Le Benevole
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Le Benevole

  1. 960 pagine
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Nato in Alsazia da padre tedesco e madre francese, Maximilien Aue dirige sotto falso nome una fabbrica di merletti nel nord della Francia. Svolge bene il suo lavoro, è un uomo preciso ed efficiente.
Preciso ed efficiente, del resto, lo era stato anche negli anni del nazismo, quando fra il 1937 e il 1945 aveva fatto carriera nelle SS in Germania. Pur essendo un nazionalsocialista convinto, il giovane e brillante giurista era entrato per caso nel corpo, punta di diamante del Reich hitleriano: fermato dalla polizia dopo un incontro omosessuale, aveva accettato di arruolarsi per evitare la denuncia. Nel 1941 Max è sul fronte orientale, dove dà il suo contributo al genocidio di ebrei, zingari e comunisti. Trasferito nel Caucaso e poi nella Stalingrado accerchiata dall'Armata rossa, sopravvive miracolosamente a una grave ferita. Dopo il rientro in Germania, lavora a stretto contatto con tutta la gerarchia nazionalsocialista. La guerra è ormai persa, tuttavia, e la Wehrmacht arretra su tutti i fronti. Al crepuscolo del nazismo, viene in aiuto a Max il suo bilinguismo: assumendo l'identità di un francese deportato in Germania, riesce a fuggire.
Trascinato dalla corrente della Storia e inseguito da fantasmi che, come le furie «benevole» dei Greci, le Eumenidi, cercano vendetta, Max Aue è parte di noi, la parte piú nera.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410806

Minuetto (in rondò)

Fu Thomas, la cosa non vi stupirà, a portarmi la busta. Ero sceso al bar dell’hotel per ascoltare il notiziario, insieme ad alcuni ufficiali della Wehrmacht. Doveva essere verso la metà di maggio: a Tunisi, le nostre truppe avevano effettuato una deliberata riduzione del fronte conformemente ai piani; a Varsavia la liquidazione delle bande di terroristi continuava senza ostacoli. Gli ufficiali intorno a me ascoltavano con aria tetra, in silenzio; soltanto uno Hauptmann senza un braccio sghignazzò platealmente alle parole freiwillige Frontverkürzung e planmäßig, ma tacque incrociando il mio sguardo angosciato; come lui e come gli altri, ne sapevo abbastanza per interpretare quegli eufemismi: nel ghetto gli ebrei in rivolta resistevano alle nostre migliori truppe da varie settimane, e la Tunisia era perduta. Cercai con gli occhi il cameriere per ordinare un altro cognac. Entrò Thomas. Attraversò la sala con passo marziale, mi fece cerimoniosamente il saluto tedesco battendo i tacchi, poi mi prese per il braccio e mi pilotò verso un tavolo in disparte; si sedette gettando disinvoltamente il berretto sul tavolo e brandendo con delicatezza una busta fra due dita guantate. «Sai cosa c’è qui dentro?» domandò aggrottando le sopracciglia. Scossi la testa. La busta, lo vedevo, portava l’intestazione del Persönliche Stab des Reichsführer-SS. «Io invece lo so», continuò con lo stesso tono. Il suo viso si rasserenò: «Congratulazioni, amico mio. Sai nascondere bene il tuo gioco. Ho sempre pensato che sei piú furbo di quanto non sembri». Continuava a tenere la busta. «To’, prendila». La presi, la aprii, e ne estrassi un foglio, era l’ordine di presentarmi quanto prima all’Obersturmbannführer Doktor Rudolf Brandt, aiutante personale del Reichsführer-SS. «È una convocazione», dissi, abbastanza stupidamente. «Sí, è una convocazione». «E cosa significa?» «Significa che il tuo amico Mandelbrod ha il braccio lungo. Sei assegnato allo Stato maggiore personale del Reichsführer, vecchio mio. Festeggiamo?»
Non avevo tanta voglia di festeggiare, ma mi lasciai convincere. Thomas passò la notte a offrirmi whisky americano e a dissertare con entusiasmo sull’ostinazione degli ebrei di Varsavia. «Ti rendi conto? Degli ebrei!» Quanto alla mia nuova assegnazione, sembrava pensare che avessi messo a segno un colpo gobbo; io non avevo la piú pallida idea di cosa si trattasse. L’indomani mattina, mi presentai all’SS-Haus, che aveva sede in Prinz-Albrechtstraße, proprio accanto alla Staatspolizei, in un ex grand-hotel trasformato in palazzo di uffici. L’Obersturmbannführer Brandt, un ometto con le spalle curve, dall’aspetto incolore e meticoloso, il viso nascosto da grandi occhiali tondi cerchiati di tartaruga nera, mi ricevette immediatamente. Mi pareva di averlo visto a Hohenlychen, quando il Reichsführer mi aveva decorato nel mio letto d’ospedale. Con poche frasi lapidarie e precise mi ragguagliò su quello che ci si aspettava da me. «Il passaggio dal sistema dei campi di concentramento con fini puramente correzionali alla funzione di serbatoi di forza lavoro, avviato oltre un anno fa, comporta qualche frizione». Il problema riguardava sia i rapporti fra le SS e gli esterni, sia quelli in seno alle stesse SS. Il Reichsführer desiderava capire con maggiore precisione quale fosse l’origine delle tensioni onde ridurle e ottimizzare in tal modo la capacità produttiva di quel cospicuo capitale umano. Pertanto aveva deciso di nominare suo delegato personale per l’Arbeitseinsatz («operazione» o «organizzazione del lavoro») un ufficiale di comprovata esperienza. «Dopo aver studiato i fascicoli e a seguito di parecchie raccomandazioni è stato designato lei. Il Reichsführer fa totale affidamento sulla sua capacità di assolvere questo compito che esigerà grandi doti di analisi, senso della diplomazia e spirito di iniziativa SS come quello di cui lei ha dato prova in Russia». Gli uffici delle SS interessati avrebbero ricevuto l’ordine di collaborare; ma spettava a me assicurarmi che tale collaborazione si volgesse nel miglior modo possibile. «Tutte le sue domande nonché i suoi rapporti, – concluse Brandt, – dovranno essere indirizzati a me. Il Reichsführer la vedrà solo quando lo riterrà necessario. Oggi la riceverà per spiegarle cosa si aspetta da lei». Avevo ascoltato senza battere ciglio; non capivo di cosa stesse parlando, ma ritenni miglior politica non fare domande. Brandt mi chiese di attendere al pianterreno, in un salotto; c’erano delle riviste, con tè e pasticcini. Ben presto mi stancai di sfogliare vecchi numeri dello «Schwarze Korps» nella luce soffusa di quella sala; purtroppo, nell’edificio non si poteva fumare, il Reichsführer l’aveva vietato per via dell’odore, e non si poteva nemmeno uscire a fumare in strada, nel caso in cui si venisse convocati. Vennero a chiamarmi a fine pomeriggio. Nell’anticamera, Brandt mi impartí le ultime raccomandazioni: «Non faccia commenti, non faccia domande, non parli se non per rispondere». Poi mi introdusse. Heinrich Himmler stava seduto alla scrivania; mi feci avanti con passo marziale, seguito da Brandt, che mi presentò; salutai e Brandt, dopo aver consegnato un fascicolo al Reichsführer, si ritirò. Himmler mi fece cenno di sedermi e consultò il fascicolo. Il suo volto sembrava stranamente vago, privo di colore, i baffetti e gli occhialini sottolineavano ancora di piú l’aspetto sfuggente dei suoi lineamenti. Mi guardò con un sorrisetto amichevole; quando alzava la testa, la luce, riflettendosi sulle lenti, le rendeva opache, nascondendo i suoi occhi dietro a piccoli specchi tondi: «Lei ha un aspetto migliore dell’ultima volta che l’ho vista, Sturmbannführer». Ero molto stupito che se ne ricordasse; forse c’era un appunto nel fascicolo. Proseguí: «Si è rimesso completamente dalla ferita? Bene». Sfogliò qualche pagina. «Sua madre è francese, a quanto vedo?» Mi sembrava una domanda, e azzardai una risposta: «Nata in Germania, Reichsführer. In Alsazia». «Sí, ma comunque francese». Alzò la testa e questa volta gli occhialini non rifletterono la luce, rivelando degli occhi piccoli e troppo ravvicinati, dallo sguardo sorprendentemente dolce. «Sa, in linea di principio non accetto nel mio Stato maggiore uomini che abbiano sangue straniero. È come la roulette russa: troppo rischioso. Non si sa mai cosa salterà fuori, anche con degli ottimi ufficiali. Ma il dottor Mandelbrod mi ha convinto a fare un’eccezione. È un uomo molto saggio, e io rispetto il suo parere». Fece una pausa. «Avevo in mente un altro candidato per questo posto. Lo Sturmbannführer Gerlach. Purtroppo è rimasto ucciso un mese fa. Ad Amburgo, sotto un bombardamento inglese. Non si è messo al riparo per tempo e si è preso un vaso di fiori in testa. Begonie, credo. O tulipani. È morto sul colpo. Questi Inglesi sono dei mostri. Bombardare dei civili, cosí, indiscriminatamente. Dopo la vittoria dovremo organizzare dei processi per crimini di guerra. I responsabili di queste atrocità dovranno risponderne». Tacque e si concentrò di nuovo sul mio fascicolo. «Lei ha quasi trent’anni e non è sposato, – disse alzando la testa. – Perché?» Il tono era severo, professorale. Arrossii: «Non ne ho ancora avuto l’occasione, Reichsführer. Ho terminato gli studi appena prima della guerra». «Dovrebbe pensarci seriamente, Sturmbannführer. Il suo sangue è buono. Non deve andare perduto per la Germania, se lei resterà ucciso in questa guerra». Le parole mi salirono spontaneamente alle labbra: «Reichsführer, voglia scusarmi, ma il mio approccio spirituale all’impegno nazionalsocialista e al servizio nelle SS non mi permette di pensare al matrimonio finché il mio Volk non avrà sventato i pericoli che lo minacciano. L’affetto per una donna non può che indebolire un uomo. Devo consacrarmi totalmente e non potrò spartire la mia devozione prima della vittoria finale». Himmler ascoltava scrutando il mio viso; gli occhi si erano leggermente spalancati. «Sturmbannführer, nonostante il suo sangue straniero, lei ha qualità germaniche e nazionalsocialiste impressionanti. Non so se posso accettare questo ragionamento: continuo a pensare che sia dovere di ogni SS-Mann perpetuare la razza. Ma rifletterò sulle sue parole». «Grazie, Reichsführer». «L’Obersturmbannführer Brandt le ha illustrato il suo lavoro?» «A grandi linee, Reichsführer». «Non ho granché da aggiungere. Soprattutto, usi la delicatezza. Non desidero suscitare inutili conflitti». «Sí, Reichsführer». «I suoi rapporti sono ottimi. Lei ha un’eccellente capacità di sintesi basata su una comprovata Weltanschauung. Per questo ho deciso di sceglierla. Ma attenzione! Voglio soluzioni pratiche, non geremiadi». «Sí, Reichsführer». «Il dottor Mandelbrod le chiederà sicuramente di trasmettergli copia dei suoi rapporti. Non ho nulla in contrario. Bene, Sturmbannführer. Può andare». Mi alzai, feci il saluto e mi accinsi a uscire. Improvvisamente Himmler mi apostrofò con la sua vocetta secca: «Sturmbannführer!» «Sí, Reichsführer?» Esitò: «Niente falsi sentimentalismi, eh?» Rimasi rigido, sull’attenti: «Certo che no, Reichsführer». Feci di nuovo il saluto e uscii. In anticamera, Brandt mi gettò uno sguardo inquisitore: «È andata bene?» «Credo di sí, Herr Obersturmbannführer». «Il Reichsführer ha letto con grande interesse il suo rapporto sui problemi di alimentazione dei nostri soldati a Stalingrado». «Sono sorpreso che quel rapporto sia arrivato fino a lui». «Il Reichsführer si interessa di molte cose. Il Gruppenführer Olendorf e gli altri Amtschefs gli trasmettono spesso dei rapporti interessanti». Brandt mi diede, da parte del Reichsführer, un libro intitolato L’assassinio rituale ebraico, di Helmut Schramm. «Il Reichsführer ne ha fatte stampare delle copie per tutti gli ufficiali delle SS che avessero almeno il grado di Standartenführer. Ma ha chiesto che venisse distribuito anche agli ufficiali subalterni coinvolti nella questione ebraica. Vedrà, è molto interessante». Lo ringraziai: un altro libro da leggere, e io che non leggevo quasi piú. Brandt mi consigliò di prendermi qualche giorno per sistemarmi: «Non combinerà niente di buono se le sue faccende personali non sono a posto. Poi torni da me».
Mi resi ben presto conto che la questione piú delicata sarebbe stata quella dell’alloggio: non potevo rimanere indefinitamente in albergo. L’Obersturmbannführer dell’SS-Personal Hauptamt mi propose due opzioni: una residenza delle SS per ufficiali celibi, molto economica, pasti compresi; oppure una camera presso privati, per la quale avrei dovuto pagare un affitto. Thomas abitava in un appartamento di tre locali, spazioso e molto confortevole, con soffitti alti e pregiati mobili antichi. Vista la grave crisi degli alloggi a Berlino – in generale, chi disponeva di una stanza vuota doveva prendersi un inquilino –, il suo era un appartamento lussuoso, soprattutto per un Obersturmbannführer celibe; un Gruppenführer sposato, con figli, non lo avrebbe rifiutato. Mi spiegò ridendo come lo avesse ottenuto: «Non è poi tanto complicato. Se vuoi, posso aiutarti a trovarne uno, forse non altrettanto grande, ma almeno di due locali». Grazie a un conoscente che lavorava alla Generalbauinspektion di Berlino si era fatto assegnare con un provvedimento speciale un appartamento di proprietà di ebrei, sgomberato in vista della ricostruzione della città. «L’unico problema era che avrei dovuto pagare la ristrutturazione, circa 500 Reichsmark. Non li avevo, ma sono riuscito a farmeli dare da Berger come sussidio straordinario». Sdraiato sul divano, si guardò intorno soddisfatto: «Niente male, no?» «E l’auto?» domandai ridendo. Thomas possedeva anche una piccola decappottabile, con cui adorava uscire e qualche volta passava a prendermi la sera. «Questa, vecchio mio, è una storia che ti racconterò un’altra volta. Ti ho pur detto, a Stalingrado, che se fossimo riusciti a cavarcela, avremmo fatto la bella vita. Non c’è ragione di privarsi di qualcosa». Riflettei sulla sua proposta, ma alla fine decisi per una camera ammobiliata presso un privato. Ad abitare in un edificio per SS non ci tenevo proprio; e l’idea di rimanere solo, di vivere in compagnia di me stesso per la verità mi faceva un po’ paura. Dei padroni di casa sarebbero stati quanto meno una presenza umana, mi sarei fatto preparare i pasti, avrei sentito qualche rumore in corridoio. Perciò presentai domanda precisando che volevo due stanze e che doveva esserci una donna per la cucina e le pulizie. Mi proposero qualcosa a Mitte, da una vedova, a sei fermate di U-Bahn dalla Prinz-Albrechtstraße, senza cambiare, e a un prezzo ragionevole; accettai senza nemmeno vedere l’appartamento e mi diedero una lettera. Frau Gutknecht, una donna grassa e rubiconda che aveva passato la sessantina, dai seni voluminosi e dai capelli tinti, mi squadrò a lungo con un’espressione astuta aprendomi la porta: «Allora, è lei l’ufficiale?» mi apostrofò con un marcato accento berlinese. Varcai la soglia e le strinsi la mano: olezzava di profumo a buon mercato. Indietreggiò in un lungo corridoio e mi indicò le porte: «Qui sto io; là è per lei. Ecco la chiave. Ovviamente, ne ho una anch’io». Aprí e mi mostrò le stanze: mobili fabbricati in serie straripanti di ninnoli, carta da parati ingiallita e piena di gobbe, odore di chiuso. Dopo il salotto c’era la camera da letto, isolata dal resto dell’appartamento. «La cucina e i servizi sono in fondo. L’acqua calda è razionata, quindi niente bagno». Alla parete erano appesi due ritratti incorniciati in nero: un uomo sulla trentina, con dei baffetti da funzionario, e un ragazzo biondo, ben piantato, in uniforme della Wehrmacht. «È suo marito?» domandai rispettosamente. Una smorfia le deformò il volto: «Sí. E l’altro è mio figlio Franz, il mio piccolo Franzi. È caduto il primo giorno della campagna di Francia. Il suo Feldwebel mi ha scritto che è morto da eroe, per salvare un commilitone, ma non ha avuto medaglie. Voleva vendicare il suo papà, il mio Bubi, morto gasato a Verdun». «Le mie piú sentite condoglianze». «Oh, per Bubi mi sono abituata, sa. Ma il mio piccolo Franzi mi manca ancora». Mi scoccò una breve occhiata calcolatrice. «Peccato che non abbia una figlia. Avrebbe potuto sposarla. Mi sarebbe piaciuto, un genero ufficiale. Il mio Bubi era Unterfeldwebel e il mio Franzi ancora Gefreiter». «È davvero un peccato», risposi educatamente. Indicai i soprammobili: «Potrei chiederle di togliere tutto? Mi servirebbe spazio, per le mie cose». Assunse un’aria indignata: «E dove vuole che li metta? Da me c’è ancora meno posto. E poi sono carini. Deve solo spingerli un po’ da parte. Ma attenzione, eh! Chi rompe paga». Indicò i ritratti: «Se vuole, posso riprendermi quelli. Non vorrei affliggerla con il mio lutto». «Non ha importanza», dissi. «Bene, allora li lascio. Era la stanza preferita di Bubi». Ci mettemmo d’accordo per i pasti e le diedi parte dei miei buoni del razionamento.
Mi sistemai come meglio potei; in ogni caso non avevo molta roba. Accatastando i soprammobili e i romanzucoli ante Grande guerra, riuscii a liberare qualche ripiano su cui sistemai i miei libri, che recuperai dalla cantina dove li avevo depositati prima di partire per la Russia. Mi fece piacere toglierli dalle scatole e sfogliarli, anche se molti si erano sciupati per via dell’umidità. Vi affiancai l’edizione di Nietzsche che mi aveva regalato Thomas e che non avevo mai aperto, i tre Burroughs portati dalla Francia e il Blanchot, che avevo smesso di leggere; gli Stendhal che mi ero portato in Russia erano rimasti là, proprio come i suoi diari del 1812 e, in fondo, un po’ allo stesso modo. Mi spiaceva di non aver pensato di ricomprarmeli passando per Parigi, ma ci sarebbe sempre stata un’occasione, sempre se sopravvivevo. L’opuscolo sull’assassinio rituale mi creò qualche imbarazzo: mentre potevo facilmente mettere la Festgabe tra i miei libri di economia e di scienza politica, quello stentava un po’ a trovare una collocazione. Alla fine lo infilai con i libri di storia, fra von Treitschke e Gustav Kossinna. I libri e il vestiario, ecco tutti i miei averi, oltre a un grammofono e a qualche disco; anche il kindjal di Nalčik, purtroppo, era rimasto a Stalingrado. Quando ebbi sistemato tutto, misi sul grammofono delle arie di Mozart, sprofondai in una poltrona e accesi una sigaretta. Frau Gutknecht entrò senza bussare e si arrabbiò immediatamente: «Non vorrà mica fumare qui dentro! Farà puzzare le tende». Mi alzai sistemandomi le falde della giacca: «Frau Gutknecht. La pregherei di avere la cortesia di bussare, e di aspettare che le risponda, prima di entrare». Divenne paonazza: «Mi scusi, Herr Offizier! Ma è casa mia, no? E poi, con tutto il rispetto, potrei essere sua madre. Che le importa se entro? Non avrà intenzione di portarsi in camera delle ragazze, per caso? Questa è una casa rispettabile, una casa perbene». Decisi che urgeva mettere in chiaro le cose: «Frau Gutknecht, affitto le sue due camere; quindi non è piú casa sua ma casa mia. Non ho nessuna intenzione di portarmi in camera delle ragazze, come dice lei, ma ci tengo alla mia vita privata. Se la soluzione non le aggrada, impacchetto le mie cose, recupero il mio affitto e me ne vado. Ha capito?» Si calmò: «Non la prenda cosí, Herr Offizier… Non sono abituata, tutto qui. Può anche fumare, se vuole. Solo, potrebbe aprire le finestre…» Guardò i libri: «Vedo che lei ha una cultura…» La interruppi: «Frau Gutknecht. Se non ha altro da domandarmi, le sarei grato se mi lasciasse solo». «Oh, mi scusi, certo». Uscí e io le chiusi la porta alle spalle, lasciando la chiave nella serratura.
Sistemai la mia pratica con l’ufficio del personale e tornai da Brandt. Mi aveva fatto sgomberare dei piccoli locali luminosi ricavati nel sottotetto dell’ex hotel. Avevo a disposizione un’anticamera con un telefono e un ufficio provvisto di divano, una giovane segretaria, Fräulein Praxa, nonché i servigi di un piantone, che si occupava di tre uffici, e di una squadra di dattilografe a disposizione di tutto il piano. Il mio autista si chiamava Piontek, un Volksdeutsche dell’Alta Slesia che mi avrebbe fatto anche da attendente durante i viaggi; l’auto era a mia disposizione, ma il Reichsführer insisteva perché ogni spostamento di natura personale fosse contabilizzato a parte, e il costo della benzina scalato dalla paga. Mi sembrava alquanto stravagante. «Non ha importanza. Occorre avere i mezzi per lavorare come si deve», mi rassicurò Brandt con un sorrisetto. Non riuscii a incontrare il capo del Persönliche Stab, l’Obergruppenführer Wolff; si stava rimettendo da una grave malattia, e da mesi Brandt svolgeva di fatto tutte le sue funzioni. Mi forní qualche ulteriore precisazione su quello che ci si aspettava da me: «Anzitutto, è importante che lei si familiarizzi con la struttura e con i suoi problemi. Tutti i rapporti inoltrati al Reichsführer su questo argomento sono archiviati qui: se li faccia portare e dia loro un’occhiata. Ecco un elenco degli ufficiali delle SS a capo dei vari settori interessati dal suo mandato. Fissi un appuntamento e vada a parlare con loro, la aspettano e le parleranno con franchezza. Quando avrà un’adeguata visione complessiva, andrà a fare un giro d’ispezione». Consultai l’elenco: si trattava soprattutto di ufficiali del Wirtschafts-Verwaltungshauptamt (l’Ufficio centrale delle SS dell’Amministrazione e dell’Economia) e dell’RSHA. «L’Ispettorato dei campi è stato accorpato al WVHA, vero?» domandai. «Sí, – rispose Brandt, – da poco piú di un anno. Guardi il suo elenco, adesso si chiama Amtsgruppe D. Sulla lista le abbiamo messo il Brigadeführer Glücks, capo della direzione, il suo aiutante, l’Obersturmbannführer Liebehenschel che, detto fra noi, le sarà probabilmente piú utile del suo superiore, e qualche caposezione. Ma i campi sono solo un aspetto del problema; ci sono anche le aziende delle ss. L’Obergruppenführer Pohl, che dirige il WVHA, la riceverà per parlargliene. Beninteso, se vuole incontrare altri ufficiali per approfondire certi punti, non si faccia scrupoli: ma prima questi qui. All’RSHA, l’Obersturmbannführer Eichmann le spiegherà il sistema dei trasporti speciali, e le illustrerà anche lo stato di avanzamento della soluzione della questione ebraica e le sue prospettive future». «Posso farle una domanda, Herr Obersturmbannführer?» «Dica pure». «Se ho capito bene, posso avere accesso a tutti i documenti riguardanti la soluzione finale della questione ebraica?» «Nella misura in cui risolvere il problema ebraico ha direttamente a che fare con la questione della massima disponibilità di manodopera, sí. Ma ci tengo a precisare che ciò farà di lei, e a un livello di gran lunga superiore alle sue funzioni in Russia, un Geheimnisträger, un depositario di segreti. Le è recisamente vietato discuterne con chicchessia fuori dal servizio, compresi i funzionari dei ministeri e del Partito con cui sarà in contatto. Il Reichsführer ammette un’unica sentenza per ogni violazione di questa norma: la pena di morte». Indicò di nuovo il foglio che mi aveva dato: «Può parlare liberamente con tutti gli ufficiali di questo elenco; per i subalterni, prima si informi». «Bene». «Per i suoi rapporti, il Reichsführer ha fatto pubblicare delle Sprachregelungen, delle norme sull’uso del linguaggio. Ne prenda visione e ci si adegui alla lettera. Ogni rapporto non conforme verrà respinto». «Zu Befehl, Herr Obersturmbannführer».
Mi tuffai nel lavoro come in un bagno rinvigorente, una delle fonti solforose di Pjatigorsk. Da mattina a sera, seduto sul divanetto del mio ufficio, divoravo rapporti, epistolari, ordini, organigrammi, fumando di tanto in tanto qualche sigaretta alla finestra, con discrezione. Fräulein Praxa, una sudeta un po’ svampita che avrebbe senz’altro preferito passare le sue giornate a spettegolare al telefono, doveva continuamente andare su e giú dall’archivio, e protestava che le si gonfiavano le caviglie. «Grazie, – le dicevo senza guardarla quando entrava nella stanza con un nuovo faldone. – Lo metta lí, prenda quelli, ho finito, può portarli via». Lei sospirava e ripartiva cercando di fare piú rumore che poteva. Frau Gutknecht si era ben presto rivelata una cuoca spaventosa, in grado di preparare al massimo tre ricette, tutte a base di cavolo, e che spesso non le riuscivano; cosí la sera presi l’abitudine di mandare a casa Fräulein Praxa, scendere in mensa a mangiare un boccone, e lavorare ancora nel mio ufficio fino a notte fonda, rientrando solo a dormire. Per non trattenere Piontek, prendevo l’U-Bahn; a quelle ore la linea C era quasi vuota, e mi piaceva osservare i rari passeggeri, i loro volti sciupati, stanchi; mi distraeva un po’ da me stesso e dal mio lavoro. Mi ritrovai spesso nella stessa carrozza con un uomo, un funzionario che evidentemente lavorava fino a tardi come me; lui non mi notava mai, perché era sempre immerso nella lettura di un libro. Ma quell’uomo, per il resto cosí poco interessante, aveva un modo interessante di leggere: mentre gli occhi scorrevano le righe, le labbra si muovevano come se pronunciasse le parole, ma senza che sentissi alcun suono, nemmeno un mormorio; e allora provavo un po...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le Benevole
  3. Toccata
  4. Allemanda I e II
  5. Corrente
  6. Sarabanda
  7. Minuetto (in rondò)
  8. Aria
  9. Giga
  10. Appendici
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright