Il mondo fino a ieri
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Il mondo fino a ieri

Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?

  1. 520 pagine
  2. Italian
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Il mondo fino a ieri

Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?

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Dai viaggi in aereo ai telefoni cellulari, dall'alfabetizzazione all'obesità, la maggior parte di noi dà per scontate alcune caratteristiche della modernità, ma per la quasi interezza dei suoi sei milioni di anni di vita la società umana non ha conosciuto nulla di tutto ciò. E se il baratro che ci divide dai nostri antenati primitivi può apparirci incolmabile, osservando le società tradizionali ancora esistenti, o esistenti fino a poco tempo fa, possiamo farci un'idea di com'era il nostro antico stile di vita. Società come quella degli abitanti degli altipiani guineani ci ricordano che, in termini evoluzionistici, le cose sono cambiate soltanto di recente, e questo libro ci offre un affascinante ritratto di prima mano di ciò che per decine di migliaia di anni è stata la vita dell'umanità, soffermandosi sul significato che le differenze fra quel passato ormai quasi scomparso e il nostro presente hanno per l'uomo di oggi.
Il mondo fino a ieri è il libro piú personale scritto da Jared Diamond, che attinge a piene mani a decenni di lavoro sul campo nelle isole del Pacifico e da testimonianze sugli inuit, gli indios dell'Amazzonia, i san del Kalahari e molti altri popoli. Diamond non idealizza romanticamente le società tradizionali: alcune fra le loro pratiche restano per noi inaccettabili, ma è importante riconoscere dove e quando le loro esperienze hanno fruttato dei passi avanti nella società e nel comportamento umani. Egli ci indica quindi motivi di ammirazione e lezioni degne di essere imparate, a partire dall'approccio tradizionale a questioni universali come il trattamento degli anziani, l'allevamento dei figli, la risoluzione delle controversie, la valutazione del rischio e la salvaguardia del benessere fisico e della salute. *** «Le società tradizionali rappresentano migliaia di esperimenti millenari nel campo dell'organizzazione umana, esperimenti che non possiamo ripetere riprogettando di sana pianta intere società, per poi osservarne i risultati dopo decenni; se vogliamo imparare qualcosa, dobbiamo farlo là dove gli esperimenti sono già stati compiuti. Quando scopriamo che cosa significa vivere in modo tradizionale scopriamo anche aspetti di cui siamo felici di esserci liberati, e questo ci aiuta ad apprezzare meglio le società moderne; di fronte ad altri aspetti proviamo invece un senso di invidia e di perdita tout court, o magari ci chiediamo se non sarebbe il caso di riadattarli e riadottarli anche noi in maniera selettiva. Di sicuro invidiamo per esempio l'assenza di malattie non contagiose legate allo stile di vita occidentale, mentre possiamo desiderare di reintegrare solo alcuni aspetti dei metodi di risoluzione pacifica dei conflitti, di educazione dei figli, di trattamento degli anziani, di vigilanza nei confronti dei pericoli e del multilinguismo.
Con questo libro mi auguro quindi di riuscire almeno a comunicare ai miei lettori il fascino che provo davanti alle tante e variegate forme di organizzazione della vita escogitate da altri popoli del mondo. Al di là di questo fascino, ciascuno sarà libero di provare a capire se qualcosa di ciò che cosí bene funziona per loro non potrebbe forse funzionare altrettanto bene per lui e per noi tutti come società».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410295
Categoria
Anthropology

Il mondo fino a ieri

A Meg Taylor, per i decenni di preziosa amicizia
e le illuminazioni condivise sui nostri due mondi

Prologo

All’aeroporto

Una scena all’aeroporto. Perché studiare le società tradizionali? Stati. Tipologie di società tradizionali. Approcci, cause e risorse. Un piccolo libro per un grande argomento. Piano dell’opera.
Una scena all’aeroporto.
30 aprile 2006, ore 7. Mi trovo nella sala del check-in di un aeroporto, aggrappato al mio carrello e sballottato da una folla di viaggiatori che come me attende di registrarsi sui primi voli del mattino. Una scena familiare: centinaia di persone armate di valigie, scatole, zaini e bambini che si dispongono in code parallele verso un lungo banco, dietro al quale gli impiegati in uniforme della compagnia aerea lavorano ai videoterminali. Altro personale in uniforme è sparso tra la folla: piloti e hostess, i controllori dei bagagli e due agenti di polizia quasi inghiottiti dalla ressa e intenti solo a rendersi ben visibili. I controllori passano le valigie ai raggi X, gli impiegati applicano talloncini ai manici e i movimentatori caricano i bagagli su nastri che li trascinano via, auspicabilmente in direzione degli aerei giusti. Di fronte al check-in ci sono negozi che vendono snack e giornali. Altri oggetti visibili intorno a me sono i soliti orologi a muro, i telefoni, i bancomat, le scale mobili per il piano superiore e, naturalmente, gli apparecchi fermi sulle piste al di là delle vetrate.
Gli impiegati digitano veloci sulle tastiere dei computer e guardano i monitor, aspettando che i terminali Pos stampino le ricevute delle carte di credito. La folla è in preda al consueto misto di buonumore, pazienza ed esasperazione, attende rispettosa in fila, saluta gli amici. Quando arriva il mio turno esibisco un pezzo di carta (i dati del mio volo) a una persona che non avevo mai visto prima e che probabilmente non rivedrò mai piú (l’addetta al check-in), la quale in cambio mi consegna un altro pezzo di carta che mi autorizza a volare per centinaia di miglia verso un luogo in cui non sono mai stato e i cui abitanti, pur non conoscendomi, tollereranno la mia presenza.
La prima cosa che in questa scena altrimenti normale colpirebbe per la sua stranezza i viaggiatori americani, europei o asiatici è che tutti i presenti in questa sala, tranne me e pochi altri turisti, sono guineani. Altre differenze che salterebbero agli occhi di viaggiatori, poniamo, statunitensi sono che la bandiera nazionale al check-in non è a stelle e strisce ma nera, rossa e oro come quella di Papua Nuova Guinea, con un uccello del paradiso e la costellazione della Croce del Sud; che i cartelli sul banco non dicono American Airlines o British Airways, ma Air Niugini; e, infine, che i nomi delle località di destinazione sui monitor hanno una sonorità tutta esotica, come Wapenamanda, Goroka, Kikori, Kundiawa e Wewak.
L’aeroporto in cui mi trovavo quel mattino era quello di Port Moresby, capitale di Papua Nuova Guinea. Chiunque avesse conosciuto un po’ la storia della Nuova Guinea – me compreso, che vi ero arrivato per la prima volta nel 1964, quando ancora si trovava sotto l’amministrazione australiana – avrebbe trovato la scena a un tempo familiare, sorprendente e commovente. Iniziai subito a paragonarla mentalmente alle foto scattate dai primi australiani che, nel 1931, erano penetrati e avevano «scoperto» gli altipiani della Nuova Guinea, popolati da un milione di individui ancora dediti nei villaggi all’uso di utensili di pietra. In quelle foto gli abitanti degli altipiani, che da millenni vivevano in stato di relativo isolamento e pressoché ignari dell’esistenza di un mondo esterno, fissano terrorizzati i primi bianchi (tavv. 30, 31). Nel 2006, a Port Moresby, osservavo i volti dei passeggeri locali, degli impiegati al banco e dei piloti e rivedevo quelli delle foto di settant’anni prima. Naturalmente le persone che mi circondavano in aeroporto non erano le stesse di allora, ma le facce si somigliavano e magari tra loro c’erano i figli e i nipoti dei protagonisti di quello storico first contact.
La differenza piú evidente tra la scena del 2006 scolpita nella mia memoria e le immagini del «primo contatto» del 1931 è che i guineani degli altipiani di tanto tempo fa erano a malapena coperti da gonnellini di foglie, avevano borse di rete gettate sulle spalle e sfoggiavano copricapo di piume d’uccello, mentre quelli del 2006 indossavano la solita tenuta standard internazionale a base di camicie, calzoni, gonne, pantaloncini e berretti con la visiera. Nell’arco di un paio di generazioni, e della vita di molti dei presenti in quell’aeroporto, gli abitanti degli altipiani avevano imparato a scrivere, a usare il computer e ad andare in aereo. Forse alcuni di essi erano stati addirittura i primi della tribú ad alfabetizzarsi. In mezzo a quella folla il gap generazionale era perfettamente incarnato da due individui, il piú giovane dei quali, in divisa da pilota, conduceva il piú anziano. Come lui stesso mi spiegò, stava accompagnando il nonno nel suo primo volo in aereo, e il vecchio dai capelli grigi si guardava intorno con un’aria stranita e impotente molto simile a quella degli abitanti degli altipiani fotografati nel 1931.
Un osservatore versato nella storia della Nuova Guinea avrebbe tuttavia rilevato fra le due scene differenze piú sostanziali dei vecchi gonnellini d’erba e del nuovo look all’occidentale. Nel 1931 nelle società tradizionali degli altipiani non solo non esistevano indumenti di produzione industriale, ma nemmeno le moderne tecnologie – dagli orologi ai telefoni, dalle carte di credito ai computer, dalle scale mobili agli aerei. Cosa ancor piú fondamentale, non esistevano scrittura, manufatti di metallo, denaro, scuole e forme di governo centralizzato. E se a raccontarci come’è andata a finire non vi fosse la storia recente, forse saremmo qui a domandarci se è davvero possibile che una popolazione completamente digiuna di scrittura possa impadronirsene nell’arco di una sola generazione.
Un osservatore versato nella storia della Nuova Guinea e molto attento avrebbe poi rilevato nella scena del 2006 ulteriori particolari comuni a molti aeroporti moderni, ma assenti dalle foto dei ricognitori protagonisti dello storico incontro. Nel primo caso infatti constatiamo la presenza di un’alta percentuale di teste canute, mentre in genere nelle società tradizionali degli altipiani pochi sopravvivevano fino alla vecchiaia. La folla guineana dell’aeroporto, inoltre, pur presentandosi all’occhio di un occidentale inesperto come una massa «omogenea» di individui di pelle scura con capelli crespi (tavv. 1, 13, 26, 30, 31, 32), era assai eterogenea dal punto di vista dell’aspetto: c’erano gli abitanti delle pianure della costa meridionale, alti, con barbe rade e facce piú sottili; quelli delle zone montuose interne, piú bassi, con barbe piú folte e facce piú larghe; e infine gli isolani e gli abitanti delle pianure della costa settentrionale, dai lineamenti piú asiatici. Nel 1931 sarebbe stato del tutto impossibile vedere insieme abitanti degli altipiani e delle pianure delle due coste, e qualunque assembramento di persone in Nuova Guinea sarebbe risultato molto piú omogeneo di quello nell’aeroporto del 2006. Un linguista che si fosse messo in ascolto della folla avrebbe poi riconosciuto lingue diverse appartenenti a ceppi ben distinti: lingue tonali come il cinese, dominate dall’altezza del suono delle parole, lingue austronesiane composte da sillabe e consonanti abbastanza semplici, e lingue papua non tonali. Nel 1931 sarebbe stato già possibile vedere insieme singoli individui di lingue diverse, ma non certo un’intera folla che parlava decine di idiomi differenti. Nel 2006 al banco del check-in, e in molte delle conversazioni udibili fra i passeggeri, due erano le lingue diffuse piú usate: l’inglese e il tok pisin (noto anche come neomelanesiano o pidgin english); nel 1931, invece, sugli altipiani le conversazioni si svolgevano rigorosamente negli idiomi locali, ciascuno dei quali confinato entro una piccola area geografica.
Un’altra sottile differenza fra le scene del 1931 e del 2006 è che la folla in aeroporto comprendeva alcuni guineani dalla tipologia fisica tristemente americana, individui sovrappeso con «pance da birra» che straripavano dalle cinture dei calzoni, mentre nelle foto di settantacinque anni prima non appare un solo individuo sovrappeso e tutti si presentano anzi snelli e muscolosi (tav. 30). A giudicare dalle moderne statistiche del sistema sanitario pubblico di Papua Nuova Guinea, se all’epoca avessi potuto intervistare i medici curanti di quei passeggeri mi sarebbero stati riportati casi sempre piú frequenti di diabete legato a problemi ponderali, di ipertensione, malattie cardiache, infarto e cancro, tutte patologie sconosciute soltanto una generazione prima.
