose ancora piú struggenti e misteriose. Ho appena aperto una lettera del marito di Pat Kavanagh, Julian Barnes, in cui mi ringrazia per il mio biglietto di condoglianze per l’improvvisa morte della moglie, dovuta a un cancro al cervello. Mi ero anche congratulato per il vasto successo critico delle sue recenti meditazioni sulla morte, sardonicamente intitolate Nothing to Be Frightened Of («Niente di cui aver paura»), che costituiva un’ampia riflessione su quel «paese incognito». Nella mia lettera a Julian, lo avevo lodato per la sua posizione di equilibrio tra Lucrezio da un canto, secondo il quale dal momento che non saprai di essere morto non devi temere la condizione della morte, e Philip Larkin, dall’altro, il quale nella sua immortale Aubade osserva che questa è proprio la cosa che ci fa – e deve farci – paura della condizione postmortem (il corsivo è mio):
La sicura estinzione verso cui siamo in viaggio
E nella quale saremo perduti per sempre. Non essere qui
Non essere altrove,
E presto; nulla di piú terribile, nulla di piú vero…
E il capzioso sciocco argomento per cui nessun essere razionale
Può temere qualcosa che non può sentire, non capendo
Che è proprio questo quel che temiamo…
Cosí quelle parole trasposte, «il defunto», che concernevano per la redazione l’adorata moglie di Julian ma che poi furono attribuite a me, sono state allo stesso tempo una piccola e una grande avventura. Quando per la prima volta ho vagheggiato l’idea di buttare giú un po’ di ricordi, avevo le consuete riserve sul fatto che fosse troppo «presto» per un quadro d’insieme. Niente dissolve piú rapidamente questa mescolanza di falsa modestia e di reticenza naturale come la ruvida presa di coscienza che il progetto potrebbe essere messo fuori causa in qualsiasi momento per essere stato intrapreso troppo «tardi».
Ma siamo tutti «morti in licenza», come disse Eugen Levine durante il processo subito a Monaco – dopo la controrivoluzione del maggio 1919 – per la sua attività rivoluzionaria. Ci sono ancora individui, particolarmente in India per qualche ragione, che si guadagnano da vivere esigendo un canone fondiario dai defunti. Da Gogoľ a Google; se si fa una ricerca sulla confraternita di coloro che in vita hanno letto del loro decesso, ci si imbatte nell’umoristica reazione di Mark Twain, il quale, come si sa, dichiarò che la notizia era un’esagerazione, per arrivare a Ernest Hemingway, il cui biografo ci racconta di come leggesse ogni mattina i necrologi bevendo una coppa di champagne, e al nazionalista nero Marcus Garvey il quale, secondo alcune versioni, fu abbattuto da un ictus mentre leggeva la notizia della propria morte. Robert Graves visse gagliardamente per almeno settant’anni dopo essere stato dichiarato morto alla Somme. Bob Hope per ben due volte fu dato per deceduto dai mezzi di informazione: la seconda volta fui chiamato da un’emittente per confermare o smentire la notizia e adesso vorrei non aver detto con tanta disinvoltura, dopo averlo appena visto di sfuggita all’ambasciata britannica a Washington, che l’ultima volta che lo avevo incontrato sembrava sicuramente abbastanza morto. Paul McCartney, papa Giovanni Paolo, Harold Pinter, Gabriel García Márquez… l’albo d’onore e dell’imbarazzo continua, ma c’è un caso straordinario che non è solo bizzarro. Alfred Nobel, celebre fabbricante di esplosivi, fu tanto sconvolto, a quanto si dice, dalla taccia di «mercante di morte» che accompagnava una serie di notizie false sul suo decesso, da voler ribaltare tale immagine finanziando un premio per la pace e per i servizi resi all’umanità (finora, aggiungerei, rivelatosi una grande scocciatura e una vera e propria truffa). «Finché non avrete fatto qualcosa per l’umanità, – disse il grande educatore americano Horace Mann, – dovreste vergognarvi di morire». Ebbene, come superare la prova?
In qualche modo, la fotografia di me con Martin e James è «del defunto Christopher Hitchens». In ogni caso, è di qualcun altro, o di qualcuno che non esiste davvero piú nella stessa forma corporea. Le cellule e le molecole del mio corpo e del mio cervello non sono piú quelle o si sono ridotte di numero (nel secondo caso). Il giovane relativamente snello con l’occhio rivolto al futuro si è trasformato in una persona piuttosto corpulenta, mestamente ma rassegnatamente consapevole che ogni giorno rappresenta l’ulteriore erosione di un sempre meno. Mentre scrivo queste parole, ho esattamente due volte l’età del ragazzo nella fotografia. Lo sporadico piacere degli anni che avanzano – quello di guardare indietro e riflettere su quanto lontano si è arrivati – è presto ridimensionato dal pensiero immediatamente successivo di quanto poco tempo sia rimasto da percorrere. Ho sempre saputo di essere nato per perdere, ma adesso lo «so» in modo piú obiettivo e piú soggettivo di allora. Quando quell’otturatore scattò a Parigi, lavoravo per il rovesciamento del capitalismo, e ci speravo. Mentre inizio a buttare giú questo libro – dopo aver ottenuto dal capitalismo qualcosa di piú di quanto mi fossi mai aspettato – i mercati finanziari sono appena crollati, piú o meno nel giorno esatto in cui ho compiuto cinquantanove anni e mezzo e ho quindi raggiunto i requisiti per utilizzare il mio «fondo pensione» gestito da Wall Street. Il mio vecchio marxismo ha fatto nuovamente capolino quando ho considerato il «lavoro morto» accumulato in quel deposito: l’ho visto dissipato in una vittoria del capitale finanziario sul capitale industriale, ho rilevato la vecchia dicotomia tra valore d’uso e valore di scambio, e sono stato di nuovo testimone della vittoria di quei monopolisti che «fanno» denaro su quelli che semplicemente possono guadagnarselo. È decisamente interessante essere contabilmente estinto proprio nell’ultimo quarto dell’anno che mi ha visto anche «cancellato» nel piú estetico e letterario dei modi.
Sono ora in possesso di un’altra immagine fotografica della medesima visita a Parigi, che si rivela essere qualcosa di piú di una suggestione proustiana. Scattata da Martin Amis, mi mostra insieme alla ravissante Angela all’esterno di una pasticceria che sembra essere assai vicina a rue Mouffetard, oggetto di lode nella prima pagina di Festa mobile (o forse la confezione di pasticcini che ho in mano contiene una madeleine). Ancora una volta, la persona mostrata è diversa da me. E fino a poco tempo fa non sarei stato in grado di notarlo, ma adesso vedo molto chiaramente ciò che mia moglie coglie non appena gliela mostro. «Assomigli, – mi dice dopo una pausa, – tutto a tua figlia». E cosí è, o piuttosto, per essere giusto, cosí adesso lei sembra essere. L’osservazione immediatamente successiva è di nuovo piú evidente all’osservatore che a me. «Ma quella che hai veramente, – dice, dopo una pausa, – è un’aria da ebreo». E davvero lo sono in qualche modo – anche se il concetto di «aspetto da ebreo» mi dà un po’ fastidio – come spiegherò. (Spiegherò anche come mai il ragazzo nell’inquadratura non sa della sua origine ebraica). Tutto ciò è anche un segno premonitore della mortalità, perché niente ricorda a un individuo la sua fine piú del crescere dei figli, ai quali deve essere fatto spazio, e che sono, bisogna dire, la sola traccia di una sia pur vaga speranza di immortalità.
Eppure sono ancora qui e deciso a trascinarmi avanti. Dei molti visi un tempo belli e avvenenti presenti nel catalogo un numero impressionante appartiene ad amici che non sono piú (il meraviglioso illustratore e vignettista Mark Boxer, l’affascinante ma fragile Amschel Rothschild, l’amabile fannullone mondano – e fratellastro della principessa Diana – Adam Shand-Kydd) che sono morti ben prima di aver raggiunto la mia età attuale. Di alcune altre dipartite non mi sono giunte notizie. «Non avevo pensato che la morte ne avesse disfatti tanti». Nel corso della mia carriera, sono riuscito ad affrontare quasi ogni compito possa essere richiesto a un giornalista prezzolato: dall’operare come corrispondente estero dilettante, al fare il critico cinematografico di rimpiazzo fino a redigere, col fiato sul collo, editoriali polemici. Tuttavia forse ho fatto un uso scorretto della parola «affrontare», perché ci sono stati due compiti fuori della mia portata: coprire un evento sportivo e scrivere il necrologio di una persona ancora in vita. La prima incapacità è dovuta al mio totale disinteresse per lo sport, e la seconda è dovuta al fatto – malgrado la mia ferma convinzione di non essere superstizioso – che non posso, neppure per denaro pronta cassa, scrivere sul decesso di un amico o di un collega finché la nottola di Minerva non abbia preso il volo e io non sappia che il buio sia davvero sopravvenuto. Suppongo che qualcuno, da qualche parte, abbia già scritto la notizia provvisoria della mia morte. (Stephen Spender si trovava con W. H. Auden quando quest’ultimo ricevette un invito dal «Times» a scrivere il necrologio di Spender. Gliene fece cenno a colazione, chiedendo con fare scanzonato: «Cosa ti piacerebbe fosse detto?» Spender pensò che non fosse il momento giusto per dire a Auden che ne aveva già scritto il necrologio per il medesimo direttore del medesimo giornale). Svariati capiservizio addetti a tale incombenza in vari momenti mi hanno implorato di fare lo stesso per Edward Saïd e Norman Mailer e Gore Vidal – per fare qualche nome di quelli che torneranno se rimarrete con me – e sempre ho dovuto rifiutare. E adesso eccomi a costruire un ponte se non dalla metà del fiume, quanto meno a una qualche distanza dalla riva estrema.
I giornali di oggi riportano la notizia della morte di Edwin Shneidman, che ha speso tutta la vita nello studio e nella prevenzione del suicidio. Si riferiva a se stesso come a un «tanatologo». Il necrologio, che è zeppo della pseudoironia tanto amata dalla professione ormai quasi moribonda del giornalismo quotidiano su carta, si chiude dicendo: «“Morire è una cosa, forse l’unica nella vita, che non tocca a voi fare, – ha scritto una volta Schneidman. – Cercate di trattenervi abbastanza a lungo e la cosa sarà fatta per conto vostro”». Un piú raffinato estensore di necrologi avrebbe potuto notare il legame con una nota improvvisazione burlesca di Kingsley Amis:
Della morte si può dire questo:
Non c’è bisogno di alzarsi dal letto.
Ovunque siate
Ve la portano a domicilio – gratis.
Eppure non riesco a unirmi a questo ammirevole fatalismo. Per quanto mi riguarda voglio «vivere» la morte attivamente e non passivamente, e intendo essere lí per guardarla negli occhi ed essere impegnato in qualcosa nel momento in cui giungerà per me.
Scorrendo la lista di tutti i suoi amici ghermiti uno dopo l’altro dalla falciatrice, il grande bardo scozzese William Dunbar scrisse il suo Lament for the Makaris («Lamento per i poeti») all’inizio del sedicesimo secolo, terminando ogni strofa con le parole: «Timor Mortis conturbat me». È un ritornello pressoché liturgico – «il timore della morte mi turba» – e non mi fiderei di chi non avesse provato qualcosa del genere. Eppure immagino come diventerebbe disgustosa la vita, e quanto rapidamente, se ci venisse detto che non ha fine… Tanto per cominciare, c’è un motivo per cui avrei dovuto astenermi dal buttare giú questi ricordi. Essi includono anche racconti delle tante volte in cui avrei potuto morire, andandoci molto vicino.
La menzione di qualcuno dei nomi precedenti mi fa chiedere se, senza essermene reso conto all’epoca, non sia diventato retrospettivamente parte di un «ambiente» letterario o intellettuale. La risposta sembra essere sí, e cosí prometto di dire qualcosa su come tali «ambienti» non si formino deliberatamente né siano costruiti ma, come disse Oscar Wilde della disposizione dei paraventi, «semplicemente accadono».
Giano era il nome dato dai romani al nume tutelare che proteggeva le soglie e che pertanto doveva guardare nelle due direzioni. Le porte dei templi a lui dedicati erano tenute aperte in tempo di guerra, l’epoca in cui dominano piú naturalmente le idee di contraddizione e di conflitto. Le guerre piú intense sono quelle civili, proprio come i piú vivi e laceranti conflitti personali sono quelli interiori, e ciò che io spero di fare adesso è dare un’idea di ciò che significa combattere su due fronti contemporaneamente, cercare e mantenere vive idee opposte nella stessa mente, anche per mostrare qualche volta due aspetti nello stesso tempo.

Yvonne

C’è sempre un momento nell’infanzia in cui la porta si apre e fa entrare il futuro…
GRAHAM GREENE, Il potere e la gloria
Qualcosa devo al suolo che mi crebbe…
E piú alla vita che mi sostentò…
Ma piú ad Allah, che due distinti lati
Al capo mio assegnò.
RUDYARD KIPLING, Kim
Naturalmente non credo che sia «Allah» a determinare queste cose. (Salman Rushdie, commentando il mio libro Dio non è grande, osservò piuttosto causticamente che il principale problema del titolo era la sua mancanza di economia: in altre parole era esattamente troppo lungo di una parola).
Ma qualunque possa essere la propria ontologia, si sarà sempre tentati di credere che ogni cosa debba avere una causa prima o, se non qualcosa di tanto grandioso, almeno un inizio definito. E su questo punto non ho incertezze o indecisioni. Ho qualche idea di come cominciai a trovarmi immedesimato in due modi di pensare diversi. Per quanto mi riguarda, la cosa comincia cosí:
Sono in piedi su un traghetto che sta attraversando una baia d’incanto. Da allora ho imparato molte versioni e varianti della parola «azzurro», ma lasciatemi dire che uno splendido sole, anche se un po’ accecante, illumina una volta del cielo cerulea e un mare turchino e disegna anche il modo in cui queste due distese entrano in collisione e si riflettono reciprocamente. La risultante sfumatura di verde è in netto contrasto con la vegetazione sulle pendici delle colline e produce una combinazione piuttosto vivida allorché, insieme a quei diversi seppur mescolati azzurri, colpisce gli edifici bianchi che si spingono fino al bordo del mare. Come un lampo di dramma e bellezza, di marina e paesaggio, è un ricordo inaugurale bello quanto lo si potrebbe desiderare.
Dato che questa piccola crociera avviene verso il 1952 e io sono nato nel 1949, non ho mezzi per sapere che si tratta del Grand Harbour della Valletta, capitale della minuscola isolastato di Malta e una delle piú belle città europee caratterizzate da uno stile tra rinascimentale e barocco. Gioiello incastonato nel mare tra Sicilia e Libia, è stata per secoli un luogo bifronte tra mondo cristiano e mondo musulmano. La sua popolazione è cosí schiacciantemente cattolico-romana che all’interno della cinta muraria c’è una pletora di chiese riccamente ornate: in particolare, la cattedrale vanta tele ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Hitch 22
  3. Prefazione all’edizione tascabile originale
  4. Hitch 22
  5. Ringraziamenti
  6. Nota del traduttore
  7. Elenco dei nomi e delle cose notevoli
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright