Il nostro guscio di noce – Le strade del mare – Pregiudizio terricolo – Lirici libri di bordo – Razziatori e peregrini – Immrama – Isole di sogno – Zavorra di sassi – Storie di mare e astar mara – Una coffa a Stornoway – «Il modo in cui si parlano i modi di dire» – L’Hoil – La ricerca della velocità ottimale – Gli uomini azzurri del Minch – Nitide sagome – Cambio di marea – Un fruscio di pulcinelle – Fosforescenza – Vetro femico – L’insulomania e i limiti della conoscenza – Surfare – Una barca fatta di storie – L’assemblea dei materiali – Un viaggio a nord.
La vela su cui stavamo navigando in direzione sud era un guscio di noce di un secolo fa. La prima volta che l’avevo vista era ormeggiata di fianco ad altre tre imbarcazioni nel porto di Stornoway, sull’isola di Lewis, nelle Ebridi esterne. Accostato alla banchina arrugginiva un vecchio motopeschereccio in disarmo, lo scafo assicurato a gomenette larghe un braccio. Ormeggiato contro un bordo del peschereccio c’era uno yacht bianco dentifricio di quindici metri. A fianco dello yacht, un cabinato di dieci metri dalla prua affilata e con le tavole di tek del ponte scolorite. E a fianco del cabinato c’era la nostra barchetta, il suo unico albero disarmato, la vela color terracotta ripiegata a fisarmonica lungo i banchi: da poppa a prua misurava meno di tre uomini sdraiati in fila testa-piedi.
Sembrava un dinghy, o un barchino per andare a pesca, ma in realtà era la Broad Bay, una barca scoperta con chiglia a fasciame sovrapposto di larice scozzese. Le fiancate uscivano dall’acqua per sessanta centimetri appena, le mancavano due anni a compiere un secolo, e in due stavamo per metterle la prua a sud e farle attraversare il Minch, il profondo canale di mare che separa l’isola di Skye e le Ebridi esterne dalla terraferma scozzese. Avremmo fatto rotta dapprima verso le Shiant, un arcipelago di rocce prevalentemente doleritiche in mezzo al Minch, e da lí, tempo e venti permettendo, avremmo proseguito a sud fino a Harris e a Uist, seguendo le rotte delle strade del mare – le astar mara in gaelico – sulle quali da quasi dieci millenni si spostano persone, merci, dèi, idee e storie.
Al mio occhio pavido la Broad Bay sembrava troppo piccola anche per un giro attorno al porto, figuriamoci per avventurarsi tra le possenti correnti di marea del Minch. Non avevamo né motore (solo un paio di remi) né Gps (solo una bussola tascabile da escursionismo); e per una barca che prevedeva quattro uomini di equipaggio ne avevamo solo due, uno dei quali, trattandosi del sottoscritto, era un pivello. Sarebbe stata navigazione allo stato base: uno scafo per domare le onde, e una vela per catturare il vento.
In antico inglese si diceva hwael-weg, «via della balena», o swan-rād, «via del cigno»; in norreno veger; in gaelico rathad mara o astar mara; in inglese ocean road, o sea lane, «rotta marina». Ce ne sono migliaia: ad esempio la Rathad chun a’ Bhaltaic – la «Via per il Baltico» – che va da Cape Wrath alla Russia passando per le Orcadi; le Brancaster Roads, davanti alla costa settentrionale del Norfolk; e la Road, il canale che nelle isole Scilly separa Saint Mary’s da Tresco1. Quando pensiamo ai sentieri pensiamo in genere a quelli di terra, ma anche il mare ha le sue piste, sia pure impossibili da segnare sulla superficie dell’acqua. Alcuni tratti della Icknield Way furono probabilmente scavati dai passi nel gesso fin da 5000 anni fa, mentre il mare non serba memoria di un viaggio avvenuto anche solo mezz’ora prima. Le vie del mare sono piste evanescenti, sulle quali i passaggi non lasciano altra traccia che l’effimera turbolenza di una scia a poppa. Si conservano sotto forma di convenzioni, di tradizioni, di sequenze di coordinate, di cartelli segnaletici, di linee tratteggiate sulle carte, di storie e canzoni. «Come lungo una linea andremo sull’oceano, – scriveva John Dryden dei navigatori inglesi tra il 1660 e il 1670, – i cui sentieri ci diventeranno familiari come quelli di terra»2. Su queste vie di mare per migliaia di anni hanno viaggiato navi, barche, persone, oggetti e parole: lettere, storie popolari, canti di marinai, celeumi, poesie, dicerie, gerghi, barzellette e visioni. Il limo sabbioso della Broomway era stato una via transizionale, che mi aveva condotto tra la terra e l’acqua. Adesso ero sbarcato sulle Ebridi esterne per incontrare un uomo che conosceva le rotte marine meglio di chiunque altro, e per percorrere insieme a lui queste autentiche vie d’acqua.
La prima cosa da tenere presente, per capire le vie del mare, è la straordinaria capacità dell’oceano di avvicinare luoghi lontanissimi. Nel mondo premoderno, ancora privo di automobili e aerei, la barca era il mezzo di trasporto piú rapido sulle lunghe distanze. E ancora oggi resta sorprendentemente veloce. Su una piccola imbarcazione, in condizioni di tempo accettabili, sfruttando venti e maree, potete andare dalle Ebridi esterne alle Orcadi in un giorno e in due o tre raggiungere le Far Oer. Le stime delle distanze coperte in una buona giornata di navigazione dalle navi vichinghe oscillano tra le 90 e le 150 miglia marine, il che significa che da Bergen, in Norvegia, per arrivare alle isole Shetland poteva volerci un paio di giorni e per raggiungere l’Islanda una settimana. Un razziatore di primo millennio faceva in fretta a recarsi al lavoro: la violenza, per via di mare, dilagava fulminea.
La seconda cosa da ricordare sulle vie del mare è che non sono arbitrarie. Ci sono vie ottimali per le traversate a vela in mare aperto, come ci sono vie ottimali per le traversate a piedi in aperta campagna. Le rotte marine sono determinate dalla forma della linea costiera (deviano al largo per evitare i promontori) e dalle proprietà del mare: correnti di superficie, flussi di marea e venti prevalenti possono tutti costituire impedimenti e opportunità per una traversata tra determinati porti3.
L’esistenza delle antiche vie del mare e l’importanza fondamentale che hanno rivestito per le culture preistoriche sono state riconosciute solo all’inizio del Novecento. Fino ad allora gli studiosi di preistoria e i geografi storici erano stati vittime di un «pregiudizio terricolo»: una distorsione percettiva dovuta all’eccessiva dipendenza dalle fonti romane, che tendevano a privilegiare i movimenti di truppe, di merci e di idee per via di terra. È vero che la rete stradale dell’impero romano trasformò la mobilità interna delle società europee, cosí come è indiscutibile che le strade romane furono per l’impero uno strumento insostituibile, sia per l’unificazione dei tanti territori sparsi sia per il mantenimento del potere economico e militare. Ma nei millenni che precedettero l’ascesa di Roma era stata la mobilità marittima a ricoprire quelle funzioni. Furono quindi le fonti classiche a indurre in errore gli storici successivi, oltre al fatto che il mare cancella tutte le tracce di chi lo solca, a differenza della terra che le preserva.
Con l’affermarsi4 dell’archeologia preistorica come disciplina autonoma il ruolo fondamentale delle vie del mare cominciò a essere apprezzato in tutta la sua evidenza. Un primo passo decisivo fu quello compiuto da uno studioso di nome Osbert Crawford, che, analizzando la distribuzione delle lunule d’oro di provenienza irlandese dell’età del Bronzo, si accorse che i manufatti in questione dovevano essere stati trasportati o per via di mare o lungo le «strade istmiche»: vie di terra usate dagli antichi marinai che non volevano rischiare di doppiare promontori tempestosi – la penisola di Cornovaglia, per esempio, o capo Saint David, nel Galles – e che quindi scaricavano le merci sulla riva di un versante e le trasbordavano via terra fino alla costa del versante opposto, dove le imbarcavano su un’altra nave5. I progressi successivi alla scoperta di Crawford furono rapidi. Durante la Prima guerra mondiale, e immediatamente dopo, i ricercatori, sulla base delle distribuzioni di manufatti e tecnologie in Irlanda, nella Gran Bretagna occidentale e settentrionale e sulle coste atlantiche di Spagna e Francia, cominciarono a ricostruire le prime mappe approssimative di quelle che sarebbero state chiamate le rotte marittime occidentali.
Fu un lavoro certosino, che richiese un’attenzione estenuante, ma che dimostrò qualcosa di veramente sorprendente: l’esistenza di traffici marittimi almeno sin dal Mesolitico, e di un’intensa attività di spostamenti via mare nei tremila anni che precedettero la costruzione delle strade romane. Nel 1932 Cyril Fox pubblicò una celebre mappa con la ricostruzione del tracciato di un’importante rotta marittima: partiva dalle Orcadi, superava la sommità della Scozia (il Pentland Firth), doppiava capo Wrath, percorreva il Minch, attraversava il Mare d’Irlanda, aggirava le penisole del Galles e della Cornovaglia e poi virava a sud, tagliando l’ingresso della Manica fino in Britannia e proseguendo fino al golfo di Biscaglia e alla Spagna nord-occidentale. Da questa direttrice principale si diramavano rotte secondarie, alternative e transpeninsulari.
Le ricerche proseguirono permettendo la costruzione di nuove mappe, che rivelarono una rete ulteriore di itinerari a breve distanza: una fitta ragnatela di rotte che connetteva le aree costiere dell’Europa settentrionale e occidentale. Fox descrisse un carattere atlantico comune che caratterizzava tutte le culture di queste zone costiere interconnesse, e fece immaginare un mondo di mari preistorici popolati di argonauti neolitici a bordo di barche con la chiglia fasciata in pelle, che viaggiavano a remi o a vela anche per lunghe distanze. Esistono per esempio prove del fatto che circa 5000 anni fa ci furono navigatori che salparono dalle Orcadi diretti a nord – forse attirati da relitti provenienti da settentrione o dai voli verso nord degli uccelli all’imbrunire – e raggiunsero le Shetland6.
Le tecniche di navigazione e di costruzione che permisero ai primi marinai delle strade del mare di salpare e tornare a riva possono essere solo oggetto di congetture. Ancor meno sappiamo dei motivi per cui viaggiavano. Nel suo superbo studio sulle culture atlantiche, Facing the Ocean, Barry Cunliffe immagina che l’«irrequietezza dell’oceano» potesse di per sé costituire un invito al viaggio, ma piú pragmaticamente fa notare che l’esigenza di viaggi per mare sicuri deve essere stata incentivata dalla necessità di seguire le migrazioni dei pesci e dalla distribuzione diseguale delle risorse elitarie7. I primi viaggiatori di rotte marittime devono aver utilizzato tecniche di navigazione naturali: la rotta di volo seguita al crepuscolo dagli uccelli che dormono a terra, come fulmari, petrelli e sule; la Stella Polare, o Stella del Nord, punto fisso del firmamento attorno al quale sembravano ruotare tutte le altre stelle; l’avvistamento di nubi orografiche, che segnalavano la presenza di terre all’orizzonte; l’individuazione di configurazioni particolari del moto ondoso. Questi metodi devono aver permesso ai primi navigatori di non allontanarsi dalla rotta desiderata e contribuito nel tempo alla formazione di mappe mnemoniche condivise della linea costiera e delle migliori rotte marittime, mappe conservate e tramandate sotto forma di racconti e disegni8.
Queste conoscenze andarono progressivamente codificandosi prima in rudimentali carte e peripli, poi in libri di rotte dove le vie del mare venivano registrate sotto forma di storie e poesie: il catalogo delle navi dell’Iliade è un ausilio mnemonico per piloti, come lo è il Periplo massaliota (risalente forse al VI secolo a.C.). Mappe narrate di rotte marittime sono racchiuse nella poesia scaldica e nelle saghe islandesi (alcune delle quali offrono indicazioni per la traversata dalla Norvegia all’Islanda, con dettagli relativi alle possibili soste, ai punti di avvistamento e ad altri importanti landtoninger, o riferimenti territoriali), ma anche in testi islandesi medievali piú funzionali, come lo straordinario Landnámabók («Libro degli insediamenti»), che in cinque parti e cento capitoli racconta la storia della conquista vichinga dell’Islanda, fornendo al tempo stesso una guida per le verstrveger, le rotte atlantiche occidentali che dalla Norvegia portano alle Orcadi, alla Scozia, alle Ebridi e all’Irlanda, ma anche alle Far Oer, all’Islanda e alla Groenlandia. Tutti questi documenti sono, come scrive con sapienza evocativa Kenneth White, «lirici diari di bordo, pieni di sale, di vento, di onde», destinati infine a svilupparsi nelle varie forme medievali di libri nautici: routiers, rutters e portolani (questi ultimi contenenti indicazioni relative piú al cabotaggio costiero che alle traversate oceaniche, cabotaggio il cui progresso dipendeva dalla segnalazione dei promontori).
La scoperta delle rotte marittime costrinse a reimmaginarsi radicalmente la storia europea. Provateci anche voi, adesso. Invertite la tradizionale mappa mentale con cui vi raffigurate l’Europa occidentale e le isole britanniche. Rovesciatela con il dentro fuori. Cancellate gli entroterra di tutti questi paesi, considerateli privi di qualsiasi carattere saliente, come probabilmente facevate prima riguardo al mare. E a questo punto, invece, popolate le acque occidentali e settentrionali di piste e sentieri: una rete di comunicazioni che unisce porto a porto, isola a isola, promontorio a promontorio, estuario a estuario. Ecco il mare diventato terra, eletto cioè a normale strumento di transito: da barriera a corridoio9.
A questo esperimento mentale, a questa inversione da negativo fotografico, fanno seguito non pochi effetti. Il primo è centrifugo. Vita e cultura passano ai bordi. Il centro si svuota e sono i margini a diventare centrali. Da ultima propaggine del Vecchio Mondo l’orlo atlantico dell’Europa si trasforma in interfaccia cruciale con il Mondo Nuovo. Gli insediamenti costieri sono luoghi di partenza e di arrivo, fiorenti crocevia: l’arcipelago delle Orcadi, affrancato dal suo isolamento remoto, è ora l’epicentro vitale di una rete di commerci e pellegrinaggi.
Un altro effetto è lo scuotimento e il crollo degli odierni confini nazionali. Anziché appartenere alle particolari nazioni che hanno in sorte i diversi tratti di litorale, questi insediamenti costieri rivolti all’esterno – dalle Shetland e dalle Orcadi giú fino in Galizia – vengono ora a formare un territorio continuo a sé stante: intrinsecamente atlantico, con un retaggio condiviso di culture, tecnologie, mestieri e lingue. Un continente occidentale disperso, se preferite, le cui entità costitutive sono unite dal fatto di affacciarsi tutte sullo stesso oceano. Come osserva Cunliffe, in virtú della comune identità culturale sviluppatasi nel corso dei millenni lungo questo fronte atlantico, galiziani, celti, bretoni ed ebridiani condividono piú aspetti gli uni con gli altri che con i rispettivi «conterranei»10. Kenneth White propone il recupero di «lunghezze d’onda» e «sensibilità atlantiche» smarrite, immaginando che esistano modi di sentire e di pensare ispirati e condizionati dal fatto di vivere da molto tempo sul bordo di un oc...