A distinguere ancora le due scene c’era poi qualcosa che nel mondo moderno diamo ormai per scontato: sebbene la maggioranza delle persone ammassate in quella sala d’aeroporto fosse composta da sconosciuti che non si erano mai incontrati prima, a nessuno veniva in mente di aggredire il proprio vicino solo per questo – fatto inimmaginabile nel 1931, quando i contatti fra estranei erano rari, pericolosi e tendenti a degenerare in violenza. Certo, nel 2006 c’erano i due poliziotti incaricati di mantenere l’ordine pubblico, ma di fatto a mantenere l’ordine era la folla stessa, visto che là in mezzo nessuno temeva di essere attaccato e tutti sapevano di vivere in una società dove, in caso di tafferugli, agenti e militari erano sempre e comunque a portata di mano. Nel 1931 polizia e autorità statali invece non esistevano. I passeggeri del 2006 avevano inoltre il diritto di recarsi in aereo o con qualsiasi altro mezzo a Wapenamanda e in ogni altro posto della Nuova Guinea senza dover chiedere alcun permesso. La libertà di circolazione, prerogativa ormai acquisita nel mondo occidentale, una volta era l’eccezione, non la regola, e nel 1931 nessun guineano di Goroka era mai stato a Wapenamanda, solo 170 chilometri piú a ovest, perché l’idea di poter compiere quello spostamento senza restare ucciso entro i primi 20 chilometri in quanto forestiero era del tutto impensabile. Io invece avevo appena fatto 7000 miglia, da Los Angeles a Port Moresby, coprendo una distanza centinaia di volte superiore a quella a cui qualunque abitante degli altipiani di allora si sarebbe spinto in tutta la sua vita, partendo dal luogo dove era nato.
Potremmo sintetizzare tutte queste differenze tra la scena del 2006 e le foto del 1931 dicendo che in quei settantacinque anni la popolazione delle regioni interne papuane ha vissuto cambiamenti per cui, nel resto del mondo, sono occorsi migliaia di anni. Se si considerano poi i singoli individui, tali cambiamenti sono stati ancora piú rapidi: alcuni amici guineani mi hanno raccontato di avere affilato le ultime asce di pietra e partecipato alle ultime battaglie fra tribú tradizionali solo dieci anni prima di conoscermi. Oggi i cittadini dei paesi industriali non trovano nulla di strano nella scena del 2006: metalli, scrittura, automobili, aerei, polizia e governo, persone sovrappeso, pacifici incontri tra sconosciuti, popolazioni eterogenee e via dicendo – tutte cose normali per le società moderne, ma relativamente recenti nella storia dell’uomo. Per la maggior parte dei 6 milioni di anni trascorsi da quando le linee evolutive del protouomo e del protoscimpanzé si separarono, nessuna società umana ha avuto a disposizione i metalli e gli altri elementi appena citati. Si tratta infatti di prodotti moderni comparsi solo negli ultimi 11 000 anni e solo in alcune zone del pianeta.
Sotto certi aspetti la Nuova Guinea1 rappresenta dunque una finestra sul mondo per come, in termini di evoluzione umana lungo questa scala di 6 milioni di anni, esso si è presentato praticamente fino a ieri (e sottolineo «sotto certi aspetti», poiché evidentemente nel 1931 gli altipiani della Nuova Guinea non erano in tutto e per tutto il mondo immutato di ieri). I cambiamenti intervenuti nelle zone montuose interne nei settantacinque anni presi in considerazione sono infatti intervenuti anche in altre società, con la differenza che nel resto del mondo sono comparsi prima e in maniera molto piú graduale che in Nuova Guinea. Anche il termine «graduale» è tuttavia relativo: persino nelle società in cui i cambiamenti avevano avuto origine, la cornice temporale di 11 000 anni appare minuscola rispetto ai 6 milioni di anni di storia dell’uomo. Fondamentalmente, dunque, le società umane hanno subito trasformazioni profonde solo in tempi recenti e in modo rapido.
Perché studiare le società tradizionali?
Perché le società cosiddette «tradizionali» ci affascinano?2. In parte per via del loro interesse sul piano umano: è il fascino di conoscere persone a noi tanto simili e per certi versi comprensibili, e insieme tanto diverse e incomprensibili. Quando nel 1964 arrivai in Nuova Guinea per la prima volta, a 26 anni, rimasi colpito dall’esoticità dei suoi abitanti: cosí lontani dagli americani nell’aspetto e cosí diversi nell’abbigliamento, negli idiomi, nei comportamenti. Nell’arco dei decenni successivi e dei miei frequenti soggiorni nelle varie zone della Nuova Guinea e delle vicine isole, soggiorni lunghi anche cinque mesi, il senso di esoticità ha però smesso di predominare e, con l’instaurarsi di rapporti sempre piú personali, ha finito per cedere il passo a un senso di comunanza: oggi io e i miei amici guineani facciamo lunghe conversazioni, ridiamo per le stesse barzellette, condividiamo lo stesso interesse per i figli, il sesso, il cibo e lo sport, ci arrabbiamo, ci spaventiamo, soffriamo, proviamo sollievo e gioiamo insieme. Persino i loro idiomi sono diventati per me varianti di motivi linguistici familiari e universali. Il primo che imparai, il foré, non intrattiene alcuna relazione con le lingue indoeuropee e quindi mi si presentava con un vocabolario completamente nuovo; ciononostante, anch’esso ha coniugazioni verbali elaborate come il tedesco, pronomi duali come lo sloveno, posposizioni come il finnico e tre avverbi dimostrativi («questo», «codesto» e «quello») come il latino.
Analogie che, dopo l’iniziale senso di esoticità, mi indussero erroneamente a pensare che in fondo le persone fossero un po’ uguali dappertutto. Invece no, per numerosi e importanti versi non siamo affatto uguali: molti miei amici guineani contano in maniera diversa (tramite mappatura visiva anziché per numeri astratti), scelgono il partner in maniera diversa, trattano genitori e figli in maniera diversa, considerano il pericolo in maniera diversa e hanno un concetto di amicizia diverso. Proprio da questa disorientante miscela di somiglianze e differenze nasce parte del fascino che le società tradizionali esercitano sull’osservatore esterno.
Un altro motivo di interesse e importanza è che queste società conservano caratteristiche precipue del modo in cui tutti i nostri avi hanno vissuto per decine di migliaia di anni, praticamente fino a ieri. Sono gli stili di vita tradizionali ad averci plasmato e portato a essere ciò che siamo ora. Il passaggio dalla modalità di caccia e raccolta all’agricoltura ebbe inizio solo 11 000 anni fa circa, i primi utensili di metallo risalgono ad appena 7000 anni fa e le prime forme di governo e di scrittura a 5400. Anche a livello locale le condizioni della «modernità» prevalgono solo da una frazione infinitesimale della storia, e tutte le società umane sono state tradizionali molto piú a lungo di quanto qualsiasi società sia mai stata moderna. I lettori odierni di questo libro dànno per scontato che ciò che mangiano venga coltivato o allevato e poi venduto in negozio, e non che lo si debba cacciare o raccogliere ogni giorno; che attrezzi e utensili siano di metallo anziché di osso, pietra o legno; che esistano stati dotati di un governo, dei relativi organi di giustizia e polizia e di un esercito, e che tutti sappiano leggere e scrivere. Ma queste apparenti necessità sono cose piuttosto nuove, e centinaia di milioni di persone al mondo continuano a vivere almeno in parte in modo tradizionale.
Persino nelle moderne società industriali vi sono ambiti in cui continuano a operare solidi meccanismi tradizionali. In molte zone rurali del Primo Mondo, come per esempio la valle del Montana dove ogni anno trascorro le vacanze estive, alcune controversie vengono tuttora risolte non davanti al giudice, bensí tramite meccanismi informali di tipo tradizionale. E nelle grandi città le gang non si rivolgono alla polizia per appianare i conflitti, ma si affidano a forme di trattativa, composizione, intimidazione e guerra tradizionali. Ho amici cresciuti in piccoli paesi europei negli anni 1950 che descrivono la propria infanzia come quella nei villaggi tradizionali della Nuova Guinea: dove tutti conoscevano tutti, sapevano che cosa facevano gli altri e dicevano la loro in merito; dove ci si sposava solo con persone nate nel raggio di un paio di chilometri dal proprio paese d’origine e lí si restava tutta la vita, o nelle immediate vicinanze, tranne i giovani che partivano per la guerra; e dove i dissapori dovevano necessariamente trovare forme di composizione che ricucissero i rapporti, o che li rendessero almeno tollerabili, perché si era comunque destinati a trascorrere tutta la vita gli uni accanto agli altri. In altre parole, il mondo di ieri non è stato cancellato e sostituito in toto dal mondo di oggi, e molto di esso è ancora con noi. Ecco un altro motivo per cui comprenderlo è utile e auspicabile.
Come vedremo nei vari capitoli del libro, nelle loro pratiche culturali le società tradizionali sono assai piú diversificate delle moderne società industriali. All’interno di questo spettro di diversità, molte norme culturali vigenti nelle moderne società di tipo statale risultano piuttosto polarizzate rispetto a quelle tradizionali e si attestano quindi agli estremi dello spettro stesso. Paragonate per esempio a una società industriale moderna qualsiasi, alcune società tradizionali trattano gli anziani in modo molto piú crudele, mentre altre offrono loro possibilità di vita decisamente migliori; le moderne società industriali si avvicinano comunque piú al primo estremo che non al secondo. Ciononostante, gli psicologi fondano buona parte delle loro generalizzazioni su analisi della nostra limitata e atipica fetta della variabile umana. Dei soggetti presi a campione in alcuni studi pubblicati nel 2008 da illustri riviste di psicologia, il 96 per cento proveniva da paesi industrializzati occidentalizzati (Nordamerica, Europa, Australia, Nuova Zelanda e Israele), il 68 per cento dagli Stati Uniti in particolare, e in quasi l’80 per cento dei casi si trattava di studenti universitari iscritti a corsi di psicologia, vale a dire di soggetti non rappresentativi nemmeno delle loro realtà nazionali. Ciò significa che, per dirla con i sociologi Joseph Henrich, Steven Heine e Ara Norenzayan, il grosso della nostra conoscenza della psicologia umana si basa sull’osservazione di individui che possono essere descritti per mezzo dell’acronimo WEIRD: provenienti cioè da società occidentali (western), istruite (educated), industrializzate (industrialized), ricche (rich) e democratiche (democratic). Stando ai parametri di variabilità culturale mondiale, la maggioranza di essi appare inoltre letteralmente strana3, visto che risultano esclusi da molti studi di settore basati su campioni piú ampi e riguardanti fattori quali percezione visiva, equanimità, collaborazione, punizione, ragionamento biologico, orientamento spaziale, ragionamento analitico contro ragionamento olistico, ragionamento morale, motivazione a conformarsi, capacità decisionale e concezione di sé. Se vogliamo dunque generalizzare sulla natura umana, dobbiamo anzitutto allargare il nostro campione di studio dai soliti soggetti WEIRD (maggioranza di studenti di psicologia americani di sesso maschile) all’intero range delle società tradizionali.
Se a partire dalle indagini su tali società i socioantropologi potranno cosí tirare conclusioni di interesse accademico, il resto di noi potrà magari imparare qualcosa di interesse pratico, perché di fatto le società tradizionali rappresentano migliaia di esperimenti naturali su come si costruisce una società umana e hanno già risposto ai problemi con migliaia di soluzioni diverse da quelle adottate dalle nostre moderne società WEIRD. Scopriremo dunque che alcune di queste soluzioni – in che modo per esempio le società tradizionali allevano i figli, trattano gli anziani, preservano la salute, comunicano, trascorrono il tempo libero e risolvono le dispute – possono sorprenderci per la loro superiorità rispetto alle normali pratiche del Primo Mondo, e che adottandone alcune potremmo persino guadagnarci. Qualcuno di noi già lo fa, traendone benefici ormai dimostrati sia sul piano della salute sia su quello della felicità. Per certi aspetti noi moderni siamo dei disadattati, e il nostro corpo e le nostre abitudini si trovano oggi ad affrontare condizioni diverse da quelle in cui si sono evoluti e a cui, appunto, si sono adattati.
Tuttavia non dovremmo nemmeno scivolare all’estremo opposto, idealizzando il passato e anelando il ritorno a tempi di maggior semplicità. Possiamo infatti considerarci fortunati di esserci liberati da molte pratiche e consuetudini tradizionali come l’infanticidio, l’abba...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il mondo fino a ieri
  3. Il mondo fino a ieri
  4. Letture consigliate
  5. Ringraziamenti
  6. INSERTO FOTOGRAFICO
  7. Iconografia
  8. Indice analitico
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright