I racconti
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I racconti

1831-1849

  1. 736 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Inventore del racconto poliziesco e del thriller psicologico, nella sua sterminata produzione Edgar Allan Poe ha affrontato atmosfere torbide e terrificanti, trame allucinanti e bizzarre, intrecci misteriosi decifrabili solo con l'utilizzo di una lucida logica, mondi inquietanti e anche grotteschi, riuscendo sempre a penetrare a fondo nell'anima delle situazioni fino alle piú estreme conseguenze.
Questo volume che raccoglie i suoi racconti restituisce tutta la sua suprema intelligenza, la sua visionaria lucidità, la sua acuta percezione della realtà.
Il lungo saggio introduttivo di Julio Cortázar aiuta a leggere la vita e l'opera di Poe sotto una luce spogliata di quei riflessi che a partire dalla sua morte hanno cosí spesso fuorviato i lettori di uno dei piú grandi scrittori di tutti i tempi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858412220
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

I RACCONTI

METZENGERSTEIN

Pestis eram vivus – moriens tua mors ero.
MARTIN LUTERO
Non v’è età che orrore e fatalità non abbiano calpestato: perché dunque assegnare una data alla storia che intendo raccontare? Basterà dire che, nel tempo di cui parlo, all’interno dell’Ungheria si professava una fede salda quanto occulta nelle dottrine della metempsicosi. Quanto alle dottrine in sé, vale a dire se false o probabili, nulla dirò. Affermo, tuttavia, che non piccola parte della nostra incredulità (come dice La Bruyère della nostra infelicità) «vient de ne pouvoir être seuls»1.
Ma nella religio magiara v’erano punti che sfioravano l’assurdo. Costoro – gli ungheresi – si scostavano profondamente dai maestri orientali. Un esempio. L’anima, dicevano i primi, – cosí si esprime un acuto, geniale parigino, – «ne demeure qu’une seule fois dans un corps sensible: au reste – un cheval, un chien, un homme meme, n’est que la ressemblance peu tangible de ces animaux».
Le famiglie che reggevano le terre di Berlifitzing e Metzengerstein da secoli si detestavano. Mai prima di allora due case cosí illustri s’erano inasprite a tanto reciproco odio. Pare che le origini di codesta inimicizia fossero da ricercare nelle parole di una antica profezia: «Un nome altero conoscerà un pauroso crollo, quando, come il cavaliere governa il suo cavallo, cosí quel che è mortale nei Metzengerstein trionferà di quel che è immortale nei Berlifitzing».
Veramente, queste parole poco o niente significavano. Ma cause anche piú futili hanno dato origine – e non molto tempo fa – a conseguenze non meno fatali. Inoltre, le proprietà, essendo contigue, avevano a lungo esercitato contrastanti influenze sulla condotta di una potente amministrazione. Si sa poi che di rado i vicini sono amici; e i castellani di Berlifitzing potevano dai loro alti spalti guardar dentro le finestre del Palazzo Metzengerstein. Meno ancora quello splendore feudale, cosí svelato, poteva placare i sentimenti irritabili dei meno antichi e meno facoltosi Berlifitzing. Qual meraviglia, quindi, che le parole, per quanto sciocche, di quella predizione riuscissero ad aizzare e alimentare l’ostilità di due famiglie già inclinate alla rissa dagli assilli di un rancore ereditario? La profezia sembrava indicare – se indicava qualcosa – il trionfo finale della casata già piú potente, e veniva naturalmente rammentata con piú crucciosa animosità dai piú deboli e meno prestigiosi.
Wilhelm, Conte di Berlifitzing, sebbene di nobilissimo lignaggio, all’epoca di questo racconto era un vecchio infermo e dissennato, illustre solo per la sfrenata e inveterata avversione per la famiglia del rivale; era poi appassionato di cavalli e di caccia, tanto che né il corpo debilitato, né l’età avanzata, né il disordine della mente gli impedivano di affrontare quotidianamente i rischi di una partita di caccia.
D’altro canto, il Barone Metzengerstein, Frederick non era ancora maggiorenne. Suo padre, il ministro G., era morto in giovane età. La madre, Donna Maria, in breve gli tenne dietro. A quel tempo, Frederick aveva diciotto anni. In città, diciotto anni sono un periodo breve; ma nella solitudine selvatica e magnifica dell’antico principato, l’oscillar del pendolo scandisce piú fonde sentenze.
Talune circostanze riguardanti il governo paterno fecero sí che il giovane Barone, rimasto orfano, diventasse immediatamente signore di quelle proprietà enormi. Di rado s’erano viste in Ungheria tali proprietà in mano di un nobile. I castelli erano innumerevoli. Quanto a magnificenza e mole, sovrano era il Palazzo Metzengerstein. I confini dei domini non erano chiaramente definiti; ma il parco principale aveva un perimetro di cinquanta miglia.
Quando a proprietario tanto giovane, di carattere ben noto, toccò quella fortuna senza paragoni, non potevano esservi dubbi sul probabile comportamento di costui. E, veramente, per tre giorni, il contegno dell’erede fu efferato e sfrenato, e non di poco superò le previsioni dei suoi piú ardenti ammiratori. Vergognose orge, tradimenti sfrontati, atrocità senza nome, ammonirono gli spauriti vassalli, che né la loro servile sottomissione, né un obbligo di coscienza del loro signore, li avrebbe per il futuro protetti contro le zanne spietate di quel meschino Caligola. La notte della quarta giornata, le stalle del castello di Berlifitzing andarono a fuoco; e l’unanime opinione aggiunse quell’incendio al già tristo elenco dei misfatti e delle efferatezze del Barone.
Ma durante il concitato tumulto causato da quella sciagura, il giovane nobile sedeva, immerso nella meditazione, nella stanza superiore, ampia e deserta, del palazzo dei Metzengerstein. Le tappezzerie fastose anche se un poco sbiadite che tetre ondeggiavano lungo i muri raffiguravano le immagini tenebrose e maestose di mille illustri antenati. Qui, preti, dignitari pontifici, in vesti d’ermellino, agiatamente assisi accanto all’autocrate e sovrano, ponevano un veto alle ambizioni di un principe temporale, o con il fiat della supremazia papale infrenavano il sedizioso scettro del Nemico del genere umano. Là, ecco i Principi Metzengerstein, alti, olivastri – i loro muscolosi corsieri balzavano sui cadaveri dei nemici uccisi – il cui volto poderoso scuoteva i nervi piú saldi; e qui, ecco, cigni voluttuosi, le figure delle dame dei giorni trascorsi si perdevano nel labirinto di una danza fantastica accompagnando le note di una melodia immaginaria.
Ma mentre il Barone ascoltava, o faceva mostra d’ascoltare, il frastuono via via crescente attorno alle stalle di Berlifitzing, – o forse tramava un qualche gesto di inaudita, brutale temerarietà, – accadde che i suoi occhi si volgessero verso l’effige, raffigurata negli arazzi, di un cavallo enorme, di colore innaturale, proprietà di un antenato saraceno della famiglia rivale. Il cavallo stava in primo piano, immobile come una statua, mentre, piú addietro, il cavaliere sconfitto periva sotto la spada di un Metzengerstein.
Sul labbro di Frederick apparve una espressione diabolica, quando s’accorse in che direzione, senza che egli se ne avvedesse, aveva volto lo sguardo. Ma non lo scostò. Al contrario, non era in grado di spiegarsi l’intollerabile angoscia che come un sudario gli stringeva i sensi. Faticosamente conciliava quel sentimento fantastico e insensato con la chiara coscienza di esser desto. Quanto piú a lungo guardava, tanto piú cedeva alla fascinazione; e sempre piú arduo gli si faceva distogliere lo sguardo da quella magata tappezzeria. Ma il frastuono esterno diventando subitamente piú violento, con impetuoso, risoluto sforzo distolse l’attenzione verso il rosso bagliore che le stalle in fiamme mandavano contro le finestre delle sue stanze.
Fu l’azione d’un istante; e lo sguardo tornò agli arazzi. Con estremo, stupefatto orrore, vide che la testa del gigantesco destriero aveva nel frattempo cambiato posizione. Il collo dell’animale, già piegato, quasi pietosamente sul corpo prostrato del suo signore, era ora teso in tutta la sua lunghezza in direzione del Barone. Gli occhi, prima invisibili, avevano ora una intensa espressione umana, e insieme splendevano di un rosso infocato ed inconsueto; e le labbra dilatate del cavallo in preda a palese furore svelavano il ripugnante ossame delle zanne.
Atterrito, anneghittito, il giovane nobiluomo si trascinò barcollando alla porta. La spalancò, ed un bagliore di rossa luce, inondando la stanza, scagliò la sua ombra nitidamente segnata sulla instabile tappezzeria; e mentre indugiava barcollando sulla soglia, rabbrividí notando come quell’ombra assumesse tale posizione da combaciare esattamente con il profilo dello spietato, trionfante uccisore del saraceno Berlifitzing.
Per dar sollievo allo spirito sgomento, il Barone corse verso l’aria aperta. Alla porta principale del palazzo incontrò tre scudieri. Con difficoltà grande, e pericolo evidente di morte, costoro erano intenti a frenare i balzi convulsi di un cavallo gigantesco, color di fiamma.
– Questo cavallo, di chi è mai? Dove l’avete trovato? – interrogò il giovane, con voce pavida e roca, subito accorgendosi che il misterioso destriero della tappezzeria era l’esatta immagine del furibondo animale che gli stava davanti.
– È di vostra proprietà, signore, – rispose uno degli scudieri, – almeno nessun altro lo reclama come proprio. Lo prendemmo mentre fuggiva, fumante e schiumante di furore, dalle stalle incendiate del castello di Berlifitzing. Pensando che venisse dall’allevamento di cavalli stranieri del vecchio Conte, glielo riportammo come cavallo fuggitivo e disperso. Ma gli scudieri negano qualsiasi diritto sul cavallo; il che è strano, dato che reca segno evidente di essere a stento scampato alle fiamme.
– Inoltre, le lettere W.V.B. sono marchiate chiaramente sulla fronte, – interruppe un secondo scudiero; – le avevo interpretate come iniziali di Wilhelm Von Berlifitzing: ma, nel castello, tutti concordamente negano di aver mai visto un tal cavallo.
– Assai singolare! – disse il giovane Barone pensoso, senza badare alle parole che andava dicendo; – costui è veramente un cavallo straordinario, un cavallo prodigioso! Quantunque, come avete, con ragione, osservato, sia di temperamento infido, riottoso; in ogni caso, voglio che costui sia mio, – e, dopo una pausa, aggiunse: – forse un cavalier qual è Frederick di Metzengerstein riuscirà anche a domare il diavolo fuggito dalle stalle di Berlifitzing.
– Vi sbagliate, signore; il cavallo, come credo di avervi detto, non viene dalle stalle del Conte. In tal caso, non ci saremmo certo permessi di portarlo in presenza di un nobile della vostra famiglia.
– Giusto, – osservò bruscamente il Barone; e in quell’istante un paggio uscí dal palazzo, col volto eccitato e passo precipitoso. Sussurrò all’orecchio del suo signore il racconto della subitanea scomparsa di una piccola parte della tappezzeria, in una certa stanza che indicò; passando poi a riferire particolari di carattere minuto, circostanziato; ma tutto narrato a voce tanto sommessa, che nulla sfuggí a soddisfare l’eccitata curiosità degli scudieri.
Mentre ascoltava quel discorso, il giovane Frederick si mostrò turbato da una varietà di emozioni. In breve, tuttavia, ricuperò la sua compostezza, ed il suo volto assunse una espressione di caparbia malizia; poi diede perentori ordini; si chiudesse immediatamente quella stanza, e a lui se ne consegnasse la chiave.
– Avete udito della sventurata fine del vecchio cacciatore Berlifitzing? – disse al Barone uno dei vassalli, mentre, allontanatosi il paggio, l’enorme destriero che il nobile aveva adottato scalciava e corvettava con raddoppiata furia per il gran viale che dal palazzo portava alle stalle di Metzengerstein.
– No! – disse il Barone, volgendosi di scatto verso colui che gli aveva parlato, – morto! cosí hai detto?
– È cosí davvero, mio signore; e ad un nobile del vostro nome non sarà, suppongo, notizia ingrata.
Un sorriso balenò sul volto dell’ascoltatore. – Morto, e come?
– I suoi incauti sforzi di salvare una parte, a lui carissima, delle stalle, lo condusse a misera fine tra le fiamme.
– Ma ve-ra-men-te… – esclamò il Barone, come se lo affascinasse, lenta e potente, un’idea sconvolgente e reale.
– Veramente, – ripeté il vassallo.
– Straordinario! – disse, calmo, il giovane, e s’avviò tacito verso il palazzo.
Da quel giorno il contegno del dissoluto Barone Frederick Von Metzengerstein mutò affatto. I suoi modi, a dire il vero, delusero le generali attese, e si rivelarono poco favorevoli alle speranze e trame di non poche mammine; mentre le sue abitudini, i suoi modi, ancora meno di prima apparivano congeniali a quelli della aristocrazia locale. Mai si faceva vedere oltre i confini delle sue terre, e nel vasto mondo di quella società egli era affatto solo, a meno che quel demoniaco, poderoso cavallo color fiamma, che da allora egli ininterrottamente cavalcava, non avesse un qualche misterioso diritto al titolo di amico.
Per lungo tempo, tuttavia, continuarono ad arrivare periodici inviti da parte dei vicini. «Vuole il Barone onorare la nostra festa della sua presenza?» «Vuole il Barone partecipare alla caccia al cinghiale?» «Metzengerstein non va a caccia»; «Metzengerstein non verrà»; erano le risposte, laconiche ed altere.
Questi ripetuti insulti non erano tollerabili da parte di una superba nobiltà. Gli inviti si fecero meno cordiali, meno frequenti, finché cessarono affatto. La vedova dello sventurato Conte Berlifitzing fu udita esprimere la speranza che, «giacché disdegnava la compagnia dei suoi pari, gli accadesse di far da ospite a casa sua, quando in quella casa non voleva essere; e giacché preferiva la compagnia d’un cavallo, di cavalcare quando cavalcare non voleva». Va da sé, questa non era che la sciocca esplosione di un malanimo ereditario; e dimostrava solo quanto insensate possono farsi le nostre parole, quando desideriamo esprimerci con inconsueto calore.
I piú caritatevoli attribuivano la mutata condotta del giovane nobile al naturale dolore d’un figlio per la prematura morte dei genitori; dimenticando, certo, il suo contegno sfrenato e atroce durante il breve periodo che tenne dietro a quel lutto. Alcuni parlarono di stravagante superbia e presunzione. Altri ancora (tra i quali il medico di famiglia) non esitarono a parlare di melanconia morbosa, di ereditaria insania, mentre tra il popolo correvano tenebrose dicerie di piú ambigua natura.
E veramente, l’ostinata passione del Barone per quel suo destriero recentemente acquisito – passione che sembrava guadagnare forza ad ogni nuova prova della feroce e indemoniata natura della bestia – alla fine, agli occhi di tutti gli uomini ragionevoli, apparve come una frenesia innaturale ed orrida. Alla accecante luce meridiana – nel cupo della notte – sano o infermo – col sereno o nella tempesta – sempre il giovane Metzengerstein sembrava ribadito sulla sella di quel cavallo colossale, la cui sfrenata insolenza ben si accordava al suo carattere.
Talune circostanze, e insieme taluni accadimenti degli ultimi tempi, avevano conferito una qualità innaturale e portentosa tanto alla ossessione del cavaliere che alle poderose imprese della cavalcatura. Si misurò attentamente lo spazio varcato d’un solo balzo, e si trovò che superava, in misura sorprendente, le piú audaci congetture dei piú fantasiosi. Il Barone, si noti inoltre, non aveva dato alcun nome a questo animale, sebbene tutti gli altri cavalli della sua scuderia fossero contraddistinti da specifiche denominazioni. E ancora: a questo cavallo era stata destinata una stalla lontana dagli altri; e, inoltre, a strigliarlo ed alle altre necessarie incombenze solo il proprietario in persona osava provvedere, e nessuno s’arrischiava a metter piede nel suo recintato abituro. E anche questo si era notato: i tre scudieri erano bensí riusciti a catturare il destriero mentre fuggiva da Berlifitzing in fiamme, frenandone la precipitosa corsa grazie ad una briglia a cappio; e tuttavia nessuno di costoro poteva con certezza affermare di avere toccato di propria mano il corpo della bestia, durante quella perigliosa lotta. Per solito un cavallo nobile e di grande ardire che dia prova di singolare intelligenza non suscita una sprovveduta curiosità; ma qui si davano circostanze che a forza si imponevano agli scettici e agli indifferenti; e si dice che talora la folla che circondava l’animale si fosse ritratta, la bocca spalancata, inorridendo al tonfo fondo e significante di quello zoccolo potente; e talora il giovane Metzengerstein impallidiva, si ritraeva di fronte allo sguardo guizzante e indagatore di quegli occhi umani.
Alla corte del Barone, tuttavia, nessuno osava dubitare dello straordinario ardore con cui il giovane nobiluomo godeva dell’infuocata furia del destriero; nessuno, almeno, tolto un paggio, nano insignificante e sgraziato, la cui deformità era in uggia a tutti, e le cui opinioni non interessavano nessuno. Costui (se mette conto di citare quel che egli pensava) non si peritava di affermare che il suo padrone mai balzava in sella senza un occulto, appena percettibile brivido; e che, al ritorno dalle consuete e protratte cavalcate, un’espressione di malvagità gloriosa gli alterava i muscoli del volto.
Una notte di tempesta, Metzengerstein, destatosi da un greve sonno, discese come un folle dalla sua stanza e montando a cavallo di furia, con un balzo si immerse nelle ambagi della foresta. Accadimento tanto consueto non attrasse una particolare attenzione; ma i suoi domestici presero ad attendere con ansia intensa il suo ritorno, quando, trascorse alcune ore, si accorsero che i mirabili ed imponenti bastioni del Palazzo Metzengerstein crepitando vacillavano sulle fondamenta, preda di una massa livida e densa di indomabili fiamme.
Poiché il fuoco, quando era stato scoperto, già era cresciuto a tanto terribili dimensioni che qualsiasi sforzo di salvare parte dell’edificio era evidentemente vano, i vicini, attoniti, stavano tutt’attorno, immersi in un tacito anche se non indifferente stupore. Ma un nuovo, pauroso oggetto in breve fermò l’attenzione della folla, dimostrando quanto il turbamento che negli affetti d’una moltitudine suscita una atroce sofferenza umana, sia piú intenso dell’eccitazione che provoca lo spettacolo delle piú rovinose immagini che possa offrire la materia inanimata.
Lungo il viale delle antiche querce che dalla foresta portava all’entrata principale del P...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I racconti
  3. Edgar Allan Poe di Julio Cortázar
  4. Nota del traduttore
  5. I racconti
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright