Il mare in un imbuto
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Il mare in un imbuto

Dove va la lingua italiana

  1. 230 pagine
  2. Italian
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Il mare in un imbuto

Dove va la lingua italiana

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Si governa male la sintassi, si fanno errori marchiani di ortografia. Il mare della nostra ricca, duttile, stratificata, bellissima lingua, si dissecca spesso nelle strettoie di rigagnoli magri.
Nello stesso tempo molti settori stanno imboccando le vie opposte dell'enfasi, dove un italiano ipereccitato strafà e stradice. Anche la stessa «fonografia realistica» che riscontriamo nella narrativa, nei nostri romanzi che simulano tutti allo stesso modo il parlato, comincia a mostrarsi eccessiva. Meglio potare il troppo e lo spreco, riuscire a «far passare il mare in un imbuto», diceva Calvino, fissare un onesto numero di mezzi espressivi e con quelli cercare di dire qualcosa di meno generico, piú ricco e complesso. Nel libro largo spazio è dedicato alla grammatica, ai dubbi quotidiani di lingua, ai momenti di «rigidezza» della norma e ai momenti di «libertà» dell'uso. E intanto si mettono in rilievo gli inganni e i sortilegi della parola, eufemismi e falsità, equivoci, etimi e storie curiose, locuzioni idiomatiche vive o malvive, parole perdute, percorsi e prospettive dell'italiano contemporaneo, contatti con altre lingue, l'anglomania in corso, le polemiche e i dibattiti attuali su lingua e dialetto, i linguaggi settoriali, dal politico allo sportivo alle parole dei giovani; infine i libri, la poesia e la prosa, il leggere e lo scrivere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410448

Capitolo primo

Dubito, se parlo

1. L’whisky, la Pivetti, non il Baudo.
Dubbi di lingua tormentano chi parla e chi scrive. Anche per i casi piú semplici, come l’uso dell’articolo. Capita di non sapere scegliere tra il whisky e l’whisky. Il caso comunque non è controverso. Le parole straniere che iniziano con w- hanno due suoni distinti: alcune iniziano con la semiconsonante uo- di uomo (il caso di whisky), altre invece hanno la consonante di vano (per esempio wafer). In quest’ultimo caso si deve adoperare, secondo regola, l’articolo il (il wafer). Nel primo ci vorrebbe la l apostrofata, come in l’uomo, dunque l’whisky… ma all’occhio del lettore italiano w appare come una consonante, qualunque sia il suo valore nelle lingue straniere d’origine, per cui si è portati a usare l’articolo il. Dunque, usiamo pure il whisky senza timori.
L’articolo semina altri dubbi quando s’ha da mettere davanti ai cognomi. A qualcuno è parso un ennesimo caso di maschilismo il fatto che per le persone di sesso femminile va bene «la Pivetti», «la Ventura», mentre per gli uomini si dice «Baudo» o «Prodi». In realtà non di maschilismo ma di consuetudine si tratta: davanti ai cognomi femminili la norma suggerisce l’obbligo dell’articolo, tant’è che correttamente scriviamo «i romanzi di Buzzati e della Morante». Da qualche tempo in qua però (nei giornali per esempio) si comincia a sopprimere l’articolo, soprattutto quando si intende dare piú importanza all’attività professionale, politica ecc. dell’interessata rispetto al sesso. Al telefono, da tempo ormai si sopprime l’articolo: «Pronto! Qui Littizzetto».
Quanto ai cognomi maschili, la faccenda si complica. Se si tratta di persone illustri e a noi familiari l’articolo non si dovrebbe usare (Dante, Rossini, Garibaldi), ma in realtà regole fisse non ce ne sono. In un testo è possibile trovare lo stesso cognome usato ora con l’articolo ora senza. Al plurale comunque l’impiego dell’articolo è stabile: «Ieri sono venuti a trovarci i Brambilla e i Ventura».
Non sempre però è possibile fare come ci pare. Con l’articolo si compiono di frequente errori da matita blu. Capita spesso di sentire, anche in persone colte, lo suocero, forse perché trascinati dalla norma che vuole l’articolo lo di fronte ai nomi che iniziano con s impura (s+consonante: lo specchio, lo studio, lo scalo, lo sbaglio, lo scandalo, lo sgabello). Ma suocero (che non è svocero, come dicono in Romagna) inizia con s+semivocale, dunque vuole l’articolo il, che al plurale ha sempre come forma corrispondente gli: «gli suoceri/il suocero».
Si sente pure dire lo lievito, mentre si dovrebbe usare il lievito, cosí come si dice il lieto evento o il lieve soffio. Chiara la regola: la forma il si premette al nome maschile che comincia con consonante, purché non sia z (lo zaino, lo zero), o la citata «s impura» (lo studente, lo studio, lo scherzo, lo sbadiglio), o la gn (lo gnocco, lo gnomo), o la x (lo xilofono), o la ps (lo psicologo).
Non solo gli errori, ma anche le anticaglie dovremmo d’ora in poi evitare. Inutile mi sembra ormai l’articolo li quando nelle lettere lo si fa precedere all’indicazione della data. Una stranezza da abolire, anche se ha una sua giustificazione storica: in italiano antico li era articolo maschile plurale. Tre erano le forme, i, gli e li. Si poteva scrivere tanto i marinai, i poeti quanto li marinai, li poeti. Nel caso citato della lettera, quel li sottintendeva «giorni». Era d’uso scrivere: «Torino, li [giorni] 5 di marzo, 1429». Ma non mi pare il caso di conservare quest’abitudine vetusta.
2. Soddisfo o soddisfaccio?
Altro dubbio da sciogliere: «benedicevo» o «benedivo»? Sceglierei «benedicevo». Tutti i composti con dire seguono la coniugazione del verbo, quindi «maledicevo», «benedicevo». Fa eccezione la 2ª dell’imperativo, che è «di’», mentre nei composti è «dici» («Benedici questo luogo…»).
Ancora un dubbio: «soddisfaccio» o «soddisfo»? Si tratta dei composti di fare, i quali dovrebbero adeguarsi al verbo semplice: quindi «soddisfaccio», «assuefaccio». Questa la regola. In realtà c’è da segnalare che i soli «soddisfare» e «disfare», accanto alla forma regolare, hanno sviluppato forme autonome sia per il presente indicativo (io soddisfo, tu soddisfi, noi soddisfiamo) sia per il congiuntivo (che io soddisfi, che essi soddisfino), oggi diventate del tutto accettabili. L’imperfetto «soddisfava» invece, almeno per ora, ancora non lo si accetta. Si scelga dunque «soddisfaceva».
Accanto ai composti di dire e di fare, dubbi si affollano su quelli con stare. Un lettore protesta perché in un numero della «Stampa» ha letto: «i giovani che non sottostarono al governo della repubblica di Salò…», e inorridisce. Non si dovrebbe scrivere sottostettero? Il verbo stare fa appunto al passato remoto stetti, stesti, stette, stemmo, steste, stettero. Come stare si coniugano ristare (ristettero), soprastare (soprastettero) e sottostare (sottostettero). Seguono invece la regolare coniugazione dei verbi in -are contrastare, prestare, sostare («egli contrastò» e non «constrastette»), e sovrastare («sovrastarono»). Ma io non «inorridisco» se qualcuno scrive sottostarono. Ciò succede semplicemente per analogia con quel sovrastarono appena citato. La regola, ripeto, è certo sottostettero, ma il principio dell’analogia ha da sempre governato la vita delle lingue. Non sto difendendo sottostarono, che sarebbe meno “regolare” dal punto di vista della grammatica normativa, ma non è errore, perché quel «sottostarono», per l’attrazione di forme parallele che sta subendo, non mi stupirei di vederlo accettato piú largamente di quanto oggi non sia in un non lontano futuro.
3. Sogn(i)amo, ha piovuto o è piovuto?
Come dicevo nella Premessa, so di deludere chi vuole certezze, desidera risposte precise: o bianco o nero, o giusto o sbagliato. La grammatica non dovrebbe seminare dubbi – pensano in molti –, ma enunciare verità, indicare la strada, e non dire, di fronte a un bivio, «prendete per dove vi pare!»
Devo dire sogniamo con la i o sognamo senza? Il sistema morfologico dell’italiano vuole -iamo alla 1ª plurale del presente indicativo, perciò dovremmo mantenere la i desinenziale anche nei verbi con tema gn-: sogniamo, spegniamo. Ma, nonostante la regola, si sta oggi rafforzando nell’uso la tendenza a eliminare la i, per cui si oscilla. Il che non deve procurarci ansie. Rassegn(i)amoci. È uno dei tanti esempi di “incoerenze” che si avvertono tra la simmetria del sistema morfologico e quella del sistema fonetico-grafico.
Scelgo «diedi» o «detti»? La forma piú diffusa e comune è certamente la prima, dal perfetto latino dedi, che secondo la regola ha prodotto l’italiano «diedi». «Detti» però non è un errore. È anche storicamente giustificabile. Apparteneva già al fiorentino del Duecento, si diffonde nel Quattrocento, dopo essersi formato per analogia sugli altri passati remoti in -etti (vendetti, perdetti). E l’analogia, come abbiamo visto, spiega molte anomalie, e molti mutamenti. Per esempio, la 1ª persona dell’imperfetto è oggi io lodavo, mentre Dante, Petrarca, Boccaccio scrivevano io lodava. Lodava è la forma regolare, deriva dal lat. laudaba(m), e difatti nel fiorentino antico e nei nostri autori del Trecento abbiamo io lodava. Poi, nel Quattrocento, pare per influenza del toscano lucchese e senese, entra negli scritti piú popolari (Pulci, Berni, Cellini) la desinenza in -o, per analogia con quella del presente. Alla desinenza in -a resteranno a lungo fedeli i non toscani, che seguivano i trecentisti e non sentivano come i fiorentini del Cinquecento l’influenza del parlato della propria città. L’imperfetto in -a dura almeno sino a D’Annunzio. Pascoli ancora oscilla (ma secondo precisi criteri, a parere di Andrea Bocchi). Però Manzoni già aveva mutato la -a delle prime edizioni dei Promessi sposi (1825, 1827) in -o (1840), contribuendo grandemente alla diffusione dell’imperfetto in -o, che è ora la norma.
Altra controversa doppia possibilità: meglio dire «ha piovuto» o «è piovuto»? Con i verbi «meteorologici» (piovere, nevicare, grandinare, tuonare, lampeggiare) un tempo le grammatiche prescrivevano essere, ma nella realtà ora l’uso dell’ausiliare è oscillante: «è piovuto questa notte» ma anche «ha piovuto tutto l’inverno»; «stamattina è grandinato», ma anche «ha grandinato»; «è nevicato per tutto il giorno», ma anche «ha nevicato».
Intravedo sul volto del lettore rinnovate venature di delusione. Sta giurando in cuor suo che è meglio non interpellare un linguista in fatto di lingua… Ma, contro le vicende di una lingua e la sua storia, le sue vischiosità e “illogiche” asimmetrie, c’è ben poco da obiettare.
4. Spegnere o spengere?
I delusi hanno un’idea sbagliata della lingua, la immaginano come un computer, del quale prima vengono stabilite le regole (la grammatica), poi quelle regole usate. Capita invece il contrario: prima le lingue sono usate, e soltanto in un secondo tempo i grammatici ne traggono delle regole. In grammatica, come nel diritto, prima si sono formati i casi, di qui sono nate le norme, che vanno naturalmente legittimate. Ma succede che le regole rispetto all’uso vivo sono sempre incomplete: di qui le derive, le “disturbanti” doppie possibilità. La lingua è certamente una struttura da analizzare e da smontare come una macchina, lo si fa per capire come sono formate le sue parti, come sono disposte e collegate, ma nel suo funzionamento reale una lingua non è affatto una macchina con parti assemblate secondo uno schema preciso, ferreo. La lingua non è il progetto di un lucido architetto, un progetto cosciente di un singolo o di un gruppo. Non esistono sulla terra i costruttori di lingue. Anche se macchina perfetta e potente, una lingua è il risultato di un numero enorme di cambiamenti verificatisi nel corso dei secoli per motivi svariati. È un prodotto della storia. Attraverso i tempi conserva la sua struttura ma trascina con sé disimmetrie e oscillazioni.
In una trasmissione televisiva di qualche anno fa, Subbuglio, con Magalli conduttore, dedicata a un paese della Calabria che aveva fatto parlare di sé perché i suoi abitanti avevano spento il televisore per ben quindici giorni, quei telespettatori senza Tv si sentivano come orfani, e allora hanno cominciato a discutere di grammatica, chiedendosi se era meglio dire spegnere o spengere la Tv. C’era chi sosteneva a spada tratta spegnere, chi spengere. Stavano quasi per venire alle mani.
In realtà sono corrette entrambe le forme. Come ricordava Luca Serianni sul foglio dell’Accademia della Crusca «La Crusca per voi», spengere è poco usato fuori di Toscana, ma non è un errore. Certo, il gruppo latino ng+e ha dato in fiorentino antico gn: lat. plangit piagne, lat. *expingere spegnere. Nei dialetti toscani occidentali invece si usava, fin dalle origini, spengere, piangere, che in seguito anche il fiorentino ha accolto, ed esportato fuori di Toscana, nella lingua letteraria del Quattrocento e del Cinquecento (piangere, tingere, stringere). Spengere invece, per ragioni a noi ignote, non è riuscito a varcare i confini della regione. Suona oggi un po’ demodé, specie in bocca a non toscani, però stiamo tranquilli, errore non è.
5. Oscillazioni, incertezze, e l’apostrofo.
Tormenta spesso chi scrive e chi parla questo oscillare continuo tra una forma e l’altra, entrambe possibili, corretta l’una corretta l’altra. Motivo di disputa per noi italiani, grammatici incalliti, che su questioni di lingua amiamo da secoli dibattere. Ci sono ancora oggi puristi rigidissimi, che per un accento… Del resto l’atto di nascita della lingua italiana (960) coincide con una controversia giudiziaria, il famoso «placito» (sentenza) di Capua, sao ko kelle terre… ecc. Ci si accapiglia su minuzie, tre e mezzo o tre e mezza? E perché lieto fine, maschile e non femminile? Ma basterà pensare a tutti quei nomi che, pur restando invariati nella forma, cambiano il proprio significato a seconda se maschili o femminili: vedi il fronte (delle operazioni militari) e la fronte, il fonte (battesimale) e la fonte, il capitale come somma di denaro e la capitale come città principale di uno Stato, e cosí il fine come scopo, e la fine come momento, punto terminale. Il lieto fine è appunto lo scopo finale raggiunto. Non potrebbe certo essere la morte, il punto terminale della vita, «la lieta fine»! Quanto alle tre e mezzo/mezza, entrambi i modi sono del tutto accettabili, non è il caso di litigare: mezzo è in funzione di avverbio nel primo caso, nel secondo è aggettivo, e sottintende ora, cioè alle «tre e mezza [ora]».
Accettabili pure tante altre fluttuazioni, o incertezze minime (quando usare, poniamo, la d eufonica di «ad» e di «ed»; se scegliere il pneumatico o lo pneumatico…) Anche il piú piccolo segno lasciato sulla carta minuzia non è mai… un apostrofo, è importante. E sul suo uso o meno, ci sono spesso incertezze. Si dovrebbe usare come segno di apocope postvocalica, per esempio in imperativi tipo di’ per «dici», da’ per «dai», sta’ per «stai», va’ per «vai». Però oggi sono già largamente in uso le forme senza apostrofo da, va ecc., consuetudine affermatasi fin dal fiorentino ottocentesco. Ho visto profilarsi anche una terza (inaccettabile) possibilità, proposta nell’inno ufficiale delle Olimpiadi invernali 2006. Claudio Baglioni, musicista che non infrange la musica, infrangeva per l’occasione le regole dell’italiano intitolando quell’inno con accento (n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il mare in un imbuto
  3. Capitolo primo - Dubito, se parlo
  4. Capitolo secondo - Inganni
  5. Capitolo terzo - Dove va l’italiano?
  6. Capitolo quarto - Lingua e cultura
  7. Capitolo quinto - Bellezze e ricchezze della lingua
  8. Capitolo sesto - Leggere e scrivere
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright