I riferimenti all’opera di Levi rinviano all’edizione Einaudi curata da Marco Belpoliti (Opere, 2 voll., Einaudi, Torino 1997). Ogni citazione è seguita da un rimando abbreviato all’opera originale, il numero del tomo e il numero di pagina: «Squ I, 113» sta per: «Se questo è un uomo, vol. I, p. 113».
Ap | Altre poesie |
OI | Ad ora incerta |
Ps | Pagine sparse (sezione di ognuno dei due volumi delle Opere che raccoglie testi di Levi mai apparsi in volume precedentemente) |
RR | La ricerca delle radici |
RS | Racconti e saggi |
Ses | I sommersi e i salvati |
Sp | Il sistema periodico |
Squ | Se questo è un uomo |
T | La tregua |
A scanso di equivoci, premetto che in questa occasione non parlerò di negazionismo. Non perché l’argomento sia trascurabile, ovviamente: è noto che per Primo Levi, negli ultimi anni della sua vita, tale fenomeno rappresentò una fonte di indignata, allarmata amarezza. Ponendo la domanda «Perché crediamo a Primo Levi?» cercherò invece di ragionare sul tipo di veridicità che noi conveniamo di attribuire agli scritti testimoniali di Primo Levi, e principalmente a Se questo è un uomo. Il quesito del titolo può essere scomposto in due aspetti o momenti, l’uno inerente all’oggetto, l’altro alla motivazione. Quando diciamo di credere a Primo Levi, di prestar fede alle sue parole, che cosa esattamente ci sentiamo impegnati a ritenere vero? E, in secondo luogo: quali sono le ragioni del nostro atteggiamento? Su che cosa si fonda il credito che noi gli concediamo?
Al termine della premessa in prosa di Se questo è un uomo – che la recente edizione Cavaglion finalmente ripristina nella posizione iniziale, cioè prima della poesia da cui è tratto il titolo del libro – Levi dichiara: «Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato»1. Questa poco appariscente preterizione si pone nel solco di un’usanza plurisecolare, tipica delle memorie. Tutti gli autobiografi, con maggiore o minore enfasi, proclamano che quanto stanno per raccontare corrisponde alla realtà; e i lettori, in prima istanza, prendono questa dichiarazione per buona. Naturalmente i piú avvertiti non mancano di riservarsi un beneficio d’inventario. Dire la verità non è mai semplice, anche quando si sia animati dalle migliori intenzioni. Dire tutta la verità è poi impossibile per principio (ne dovette prender atto assai per tempo il fondatore dell’autobiografismo moderno, Rousseau). Perfino dire nient’altro che la verità è meno facile di quanto sembri, anche quando non si nutra l’intenzione di mentire.
Nel caso dei reduci dal Lager, tuttavia, l’elementare prerequisito della volontà che le parole corrispondano ai fatti accaduti è complicato da un inquietante risvolto. Le esperienze estreme, oggetto della rievocazione memoriale, sono suscettibili di apparire, agli occhi stessi di chi scrive, irreali. Succede anche a Primo Levi, quando narra il colloquio con il dottor Pannwitz, nel capitolo Esame di chimica:
Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute2.
Se tanto non basta per inficiare l’attendibilità del resoconto, raccontare Auschwitz esige non di meno uno sforzo inaudito. La memoria e la coscienza del memorialista sono sottoposte a dura prova: a volte, come nel brano appena riportato, si sfiora il limite della rottura (qui Levi riesce a evitarlo ma, come ha notato Domenico Scarpa, dando fondo alla sua maestria nell’uso dei tempi verbali 3). La memoria ha un grado di elasticità e di plasticità piú o meno elevato a seconda dei soggetti, ma comunque non infinito. Nel caso del ricordo di esperienze estreme forse potremmo parlare, prendendo a prestito un vocabolo dalla geologia, di un rischio di clivaggio memoriale. Clivaggio è denominato un tipo di frattura che si può verificare in corrispondenza di un’interfaccia tra materiali diversi. Qui non si tratta di materiali, ma di tempi. Chiamato a connettere presente e passato – quel passato – il discorso è sottoposto a una sollecitazione del tutto inusuale: perciò s’incrina, rischia di cedere, di sfaldarsi.
Torniamo alla domanda posta in precedenza. Che cosa esattamente Levi ci chiede di ritenere vero? Il finale dello stesso capitolo, Esame di chimica, offre il destro per una considerazione, che spero non apparirà troppo cavillosa. Tutti ricordano la scena in cui il Kapò Alex, dopo essersi accidentalmente sporcato una mano su un cavo di acciaio, «senza odio e senza scherno», se la pulisce strofinandola sulla giacca del prigioniero 174 517:
sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque4.
Nessuno di noi dubita che tale episodio sia avvenuto davvero. Ma saremmo pronti a giurare che si è verificato proprio in quell’occasione? O meglio: è importante che si sia verificato proprio di ritorno dal colloquio con Pannwitz? Quale sarebbe la nostra reazione se venissimo a sapere – non chiedetemi come – che quel gesto era avvenuto il giorno prima o il giorno dopo? Io oso presumere che non ci importerebbe gran che. Certo (non occorre dirlo) l’ipotesi è del tutto teorica: il riscontro della testimonianza di Alex non solo non esiste, ma non può esistere, proprio perché si trattava di un gesto automatico. Quand’anche fosse stato identificato chi era in quei giorni il Kapò del Kommando 98, quand’anche egli venisse trovato, quand’anche egli si dichiarasse disposto a testimoniare, possiamo star certi che non avrebbe conservato memoria di quel dettaglio. Figuriamoci la data e l’ora.
Prendiamo un caso un po’ piú significativo: l’episodio narrato nel capitolo Il canto di Ulisse. Qui un minimo di controllo è possibile: il coprotagonista della scena, il compagno di squadra al quale Primo ha cercato di tradurre il canto XXVI dell’Inferno durante la corvée della zuppa, è sopravvissuto e, sia pure dopo 32 anni di silenzio, ha a sua volta rilasciato qualche testimonianza. Jean Samuel (tale il vero nome del “Pikolo” di Se questo è un uomo) non ha mai smentito il racconto di Primo Levi, ma non ha saputo aggiungere alcunché; e dalle sue dichiarazioni pubbliche emerge abbastanza chiaramente che di quell’avvenimento ricordava poco. Ricordava bene altre cose, invece, come il progetto di una storia che doveva avere per protagonista un atomo di carbonio: «Que devient le roman de l’atome de C, que je n’ai jamais oublié?» chiede nella lettera del 24 aprile 19465. A distanza di vent’anni, come sappiamo, diventerà il racconto che chiude il Sistema periodico. Per inciso, solo di recente è stato notato che il momento chiave dell’esistenza dell’atomo di carbonio, inglobato «da tempo immemorabile» in una roccia calcarea, comprende un forno e un camino, sia pur meno sinistri degli impianti di Birkenau (e non sfugga la disinvolta increspatura metanarrativa):
in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro arbitrio essere l’anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l’avvio verso il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano […] fermamente abbarbicato a due dei suoi compagni ossigeni di prima, uscí per il camino e prese la via dell’aria. La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa6.
Soprattutto, Jean si sovviene molto bene di un altro incontro, che Levi menziona senza dettagli: una conversazione durata una ventina di minuti mentre era in corso un allarme aereo, forse dentro una baracca in costruzione. Fu quello, per lui, il momento decisivo per l’avvio della loro amicizia.
Encore maintenant je m’interroge sur ce mystère de la mémoire: nous avons eu tous deux le sentiment d’une rencontre cruciale, inoubliable, mais elle ne se fondait pas sur les mêmes gestes, les mêmes paroles, les mêmes sensations7.
Una postilla. Altrove Jean ammette che Primo aveva una memoria migliore della sua, e non a torto. In una nota del suo libro, segnalando che il nome del caposquadra era Oscar e non Alex, chiosa: «Mes souvenirs et ceux de Primo Levi sur le Kapo du Kommando ne se rejoignaient pas. Le Kapo a de toute façon été changé au moins une fois pendant l’existence du Kommando de chimie»8. Ebbene, quello stesso volume riproduce la lettera di Primo Levi del 31 luglio 1961 che riporta i nomi dei componenti del Kommando 98 («un impressionante elenco prosopografico», commenta Cavaglion9); verso la fine troviamo «OSCAR, le Kapo, décrit comme “Alex” dans mon livre»10.
E tuttavia è un fatto che a proposito dell’amico Levi commette svariate inesattezze11. Non era vero che prima della deportazione Jean fosse stato in Liguria; non era vero che avesse visto il mare; aveva 22 anni e non 24 (per inciso, Levi sbaglia anche l’età di Henri, uno dei quattro casi di «salvati», al secolo Paul Steinberg, che nel 1944 aveva 18 anni e non 22). Inoltre, il termine “Pikolo” è un’invenzione di Levi; il vocabolo usato era “Pipel”, e la descrizione del ruolo come «fattorino-scritturale» è impropria. Gli aiuti dei Kapò, di norma adolescenti (c’erano anche dodicenni), fungevano «d’assistant, de bonne à tous faire, mais aussi de giton»12: circostanza quest’ultima risparmiata a Jean, considerato troppo vecchio13.
Imprecisioni involontarie, si obietterà; errori di informazione, sviste. Vero. E anche al netto delle défaillances memoriali di Jean, non sarebbe nemmeno un fatto cosí misterioso se ciascuno dei due reduci avesse conservato un ricordo piú vivido di un episodio piuttosto che di un altro. Diamo per scontato che Pikolo non aveva condiviso spiritualmente l’eccezionalità di quel momento: che si fosse limitato ad assistere, senza troppa emozione, all’impegno traduttorio dell’amico («Je revois Primo se concentrer, crispé dans l’effort qu’il faisait pour restituer le texte avec exactitude»14). Ma proviamo a immaginarci che la scena si sia svolta in maniera leggermente diversa. Immaginiamo che non solo Jean non abbia afferrato allora il senso dell’episodio dantesco, ma che Primo a un certo punto abbia desistito dall’impresa; o che non sia riuscito ad arrivare alla fine; ovvero che, prima di raggiungere le cucine, ci sia stato tempo per parlare di faccende piú banali e prosaiche. Il canto di Ulisse è senza dubbio una delle pagine piú alte della letteratura italiana del Novecento, e una testimonianza eccezionalmente persuasiva dell’energia che può sprigionare, anche a distanza di secoli, la poesia dantesca. Ma siamo proprio tenuti a credere che l’ultimo, sublime verso di Inferno XXVI («infin che ’l mar fu sovra noi richiuso»)15 sia risuonato in quel desolato lembo dell’Alta Slesia mischiandosi insieme alle rudi voci che annunciavano in tedesco francese polacco la zuppa del giorno? No, naturalmente. Né è questo – mi pare – che Levi ci chiede. Il suo racconto ha una “verità” non riducibile alla mera corrispondenza con fatti tutto sommato banali.
Non vorrei che ci fossero equivoci. Parlo di banalità a proposito della natura dei fatti, non della corrispondenza tra i fatti e il discorso, che banale non è mai. La mia tesi è che il criterio di veridicità, in questo come in altri simili casi, non può essere costituito dalla conformità fra la rievocazione memoriale e un evento intrinsecamente informe, privo di forma, e per di piú non documentabile. Ciò che conta è il valore morale dell’esperienza, che non si dà mai tutto nell’hic et nunc (o meglio, nell’illic et tunc). In questo, come in parecchi altri casi, non bisogna pensare a un resoconto verbale teso a riprodurre una presunta oggettività dei fatti, bensí a un processo di costruzione di senso che muove dal vissuto e si...