Pensiero vivente
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Pensiero vivente

Origine e attualità della filosofia italiana

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Origine e attualità della filosofia italiana

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Diversamente da altre culture filosofiche, caratterizzate dall'indagine sul soggetto o dalla teoria della conoscenza, dall'analisi del linguaggio o dalla decostruzione ermeneutica, essa appare fin dall'inizio estroflessa sul suo esterno, esposta ai conflitti e ai traumi dell'esperienza mondana. Al suo centro, eccedente rispetto a ogni definizione presupposta, si dispiega la categoria di vita, in una relazione sempre tesa e problematica con quelle di politica e di storia. È proprio questa materia densa e opaca, difficilmente riducibile all'ordine formale della rappresentazione, a spingere il pensiero italiano in una sintonia profonda con i tratti costitutivi del nostro tempo. Antagonismo e immanenza, origine e attualità, comunità e biopolitica, interrogate nella loro genesi concettuale e impresse nel cuore della contemporaneità, sono le polarità intorno alle quali, in un confronto serrato con i maggiori filosofi italiani, si snoda il percorso teoretico originale e avvincente di uno dei protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858411186

Capitolo quinto

Il ritorno della filosofia italiana

Immanenza e antagonismo.
1. La morte violenta di Gentile e Gramsci, insieme al progressivo inaridimento del pensiero di Croce, segnano una soglia al di là della quale la filosofia italiana novecentesca sperimenta una netta inversione di tendenza. A rivelarsi esaurito – piú che i singoli contenuti di pensiero, ripresi e a volte proficuamente sviluppati da allievi ed eredi – è l’impianto complessivo della loro proposta filosofica. Nonostante il fatto che, almeno nel caso di Gramsci, ma per certi versi dello stesso Gentile, essa arrivasse a lambire il confine esterno della tradizione moderna, finiva per riprodurne un tratto caratteristico che abbiamo definito, nei suoi termini piú generali, ‘teologico-politico’. Senza poterci dilungare sulla polivalenza semantica del termine, si può con esso intendere la riconduzione presupposta dei diversi punti di vista a un’unica prospettiva apparentemente fornita di validità universale. Che essa si incarnasse nell’etico-politico di Croce, nello Stato in interiore homine di Gentile o nel partito-chiesa di Gramsci, la molteplicità dei linguaggi e la pluralità degli interessi veniva preventivamente unificata, e cosí neutralizzata, in una sintesi a priori che non lasciava spazio alla differenza e al conflitto. È come se la rappresentazione politica, per potersi configurare, dovesse escludere dal quadro tutti i contrasti ad essa irriducibili perché non componibili all’interno del suo modello normativo.
È contro, o almeno al di fuori di questa sintesi rappresentativa che, dopo una stagione di complessivo ripiegamento, il pensiero italiano sembra rinnovarsi radicalmente, ritrovando piú di un tratto della propria ispirazione originaria. Il libro pubblicato nel 1966 da Mario Tronti con il titolo Operai e capitale ne fornisce un primo, pregnante, riscontro. Esso va storicamente situato nello scontro politico aperto, fin dagli anni Sessanta, all’interno della sinistra comunista, presto divisa tra coloro che si riconoscevano nel Pci e coloro che, rimasti al suo esterno, dettero successivamente vita a riviste come «Quaderni rossi», «Classe operaia» e «Contropiano»107. Ma, senza trascurare il significato storico-politico di questa vicenda, poi rubricata sotto la voce trasversale di ‘operaismo’, il rilievo specificamente filosofico della dialettica tra capitale e classe operaia proposta da Tronti sta nel rapporto problematico, e anzi costitutivamente antinomico, tra linguaggio del conflitto e logica dell’immanenza. La questione da lui posta – in una forma che rimanda implicitamente al paradigma machiavelliano di un ordine conflittuale – è quella della separazione violenta di qualcosa, nella fattispecie la classe operaia, dall’orizzonte storico che soltanto può renderla tale. Come pensare l’autonomia di una classe che inerisce necessariamente alla società capitalistica? E, prima ancora, cosa può essere un antagonismo immanente, interno a ciò da cui intende separarsi? Oppure un’immanenza antagonistica, spaccata in due fronti contrapposti? L’autore prende le mosse dalla rottura del modello sintetico, e appunto teologico-politico, entro il quale la tradizione gramsciana aveva chiuso la dialettica tra capitale e lavoro. Contro l’idea che la classe operaia, in forza di un comune interesse nazionale, dovesse condividere con quella borghese la responsabilità dello sviluppo sociale, Tronti dichiara fin dall’inizio la necessità di una decisione intesa nel senso etimologico di ‘partizione’ – di contrapposizione della parte al tutto che la comprende: «La possibilità, la capacità della sintesi è rimasta tutta in mano operaia. Per una ragione facile da capire. Perché la sintesi può essere oggi solo unilaterale, può essere solo consapevolmente scienza di classe, di una classe. Sulla base del capitale, il tutto può essere compreso solo dalla parte. La conoscenza è legata alla lotta»1.
Mentre il capitale ha tutto l’interesse a rappresentare la classe come parte integrante del proprio meccanismo di valorizzazione, essa non può acquistare consistenza politica che separandosi dal proprio antagonista. In questo senso il criterio schmittiano del primato ontologico del nemico rispetto all’amico viene rafforzato dal principio machiavelliano della differenza prospettica tra i due punti di vista, nobiliare e popolare, che, rispettivamente dall’alto e dal basso, s’incrociano contrastivamente sullo stesso oggetto. L’oggetto è costituito dal contrasto focale di due sguardi contrapposti, l’uno teso a integrare, e cosí annullare, l’altro. Non esiste – come, a differenza di Machiavelli, voleva Hobbes e in genere la concezione moderna – una scienza neutrale, una metodologia generale, da cui ricavare deduttivamente modelli di comportamento. È, al contrario, la scelta politica di parte, fatta in condizione di alterna ‘fortuna’, e cioè di continua contingenza, a determinare a ritroso anche le coordinate della teoria che la riconosce. Se la soggettività non è data in anticipo, ma creata dall’alterità che le si contrappone, l’unico modo, per la classe operaia, di definirsi tale è il rovesciamento del punto di vista sintetico di chi ne nega l’autonomia. Da qui quella ‘rivoluzione copernicana’, teorizzata da Tronti già nel primo numero di «Classe operaia», che consiste nel rifiutare la prospettiva dell’avversario ristabilendo il primato, logico e storico, della classe operaia sul capitale. Non solo il lavoro vivo, ma anche la lotta di coloro che lo erogano, precede l’accumulazione capitalistica e la determina. Come avrebbe poi detto Foucault, se il potere produce resistenza, la resistenza, a sua volta, anticipa e riproduce il potere. È proprio quanto cerca di pensare Tronti – la resistenza prima e all’interno del potere. In realtà anche il capitale assume come dato di fatto inevitabile l’antagonismo operaio ma, cercando di chiuderlo entro la sfera dell’economico, lo rende dialetticamente funzionale alla propria innovazione tecnologica. Di contro la classe operaia deve spezzare questa dialettica, duplicando politicamente l’antagonismo oggettivo, e cioè trasferirlo dal livello economico a quello politico. Mentre il capitale deve unificare il due in uno, la classe deve rompere l’uno in due – scindere ciò che si presenta unito. Se quello offre, di volta in volta, condizioni di pace, anche assumendone in proprio il costo sociale, la classe antagonistica, per riconoscersi tale, deve rifiutarle, sottraendosi alla negoziazione portata avanti dal proprio partito o sindacato. È la guerra, non la pace, la categoria politica della classe operaia. Perciò essa deve respingere anche la rappresentazione del ‘popolo sovrano’, titolare della volontà generale, dal momento che la volontà, come l’interesse, è sempre particolare, di parte, e mai del tutto. Il rischio maggiore non è lo sfruttamento, o l’alienazione, imposti dalla fabbrica – che, anzi, è il prerequisito della risposta rivoluzionaria –, bensí la neutralizzazione di un conflitto che deve restare sempre acceso nei confronti della controparte.
Ma il linguaggio del conflitto – ecco il muro contro cui batte la proposta di Tronti – è reso problematico, se non aporetico, dalla logica dell’immanenza che gli è presupposta. Egli, pur insistendo sulla contrapposizione tra classe operaia e capitale, non li interpreta come poli autonomi esteriori l’uno all’altro, ma come le due metà di uno stesso intero. Se «l’errore del vecchio massimalismo era di concepire questa contrapposizione, per cosí dire, dall’esterno […], la classe operaia deve scoprire materialmente se stessa come parte del capitale, se vuole contrapporre poi tutto il capitale a se stessa»2. Il problema, come è posto da Tronti, è quello del doppio rapporto tra tutto e parte, e tra rappresentazione e realtà. La classe operaia deve da un lato sfuggire alla rappresentazione che la vuole ridurre a semplice parte di un tutto che la ingloba. Ma dall’altro riconoscere che essa effettivamente lo è – che non è esterna, ma interna a ciò cui pure intende contrapporsi. Essendo generata dall’antagonismo, l’identità della classe non potrebbe sussistere fuori dai rapporti di produzione che la includono, dal momento che «una classe – da sola – non esiste. Non c’è classe senza lotta contro l’altra classe»3. Ciò vale, naturalmente, anche per il capitale, inimmaginabile senza la forza-lavoro che lo produce, ma con la differenza che, mentre esso deve conservare in vita il proprio ‘nemico interno’, migliorandone le prestazioni, questo, al contrario può, e deve, tentare di distruggere l’antagonista di classe. È questo il contrasto ultimo – come avrebbe detto lo Schmitt piú espressionista – «tra due classi che si danno reciprocamente la vita, ma di cui una sola tiene in pugno la morte dell’altra»4.
Ma come ciò è possibile? Come può, la classe operaia, debellare ciò che la tiene in vita senza produrre anche la propria morte? Come può, il suo antagonismo, scatenarsi al suo grado estremo senza spezzare il filo che la lega inesorabilmente al destino del suo avversario? Tronti è ben avvertito del problema – e per certi versi anche della sua irresolubilità: come ben sapeva già Machiavelli, oltre una certa soglia il conflitto finisce per far saltare l’inerenza tra i termini che contrappone; mentre questa, a sua volta, tende a spingerlo fuori dal quadro. L’immanenza minaccia di assorbire il conflitto e il conflitto di far saltare l’immanenza, nonostante che Tronti cerchi di pensarli insieme. E infatti egli da una parte sostiene che la classe operaia non debba ostacolare, ma semmai favorire, l’innovazione sociale, tecnologica e anche politica promossa dal capitale per superare produttivamente le sue crisi cicliche, dal momento che l’indebolimento di quello segnerebbe il suo stesso arretramento. Dall’altra, e nel medesimo tempo, che debba adoperare la propria forza economica come un’arma per forzare il quadro politico in cui è compressa. La classe deve essere, insomma, ‘dentro’ e ‘contro’ – per usare un’espressione che ancora oggi Tronti non ha abbandonato. Ma come tenere insieme ‘dentro’ e ‘contro’? Come può, un ‘dentro’, farsi anche ‘contro’? E come può, un ‘contro’, contrastare frontalmente ciò che lo costituisce? Già qui si profila l’esito antinomico dell’intera dinamica – e cioè il trasferimento della separazione dal rapporto tra capitale e classe, a quello tra la dimensione economica e la dimensione politica di quest’ultima. È come se, non potendo spingere a fondo la propria azione contrastiva nei confronti del sistema in cui è inserita, e da cui trae linfa vitale, la classe fosse costretta a introiettare la linea della divisione al proprio interno, dividendosi anche da se stessa. È proprio questa, infatti, la conclusione di Tronti, anche se presentata, con una curiosa inversione dialettica, come contraddizione del capitale: «Per lottare contro il capitale, la classe operaia deve lottare contro se stessa in quanto capitale. È il punto della massima contraddizione, non per gli operai, ma per i capitalisti […] La classe operaia, oggi, ha solo da guardare se stessa per distruggere il capitale. Deve riconoscersi come potenza politica. Deve negarsi come forza produttiva»5.
Qui la contraddizione investe l’intero discorso dell’autore, fino a rovesciarlo rispetto alle sue stesse premesse. Partito dall’esigenza marxiana di riconnettere l’agire politico alla sua matrice economica di classe – negata dalla «vecchia distinzione tra lotta economica e lotta politica […] su cui si è sempre orientato il riformismo»6 –, Tronti arriva a teorizzarne egli stesso la divaricazione, spostando progressivamente l’asse della soggettività politica dalla classe al partito: se la classe deve essere autonoma dal capitale, il partito deve farsi autonomo dalla classe. Ma cosí, nel piano di immanenza comincia a profilarsi un punto di trascendenza, destinato ad allargarsi fino a minarlo. Senza poter seguire l’autore lungo il controverso percorso che lo porterà, negli anni successivi, a ribaltare il rapporto di prevalenza tra classe e partito, attribuendo a quest’ultimo l’autonomia che un tempo assegnava alla prima, è evidente l’aporia strutturale in cui scivola il suo dispositivo teoretico. È come se i suoi due poli, logicamente contrapposti, del conflitto e dell’immanenza reagissero l’uno nei confronti dell’altro, finendo per annullarsi a vicenda. Se il criterio del conflitto destabilizza la logica dell’immanenza, questa, a sua volta, lo scarica tutto sul soggetto antagonistico, sottoposto a una serie di scissioni successive e concatenate: prima tra economia e politica e poi, all’interno di quest’ultima, tra classe e partito, ormai apertamente invitato a emanciparsi, sul piano della tecnica operativa, dalle richieste di quella7. Quasi che, a un certo momento, Tronti si rassegnasse a subire un dato apparentemente insormontabile: in una logica rigorosamente immanente, la separazione non può prodursi che all’interno di se stessa, raddoppiandosi infinitamente fino a implodere. Che in questo modo l’immanenza corra il rischio di cedere di fronte a una nuova trascendenza – che, cioè, la teologia politica, confutata dal lato del conflitto, ritorni a manifestarsi da quello del suo soggetto – è confermato oggi, a quaranta anni di distanza, dallo stesso autore di Operai e capitale: «La teologia politica nasce sul nodo della irresolubilità, nella dimensione della sola immanenza, del problema politico»8.
2. Il secondo paradigma influente del nuovo pensiero italiano sulla politica è costituito dalla riflessione sull’‘impolitico’. Il problema filosofico che esso traduce – quello di un negativo che, pur cercando di effettuarsi, non si configuri come un altro polo positivo – si inscrive in un orizzonte non estraneo alla questione, appena esaminata, del rapporto aporetico tra separazione e immanenza. Anche in questo caso, come già nella teoria del politico, il punto di partenza è costituito dal rifiuto della sintesi teologico-politica, intesa sia nel senso, cattolico, della rappresentazione del Bene da parte del potere, sia in quello, secolare, della rappresentanza unitaria di interessi differenti. In entrambi i casi, anche se in maniera diversa, a essere presupposta è quella traducibilità tra linguaggi differenti – della teologia, della politica, dell’economia – che aveva trovato il proprio compimento nella filosofia di Hegel. Nonostante la presenza di un resto intrattabile, costituito dalla ‘plebe’9, lo Stato hegeliano si presentava come l’esito di un processo logico-storico in cui gli opposti si riconoscono reciprocamente in una superiore unità. Contro simile presupposto, ‘pensiero negativo’ – nella teorizzazione avviata da Massimo Cacciari fin dall’inizio degli anni Settanta – è quello che appunto nega drasticamente tale possibilità10. Tutt’altro che tramite dialettico per una futura conciliazione, in questo caso, il ‘negativo’ va inteso come ciò che la dichiara assolutamente irrealizzabile. Come certificheranno prima Schopenhauer e Kierkegaard – in forma ancora parziale e contraddittoria – e poi, in maniera esaustiva, Nietzsche, quella simmetria si rivela del tutto impotente a rappresentare le dinamiche effettive che da tempo governano il mondo. Fin dall’avvento della modernità l’antico simbolo teologico giace spezzato in mille frammenti che non è piú possibile riunificare, se non in utopie sempre meno effettuali. Compito, o destino, del politico moderno, in tale situazione, non è quello, regressivo, ancora interpretato dalla tradizione socialista, di ritardare questa deriva ineluttabile, bensí di attraversarla rovesciandone in positivo le conseguenze dissolutive. Diversamente da quanto si crede, infatti, la crisi non segna né un arresto contingente dello sviluppo né il crollo definitivo del sistema, ma l’occasione per la sua riconversione produttiva funzionale a un nuovo ordine. In questo quadro analitico ‘l’autonomia del politico’, proposta ancora in modo provvisorio da Tronti, diventa, piú che un’opzione soggettiva, un dato oggettivo da assumere nella sua irreversibilità. Essa indica da un lato i limiti che circoscrivono l’ambito specialistico della politica, dis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pensiero vivente
  3. I. La differenza italiana
  4. Varco I. La vertigine dell’Umanesimo
  5. II. Potenza dell’origine
  6. Varco II. Nel vortice della Battaglia
  7. III. Filosofia/Vita
  8. Varco III. Inferno
  9. IV. Pensiero in atto
  10. Varco IV. L’insostenibile
  11. V. Il ritorno della filosofia italiana
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright