"Sfacciata fortuna". La Shoah e il caso
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"Sfacciata fortuna". La Shoah e il caso

"Sfacciata fortuna". Luck and the Holocaust

  1. 144 pagine
  2. Italian
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"Sfacciata fortuna". La Shoah e il caso

"Sfacciata fortuna". Luck and the Holocaust

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In questa prima lezione Gordon rilegge l'opera di Primo Levi e altre storie della Shoah alla luce di rappresentazioni letterarie della Fortuna e di aspetti del moderno metodo scientifico, scoprendo nuove immagini della fortuna e del caso in frangenti molto drammatici dove è in gioco la «probabilità» di sopravvivere nel lager.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409954
Note
This book contains an extended version of the first “Lezione Primo Levi”, held on 10 November 2009, in the Aula Magna, Facoltà di Scienze Naturali, Fisiche e Matematiche, in the University of Turin. The audience included groups of students from Levi’s own school, the liceo Massimo D’Azeglio, and it was my privilege to meet with these students the day after the Lezione for a long and lively discussion of some of the questions raised here. The “Lezione” is published here in both Italian and English, in recognition of the immense international reputation of Primo Levi. The occasion marked the inauguration of the Centro Internazionale di Studi Primo Levi, Turin, presided over by Amos Luzzatto. I would like to thank very warmly the director of the Centre, Fabio Levi, for having invited me to give the “Lezione” – it was an honour to be asked – and also Amos Luzzatto and all those involved in the setting up of this highly important institution, an archive and point of reference for all of us, in Italy and beyond, who continue to be enriched by the study of the work of Primo Levi.

Il caso stesso pervade ogni strada del senso:
ed è, di tutte le cose, la piú invadente.
C. S. Peirce, 1893
Non è colpa mia se sono fortunato.
Bob Dylan, 1975
1. «Non chiamarci maestri»: cosí Levi mette in guardia i suoi lettori alla fine della sua poesia del 1986 Delega1. La «Lezione Primo Levi», prima di una lunga serie, mi auguro, non ha né vuole avere nessuna ambizione di insegnare qualcosa, tantomeno di predicare, e finanche di imparare alcunché da Levi, come se si trattasse di un modello da ammirare e incorniciare.
Al contrario, il nostro scopo è quello di leggere e rileggere Levi («lezione» da legere), cosí da apprendere attraverso la sua opera come decifrare i percorsi e i contorni del suo mondo, e del nostro. «Lettura» quindi, piú che lectio magistralis.
Con questo approccio piú flessibile, ma forse piú “utile”, al lavoro di Levi vorrei iniziare un percorso deliberatamente tortuoso, intraprendendo un lungo cammino di avvicinamento all’opera di Levi, sollevando strada facendo un problema di fondamentale importanza sia per l’etica che per la conoscenza del mondo, e che rappresenta una forza straordinaria tra le risorse della nostra esistenza di animali biologici, sociali, che raccontano storie. Come vedremo, si tratta di un problema che riguarda in modo alquanto sorprendente la nostra comprensione della Shoah, della modernità che l’ha prodotta e in cui ancora oggi ci troviamo a vivere. Ed è un problema che affascinava e spaventava Primo Levi, a volte con grande intensità, e che attraversa, quasi come una sorta di interrogativo permanente, tutta la sua opera, dai primissimi scritti su Auschwitz (le poesie e i racconti della metà degli anni Quaranta), fino agli ultimi scritti e articoli della metà degli anni Ottanta.
Cominciamo però da lontano, e dall’alto. Come è noto, testi di altissimo valore del canone letterario hanno avuto, sorprendentemente, un ruolo importante nel formare la scrittura e i valori di Levi, non tanto perché fosse immerso nelle letture formative di un littérateur (la cultura libraria sua e della sua famiglia era troppo eclettica e imprevedibile per questo), bensí perché fu costretto, talora controvoglia, ad assorbire e imparare a memoria, insieme ai suoi compagni del liceo Massimo D’Azeglio, quel tipo di letteratura scolastica; e alcuni tra i discendenti di quegli stessi compagni della Torino degli anni Trenta si trovano oggi qui in sala con noi. E furono proprio frammenti di quelle lezioni imparate a memoria che, in un momento di pausa nel gelo e nella desolazione di Monowitz-Auschwitz nel 1944, per una strana alchimia dovevano produrre uno dei momenti di piú alta intensità umana in tutta la letteratura della Shoah. Levi fu in grado di ricordare a frammenti, e attraverso sforzi feroci, assurdi e commoventi, alcuni versi del “Canto di Ulisse”, il testo piú citato nelle antologie della letteratura italiana, il canto XXVI dell’Inferno (Se questo è un uomo, 1947, I, pp. 105-11). Se dovessimo cercare un equivalente, un passo altrettanto celebre nella letteratura inglese, anch’esso impresso a forza nella mente di generazioni e generazioni di studenti recalcitranti, un passo che tende a riaffiorare involontariamente dopo essere rimasto imbrigliato per anni nei meandri della memoria, sarebbe senz’altro il monologo di Amleto nell’atto III, scena 1 della tragedia omonima di Shakespeare (1599?) Anch’esso è pregno di un’idea profonda del nostro essere e dei nostri valori; il principe Amleto, quasi impazzito a causa della sua incapacità di agire per vendicare l’uccisione del padre, e nella consapevolezza acuta di dover fare qualcosa, riflette sulla sua immobilità:
Essere o non essere: questo è il problema.
Se sia piú nobile soffrire nell’animo
i colpi e le frecce della fortuna oltraggiosa
o impugnare le armi contro un mare di guai
e affrontandoli porre fine ad essi. Morire... dormire...
nient’altro2.
I dubbi che tormentano Amleto – vendicarsi oppure non fare nulla – si sono trasmutati, in questo famoso monologo, nel dubbio piú profondo sull’essere e il nulla, sulla vita e la morte e sulla nostra capacità, piuttosto fragile, di controllare il nostro destino di fronte alle avversità e alle contingenze dell’esistenza umana. Luigi Pirandello ha colto in un famoso momento del suo Fu Mattia Pascal (1904) il significato profondo dell’immagine: mentre il principe contempla il cielo e medita sul suo essere e sul suo stato d’animo, la tragedia classica viene messa da parte, Oreste cede il passo ad Amleto, i temi dell’Antichità e la possibilità stessa del tragico soccombono al modello della soggettività moderna, immersa nell’incertezza e divisa al suo stesso interno3. Questo nuovo soggetto è definito dal ridicolo (bathos), non dalla hybris, è costruito in modo da sembrare sciocco ma al contempo stranamente nobile a causa di questa sua stessa incertezza, dell’incapacità di agire, dell’impotenza. Non c’è una risposta alla domanda di Amleto, non c’è niente che riunisca o riconcili l’antitesi tra l’essere e il non essere, non c’è modo di difendersi da «i colpi e le frecce della fortuna oltraggiosa».
Secoli e secoli di critica letteraria e glosse, e secoli di studio a memoria hanno appesantito e sepolto le parole di Amleto. Vorrei qui prendere nuovamente in esame e approfondire una delle espressioni meno appariscenti e meno commentate del testo, «la fortuna oltraggiosa». Nella rappresentazione mentale di Amleto, il mondo che ha di fronte gli appare irrimediabilmente diviso, e la scelta che si trova a dover operare impossibile. La frase «i colpi e le frecce della fortuna oltraggiosa» riassume in una sola immagine di stampo militaresco tutta la violenza e il disordine di Elsinore e del mondo, la minaccia di distruzione, fallimento e umiliazione, ciò che possiamo chiamare caos primordiale, degradazione o entropia della vita umana. E se la metafora dei colpi e delle frecce conferisce alla frase una vivacità letteraria, il suo baricentro si trova nella forza neutra, familiare ma straordinaria (oltraggiosa) della Fortuna.
La figura della Fortuna implica, com’è risaputo, una lunga tradizione e, come vedremo, un lungo percorso nel nostro immaginario culturale. Nel nostro vocabolario è presente in una serie di termini e immagini ereditati da fonti sia classiche sia cristiane, e da qui giunti poi alle formulazioni del tardo Medioevo e del Rinascimento, formulazioni che hanno dato forma alla visione del mondo di Shakespeare. La figura della Fortuna è intimamente legata alle idee di destino, provvidenza e forza vitale, a credenze millenarie, alla poetica delle stelle, all’astrologia, alla vasta gamma di modi in cui l’uomo ha immaginato forze diverse, e di regola superiori, alle proprie (Dio incluso), che governano le vicende terrene. Immagini della Fortuna come, a seconda dei casi, una ruota crudele che gira senza sosta, come una donna o una dea, incostante e frivola, cieca e accecante, si ritrovano ben radicate nell’Antichità classica e continueranno a sussistere come sostrato anche quando le ère successive le assorbiranno e le adatteranno a nuove concezioni di volontà e di destino.
Cosí, all’inizio del Trecento, Dante nella Commedia, seguendo Boezio, accoglie e contemporaneamente corregge i topoi pre-cristiani («Oh creature sciocche, | quanta ignoranza è quella che v’offende!», Inf. VII, vv. 70-71), presentando attraverso Virgilio una visione cristianizzata della dea della fortuna, non piú una forza cieca e crudele, bensí uno strumento puro e elevato del giudizio divino e della provvidenza («questa provede, giudica, e persegue | suo regno come il loro li altri dei», vv. 86-87), un’intelligenza angelica che gli uomini non vedono semplicemente perché non sono, almeno non ancora, toccati dalla grazia di Dio.
Al contrario Boccaccio, nel Decameron (1349-51), e, con qualche variazione, nel De casibus virorum illustrium (1360), secolarizza ancora una volta la Fortuna, spezzando l’armonia che esiste in Dante tra un determinismo provvidenziale e il dono del libero arbitrio, per ristabilire il ritorno dell’agon, il conflitto tra la fortuna e la capacità di controllo dell’uomo. Tuttavia in Boccaccio non si tratta di una lotta del potere o della virtú, del libero arbitrio contro la Fortuna, quanto del conflitto tra intelligenza, furbizia e saggezza pratica. Da qui alla rappresentazione forse piú potente della Fortuna nel Rinascimento pre-shakespeariano, al modello piú vicino ad Amleto, il passo è breve.
Nel Principe (1513) Machiavelli rappresenta la Fortuna alla stregua di Boccaccio, come oggetto di strategia e allo stesso tempo di tattica: Machiavelli nell’ambito dell’alta politica, Boccaccio nel mondo ben piú pratico del mercante del Medioevo. Il Principe manipola e ricalibra (utilizzando persino, come noto, una semplice formula matematica) il concetto classico e l’immagine stessa della Fortuna nell’ottica di un nuovo realismo politico e di una moralità post-teologica. E ciò in una complessa relazione con un concetto di virtú similmente rinnovato, e ora rielaborato nei termini della capacità dell’uomo di saper contrastare, con, appunto, una propria forza sia strategica che tattica, le forze che gli si oppongono nel mondo.
Machiavelli non abbandona le immagini consolidate della Fortuna come donna crudele e indifferente; bensí le mette insieme, le tratta con ironia riposizionandole in modo radicale. Secondo uno dei piú importanti studiosi contemporanei di Machiavelli, Quentin Skinner, nel Principe risultano almeno sei significati distinti e sovrapposti del termine «fortuna», sei campi semantici associati a una serie di formulazioni metaforiche per coglierne le sfumature4. Ecco due tra le formule piú note, tratte dal capitolo XXV del testo:
...iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, bevono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno cosí fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sí licenzioso né sí dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtú a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla.
...la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia piú vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano.
Qui, nel fluire spesso pericoloso di separazione e poi congiunzione di «fortuna» e «virtú», come nell’associazione shakespeariana di «essere» e «non essere» o di fortuna e morte, si trova quel momento di straordinaria trasformazione: l’aprirsi di un concetto di soggettività moderna, di politica e di etica pubblica e privata, di un’idea nuova della nostra capacità di agire nel mondo. Una serie di problematiche che permangono e si trovano nelle fondamenta stesse del nostro linguaggio culturale. E per quante sfumature diverse il termine possa contenere, una cosa è chiara: la nuova incarnazione dell’antica dea della fortuna viene continuamente immaginata e manipolata attraverso una serie di metafore che sono, come abbiamo visto, fluide e incerte, pericolose e violente, sintomatiche di un’ansia collettiva, oscura, che trova riscontro nell’ansia che si trasforma in follia dello stesso Amleto. Che fare di fronte a questa figura minacciosa e ubiqua, che potrebbe essere in ultima istanza la vita stessa, o la morte, o il fatto che forse esse sono la stessa cosa? Cosí, la Fortuna è un fiume tempestoso o una donna da battere, secondo Machiavelli. Oppure è un esercito nemico assassino che avanza verso di noi per Amleto/Shakespeare. E nel caso in cui il nesso tra Machiavelli e Shakespeare non fosse abbastanza chiaro, troviamo in questo momento importante del Giulio Cesare (anch’esso del 1599) – nel quale Bruto tenta di convincere Cassio ad approfittare dell’opportunità e a prendere le armi contro Ottavio e Antonio – una formulazione che riprende il topos machiavellico della fortuna vista come mare o fiume in tempesta, che deve essere governata e cavalcata al meglio delle nostre possibilità:
Vi è una marea nelle cose degli uomini
la quale, se colta al flusso, mena al successo;
se invece è negletta, tutto il viaggio della loro vita
resta arenato nei bassifondi e nelle disgrazie.
Su tale mare libero ora galleggiamo,
e dobbiamo o seguire la corrente quando essa è propizia
o perdere il nostro carico5.
I tropi e topoi della fortuna, dall’Antichità classica fino a Shakespeare e oltre, sono, insomma, uno dei nostri miti fondanti e piú persistenti. La Fortuna è una figura o una forza mitica che la nostra cultura ha sempre utilizzato e continua a utilizzare, per raccontarsi, e per riuscire in qualche modo a gestire l’incomprensibile e incontrollabile realtà che ci circonda. Non dovrebbe dunque eccessivamente sorprendere che questo mito culturalmente circoscritto e canonicamente definito (trasmesso via via tra i loci classici del canone letterario occidentale, da Cicerone a Boezio e Dante, da Boccaccio e Machiavelli fino a Shakespeare) possa estendersi ben oltre, rielaborato nell’immagine e nella retorica, nel linguaggio e nella storia, in qualità di mito. Come ha ben dimostrato l’antropologo americano Donald E. Brown, «le credenze sulla fortuna e la sfortuna» rappresentano uno tra gli elementi costanti e universali che l’etnografia e la storiografia rintracciano in tutte le culture e le società umane. La fortuna, una qualche nozione di essa, è ciò che Brown definisce un «universale umano»6, fornendoci le prove della sua fondamentale e strutturale importanza per le nostre menti, come per le nostre culture. Ogni cultura e ogni generazione reinventa e trova nuovi vocabolari per esprimere questa presenza straordinariamente pervasiva, mitopoietica e genetico-culturale.
Per di piú, conoscenza e cultura convergono in un altro «universale umano», il raccontare storie, la narrazione stessa, in cui le combinazioni e le sequenze di eventi e di possibilità, l’idea stessa di un passaggio dal passato al presente al futuro, sono significativamente costruite intorno alle biforcazioni infinite della sorte o della fortuna. Come ha recentemente suggerito lo psicoanalista Adam Phillips, ciò potrebbe spiegare la forza profonda e inesplicabile della tradizione della fiaba. Scar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. "Sfacciata fortuna". La Shoah e il caso
  3. Note
  4. Nota
  5. “Sfacciata fortuna”. La Shoah e il caso
  6. “Sfacciata fortuna”. Luck and the Holocaust
  7. Appendice - Piccola antologia letteraria della «fortuna»
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Lezioni Primo Levi
  11. Copyright