Dieci secoli di Medioevo
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Dieci secoli di Medioevo

  1. 440 pagine
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Dieci secoli di Medioevo

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Unico fra i grandi periodi della storia, il medioevo è anche un concetto polemico: additato dagli Umanisti, che rimpiangevano i fasti della classicità, come limbo pieno di disordine; accusato dalla Riforma di asfissiante papismo; definito dai Lumi come insieme di secoli bui; ripreso e rivalutato - sempre pretestuosamente - dal Romanticismo politico e letterario impegnato nelle prime «invenzioni della tradizione».
Ma se dalla parola-contenitore ci si sposta al reale contenuto di un intero millennio, la prospettiva cambia. Due importanti medievisti ripercorrono in modo cronologico e tematico un'incessante e sempre originale avventura di fondazione, a cui dobbiamo non poche delle nostre realtà politiche, economiche e religiose. A patto di rinunciare ad alcuni, apparentemente irriducibili, stereotipi colti.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410714
Argomento
History
Categoria
World History

Parte seconda

Poteri e strutture del potere: basso medioevo

Capitolo primo

Le trasformazioni dell’ordinamento pubblico dopo
le «seconde invasioni»

Nel corso dei quattro secoli che avevano fatto seguito alla disgregazione dell’Impero romano si era andato via via definendo un Occidente dalle caratteristiche sostanzialmente omogenee in cui l’affermazione franca aveva indicato un modello di funzionamento del potere che, ricuperando in parte suggestioni romanistiche e sollecitato da una visione universalistica sostenuta dalla Chiesa, si era mostrato in grado di inquadrare in maniera abbastanza organica le popolazioni di gran parte dell’Europa continentale, controllando le persistenti spinte centrifughe determinate dalla complessa varietà delle componenti del vasto Impero creato da Carlo Magno.
Abbiamo visto che tra i secoli IX e X, in concomitanza con la crisi dinastica carolingia, l’apparente sicurezza dell’Occidente era stata messa a dura prova dall’irruzione violenta di popolazioni esterne all’Impero, che da ogni parte ne avevano aggredito il territorio. A questa improvvisa ondata di aggressioni la storiografia ha tradizionalmente assegnato il nome di «seconde invasioni», paragonandole in un certo senso a quelle «migrazioni di popoli» (Volkswanderungen) che avevano caratterizzato i secoli conclusivi dell’Impero romano. L’analisi condotta nel capitolo IV della prima parte dimostra che l’analogia è solo apparente: i nuclei di aggressori, in numero di norma circoscritto, ancorché minaccioso, non provocarono la radicale trasformazione delle strutture politiche che fu conseguenza delle “prime invasioni”, neppure nei casi in cui si stanziarono definitivamente nel territorio dell’Impero, erodendone ai margini l’originaria configurazione, in quanto – di massima – si integrarono politicamente nelle forme di governo preesistenti.
Ciò non significa, si badi, che l’impatto concreto ed emotivo di queste ondate di violenza non avesse colpito duramente l’Occidente: «Voi vedete esplodere dinanzi a voi la collera del Signore» – osservavano con angoscia nel 909 i vescovi della provincia di Reims riuniti alla sinodo di Trosly – «Non vi sono che città spopolate, monasteri rasi al suolo o incendiati, campi resi deserti … Ovunque il potente opprime il debole e gli uomini sono simili ai pesci del mare che si divorano alla rinfusa tra loro». I danni furono ingenti, molte città subirono gravi distruzioni, vi fu una decadenza delle campagne, abbandonate dai contadini, e dei commerci, diventati insicuri, in un clima di generale disordine, provocato dal perpetuo allarme a cui la debolezza del potere centrale non fu in grado di fare fronte. L’emergenza durò, nelle zone direttamente colpite, piú di un secolo, suggerendo l’immagine di un’Europa come “cittadella assediata” dai nuovi barbari, ma va detto che proprio la reazione indotta dal diffuso fenomeno contribuirà indubbiamente alla profonda trasformazione dell’Occidente – e alla sua definitiva affermazione –, avviando processi che avrebbero avuto maturazione a partire dal secolo XI, in concomitanza con lo slancio demografico e con lo sviluppo economico, e portando alla ribalta popoli che, come i Normanni, sarebbero diventati in seguito i nuovi protagonisti del medioevo europeo.
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Cartina 4. Musulmani, Normanni e Ungari.
1. Musulmani, Normanni e Ungari fra espansione e integrazione.
Ancorché concomitanti nella fase aggressiva per la strutturale debolezza del potere centrale, le forze in gioco fra i secoli IX e X si distinguevano fra loro sia per la diversa provenienza, sia per il differente modo di rapportarsi con le singole realtà locali. Cosí l’aggressione araba riguardò prevalentemente le regioni mediterranee, mentre quella normanna coinvolse l’Europa settentrionale: in entrambi i casi il mare fu loro alleato, perché il mondo nato dall’esperienza franca manifestava al proposito la sua totale inadeguatezza. Entrambi riuscirono a dare vita a formazioni statali di una certa permanenza, pur muovendo da esperienze molto diverse. Gli Arabi avevano in breve travolto i residui dell’Impero persiano e le frange orientali di quello bizantino, ridisegnando la geografia del Vicino Oriente fino all’Indo, dell’Africa settentrionale e in seguito della Penisola iberica (al-Andalus) e dando vita a un vero impero (specie con la monarchia degli Abbasidi), centralizzato nella prima metà del secolo VIII attraverso l’adozione di una burocrazia di lingua araba ed economicamente sviluppato grazie a una fitta rete commerciale.
Se i Carolingi erano riusciti ad arginarne l’avanzata terrestre, attestandosi sulla linea di Barcellona, sfuggí invece loro il controllo navale del Mediterraneo, che neanche i Bizantini erano ormai in grado di sostenere. Ciò favorí, a partire dal terzo decennio del secolo IX, il moltiplicarsi di incursioni – per lo piú non sistematiche – sulle coste dell’Italia meridionale da parte di bande di pirati «saraceni» provenienti dal Maghreb islamico che nel 902 pervennero alla completa conquista della Sicilia bizantina e al tempo stesso insidiarono con continue scorrerie le coste tirreniche e adriatiche, occupando temporaneamente Bari e Taranto. Altre bande di predoni, forse di origine basca e comunque non arabi, saccheggiarono il territorio del basso Rodano e attorno all’890 si insediarono nel temibile covo di Fraxinetum sulla Costa Azzurra, da dove controllavano le vie di comunicazione con l’interno, spingendosi fino alle valli alpine. Soltanto un secolo piú tardi – nel 973 – l’azione congiunta del marchese di Torino e del conte di Provenza riuscí a distruggerne il covo, mentre in Sicilia il governo musulmano avrebbe prosperato sino al principio del secolo XII, lasciando un’impronta profonda sulle strutture dell’isola, che solo allora fu conquistata dal normanno Ruggero d’Altavilla, disceso proprio da una stirpe di altri “invasori” che duecento anni prima avevano terrorizzato l’Europa.
Abbiamo sopra analizzato in dettaglio la mobilità di popolazioni stanziate nella regione scandinava: Danesi, Gotar, Svedesi, Norvegesi, dalla lingua e dai costumi simili ancorché senza un’organizzazione politica unitaria. Erano indicate con il generico nome di «uomini del Nord» (Normanni) da parte di coloro che, a partire dal secolo IX, ne subivano le incursioni attuate dalle «lunghe navi» (drakar, di 20-25 metri di lunghezza) che non solo razziavano le coste settentrionali dell’Europa e delle isole britanniche, ma risalivano anche i corsi dei grandi fiumi navigabili, saccheggiando città e campagne. La prima fase dell’espansione scandinava fu caratterizzata proprio dalla ferocia degli attacchi improvvisi e concentrati e dal terrore che suscitavano e culminò con l’incendio di Parigi nell’859.
Progressivamente, le rapide scorrerie furono sostituite dall’imposizione di riscatti collettivi (danegeld) alle popolazioni aggredite e dalla creazione di insediamenti commerciali che diedero in seguito vita a vere e proprie formazioni politiche, frutto della conquista militare. S’è visto che l’Inghilterra era stata conquistata completamente sotto Canuto il Grande fra il 1014 e il 1016; mentre era fallito il tentativo di conquista dell’Irlanda da parte dei Normanni della Norvegia che, fin dal secolo precedente, avevano tuttavia scoperto e occupato la Groenlandia. Non fu esclusivo il contributo dei Vareghi alla creazione dei principati russi, come Nòvgorod e Kiev, dal momento che gli Slavi avevano avviato la costruzione di apparati che ricorrevano ai Vareghi come guerrieri professionisti.
Nella regione di Caux (il futuro ducato di Normandia), ottenuta a titolo di beneficio nel 911 dal loro capo Rollone, i Normanni si integrarono presto nel mondo franco, acquisendone le consuetudini istituzionali e convertendosi al cristianesimo. Da quella regione – oltre un secolo piú tardi – partí il duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, che con la battaglia di Hastings nel 1066 portò a compimento la conquista dell’Inghilterra.
Altri Normanni scelsero invece – come avevano già fatto i Vareghi – l’attività di mercenari, mettendosi a servizio delle forze in lotta nell’Italia meridionale, dove alla metà del secolo XI Roberto detto il Guiscardo della famiglia degli Altavilla (Hauteville) riuscí a imporsi, estromettendo i Bizantini da Reggio Calabria e da Bari e in seguito sottraendo la Sicilia ai musulmani. Fu però lo stretto legame istituito con il papato, a cui si sottomisero feudalmente, che consentí ai Normanni non solo la loro affermazione nel Mezzogiorno (con il riconoscimento del ducato di Puglia e di Calabria), ma soprattutto la conquista della Sicilia, a opera di Ruggero, fratello di Roberto, al quale il papa concedette nel 1098 la dignità di legato apostolico.
La comparsa in Europa della terza popolazione di “invasori”, gli Ungari o Magiari, rispetto alle altre due assume una diversa caratteristica che appare piú simile alle dinamiche sottese alle «prime invasioni»: gli Ungari erano infatti nomadi di lingua ugrofinnica della steppa asiatica a nord degli Urali che, trasferitisi verso la metà del secolo VIII lungo il basso corso del Don, successivamente vennero spinti verso Occidente dai turchi Cazari e Peceneghi. Abbiamo visto che, dopo aver sconfitto gli slavi Moravi nell’896, rompendo definitivamente il blocco slavo occidentale, sotto la guida del loro capo Árpád si stanziarono in Pannonia, nella Pianura danubiana, donde partivano i loro raids stagionali – piú di trenta nel corso di meno di un secolo – verso le terre dell’Impero; gli Ungari infatti si spinsero fino alla Pianura padana, dove nel 924 saccheggiarono Pavia, alla Sassonia e alla Lorena. Con la tecnica della rapida scorreria, squadre di cavalieri ungari colpivano i loro obiettivi, seminando il panico, catturando schiavi e imponendo pesanti tributi alle popolazioni aggredite. Per controbatterne gli attacchi, i re di Germania seppero organizzare forze di cavalleria leggera, in grado di fronteggiare quella ungara, fino a quando nel 955 Ottone I inflisse loro una pesante sconfitta a Lechfeld. Nel corso del cinquantennio successivo gli Ungari vennero tuttavia a patti con i sovrani tedeschi, progressivamente si sedentarizzarono nella regione che da loro prese il nome di Ungheria, interrompendo le periodiche scorrerie, fino alla conversione-integrazione sancita nel 1001 con l’invio a Stefano della corona regia da parte di papa Silvestro II.
2. La reazione dell’Occidente e il radicamento degli “invasori”.
L’irruzione delle popolazioni fino allora estranee alle vicende dell’Occidente dominato da Franchi al principio rispondeva certo alla ricerca del ricco bottino che i territori dell’Impero potevano offrire; fu resa possibile dalle tecniche militari messe a punto dagli “invasori”, inconsuete o comunque poco sviluppate nel mondo carolingio e postcarolingio, come per esempio l’uso di flotte composte da navigli agili e rapidi – nel caso dei Normanni e dei Saraceni –, o di reparti mobili di cavalleria leggera, nel caso degli Ungari. Ma fu senz’altro facilitata dall’inconsistenza della difesa opposta dagli organismi centrali, impotenti a mobilitare eserciti in grado di fronteggiare le tecniche di guerriglia degli aggressori. Le sole vittorie militari furono infatti ottenute quando Ottone I seppe organizzare la sua cavalleria a Lechfeld, oppure conti e marchesi di Provenza e del regno d’Italia coordinarono le forze nella distruzione del Fraxinetum, e infine quando le nuove flotte – commerciali e militari insieme – delle città costiere italiane (Genova e Pisa) riuscirono a riprendere il controllo del Tirreno nel corso del secolo XI.
Alla strutturale debolezza del potere pubblico, fin dalla metà del secolo IX, aveva reagito un movimento spontaneo di autodifesa da parte delle popolazioni e soprattutto dei potentes in grado di garantire a esse protezione (non gratuita!) Una prima attestazione dell’autonomo moltiplicarsi delle difese – come si è visto in precedenza – si rintraccia infatti in un capitolare di Carlo il Calvo dell’864 che intima la distruzione di quei castelli illegalmente edificati (castra adulterina) sí contro le invasioni, ma poi usati per sottomettere all’autorità dei loro possessori i residenti e i vicini. Non sfuggiva cioè al legislatore la pericolosità connessa con la detenzione di strumenti bellici come i castelli che, con il pretesto dell’emergenza – tutt’altro che fittizia, beninteso –, rischiavano poi di sottrarre per un tempo indeterminato al controllo pubblico coloro che vi si erano rifugiati. La linea del rigore, almeno formale, non sopravvisse tuttavia alla fine dei Carolingi, anche perché non cessavano, anzi si moltiplicavano un po’ ovunque le aggressioni, sicché nel secolo X i sovrani postcarolingi – ma già lo aveva fatto nell’887 Carlo il Grosso con il vescovo di Langres – non solo finirono per non condannare piú i tentativi di autodifesa, ma in alcuni casi conferirono loro esplicita legittimazione, specie alle iniziative sostenute dai vescovi per proteggere la comunità urbana, e dunque concedettero le mura urbiche e le fortificazioni, come fece Berengario I nel 904 a favore del vescovo di Bergamo.
Non solo ai vescovi, ma anche a privati e a comunità – nel 906 a un diacono del Veronese e nel 911 a una collettività del Novarese – furono rilasciate concessioni analoghe per costruire castelli nel contado da parte di re e di imperatori, che le motivarono con il pericolo dei pagani e dei mali christiani. Un riferimento che la dice lunga sul clima di endemica violenza e di disordine che connotava la prima metà del secolo X, in cui agli invasori esterni si dovevano accompagnare bande locali che approfittavano dell’emergenza. Se è vero che – al contrario di quanto sostenesse la storiografia del passato – non bisogna mettere in stretta dipendenza lo sviluppo dell’incastellamento e della signoria con il pericolo delle invasioni, non si può tuttavia ignorare che quella lunga fase di incertezza perdurata per oltre un secolo contribuí senz’altro a favorire la crescita di poteri centrifughi da parte delle aristocrazie di tradizione militare che già detenevano facoltà di comando e di protezione sui contadini che lavoravano i loro patrimoni.
Non meno determinante per gli sviluppi successivi di Normanni e di Ungari fu poi l’incontro-scontro fra i nuovi invasori e le tradizioni di governo dei paesi che avevano aggredito. Se alle «prime invasioni» era succeduta una fase di proficua confluenza delle componenti barbariche e romane, qualcosa di analogo accadde anche in questo frangente, sebbene in forma piú circoscritta rispetto al passato. Le strutture del potere, connesse con l’organizzazione tribale di quelle popolazioni, subirono una sostanziale trasformazione nel momento in cui gli equilibri fra le parti furono ricuperati e gli “invasori” integrati nel mondo postcarolingio, ma, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza, ciò determinò una significativa “occidentalizzazione”, non scevra tuttavia – come nel caso dei Normanni del Mezzogiorno d’Italia – da una piú complessa sintesi fra esperienze politico-istituzionali di tipo diverso.
Con la conquista dell’Inghilterra, Guglielmo il Conquistatore aveva infatti importato un modello di schema politico maturato al di là della Manica, prevalentemente impostato sui rapporti feudali instaurati fra il monarca e i suoi collaboratori che avevano contribuito alla vittoria e che ora si ripartivano quasi tutto il territorio conquistato. Distribuendo i feudi fra i suoi baroni – che alla fine del secolo assommavano a circa 180 –, Guglielmo stabilí particolareggiatamente il numero di cavalieri che ciascuno di loro doveva insediare sulle sue terre in modo da conoscere con precisione su quanti combattenti poteva contare; ciascun feudatario deteneva un fondo incastellato (manor), censito nel 1086 nel Domesday Book, il registro di tutti i possedimenti fondiari del regno, dei vassalli e degli abitanti residenti che costituí la base per l’imposizione dei tributi. Accanto a tale saldo inquadramento feudale, i Normanni conservarono tuttavia alcune strutture amministrative dei precedenti regni anglosassoni, come l’articolazione giudiziaria in centene e in shires, affidate al controllo fiscale degli sherifs.
Anche presso i Normanni che avevano conquistato il Mezzogiorno d’Italia furono importate le istituzioni feudali, ma la loro applicazione in un contesto mediterraneo di lunga tradizione amministrativa bizantina e poi musulmana sortí esiti diversi rispetto all’Inghilterra. Ruolo centrale assunse infatti – dopo l’incoronazione regia di Ruggero II nel 1130 – la figura del sovrano, non solo vertice della gerarchia delle fedeltà feudali, ma anche monarca (non senza suggestioni orientaleggianti) in grado di controllare il regno attraverso il funzionamento di una rete amministrativa – definita nel 1140 dall’Assise di Ariano – che organizzava in modo efficiente la giustizia e la fiscalità anche là dove, in modo non dissimile da quanto accadeva nel regno d’Italia, i baroni avevano sviluppato estesi poteri signorili o erano presenti vivaci comunità cittadine. All’amministrazione dei beni regi e alla riscossione fiscale provvedeva un sistema centralizzato di dohanae, mentre l’esercizio della giustizia regia era affidato a giustizieri provinciali, alle dipendenze di un Gran giustiziere di corte. L’organizzazione della corte costituí un potente correttivo ai tentativi centrifughi del potere locale dei baroni perché in parte ne assunse le competenze funzionariali, senza le pericolose contaminazioni, tuttavia, fra ufficio e patrimonio che avevano provocato la precoce dissoluzione del potere pubblico nell’Italia settentrionale, in parte li sottomise al controllo della cancelleria e alla burocrazia di corte che alla metà del secolo XII elaborò un «catalogo dei baroni» che, in maniera analoga al Domesday Book inglese, ne censiva obblighi e prerogative.
Nonostante non siano mancati contrasti fra burocrazia di corte e mondo feudale, che portarono occasionalmente a momenti di tensione, come attestano le insurrezioni avvenute al tempo di Maione di Bari, cancelliere di Guglielmo I, tra il 1154 e il 1160, il “modello” normanno di una forma di governo misto tra un feudalesimo (piuttosto rigido) e una parallela amministrazione centralizzata dal re manifestò una buona tenuta, al punto che fu ripreso anche negli sviluppi successivi del Mezzogiorno e venne, fin d’allora, esportato nei principati sorti dalle conquiste delle crociate, a partire da quello di Antiochia, fondato proprio dal normanno Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo.
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Figura 2. Formazione della signoria territoriale.
3. Lo sviluppo dei poteri signorili nelle campagne.
La reazione spontanea ai pericoli provocati dalle periodiche scorrerie che nel secolo X avevano tormentato l’Europa, come si è visto, aveva prodotto una capillare militarizzazione del territorio accentuando lo sviluppo autonomo del potere, tipico di quell’aristocrazia detentrice degli strumenti necessari per proteggere le popolazioni inermi, ma capace anche di usarli per ottenere la loro sottomissione. Nel corso del secolo X tale processo non si arrestò di certo con la sospensione delle scorrerie esterne in quanto i nuovi “signori” avevano sperimentato come fosse altamente remunerativo l’uso di facoltà di comando che, fuori dell’emergenza contingente, erano state prerogative quasi esclusive del potere regio. Nel collasso generale, tuttavia, le circoscrizioni tradizionali si erano andate disgregan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dieci secoli di Medioevo
  3. Premessa
  4. Orientamento bibliografico
  5. PARTE PRIMA - Poteri e strutture del potere: alto medioevo
  6. PARTE SECONDA - Poteri e strutture del potere: basso medioevo
  7. PARTE TERZA - Società, religione, economia
  8. Conclusioni
  9. Elenco dei nomi e dei luoghi
  10. Il libro
  11. Gli autori
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright