Spesso ci dipingono cosí: arrendevoli, menefreghisti e incompetenti.
Faccio parte della fitta schiera, tutta italiana, dei professori precari. Siamo costretti a reinventarci a ogni cambio di classe, a confrontarci con situazioni sempre diverse, anche quando credi di averle provate quasi tutte. Non ci possiamo adagiare su una comoda realtà conosciuta, viviamo perennemente sotto esame: per ogni scuola nuova, allievi e colleghi sconosciuti a cui dimostrare quanto vali e che non hai intenzione di essere «solo un supplente». Siamo i panchinari della scuola italiana, quando il titolare subisce un infortunio o un’indisposizione entriamo in campo noi riserve, senza riscaldamento, senza conoscere gli schemi della squadra che improvvisamente diventa la nostra, buttati lí nel mezzo.
Ma finché ce n’è, noi stiamo lí.
E devi dimostrare ciò che vali davvero e anche un po’ in fretta, ai ragazzi prima di tutto perché con loro non puoi fingere, poi ai colleghi e ai presidi.
Insomma, una vera vita da mediano. Il nostro mondiale è raggiungere l’agognata supplenza annuale, il nostro momento di gloria: una o due classi che in pochi giorni diventano la «tua classe», e poi il tuo registro, alcune volte addirittura il tuo cassetto, anche se il cognome è appiccicato sopra con lo scotch.
Precario come me.
E nonostante tutto sono ancora fortunata, perché vivo e insegno a Torino, una grande città che mi permette di non dovermi spostare di migliaia di chilometri da un giorno all’altro, come invece sono costretti a fare i colleghi di regioni dove i posti sono ancora meno di quelli che può offrire il Piemonte.
Quando chiedono a mia figlia adolescente che lavoro fa la mamma, la vedo sempre un po’ indecisa, perché essere una precaria della scuola significa avere altri lavori altrettanto precari, per non restare senza stipendio nei periodi in cui non ti chiama nessuno, ma essere immediatamente liberi se arriva una chiamata.
Alla fine dell’anno scolastico, quando va bene, o piú spesso al termine della supplenza «breve e saltuaria», saluto tutti al suono dell’ultima campanella sapendo che probabilmente lí non tornerò mai piú e che quegli allievi, che nel frattempo sono diventati per me nomi propri, storie, sentimento, al massimo mi scriveranno per un po’ su facebook, ma il tratto di strada e di vita percorso insieme è finito, anzi improvvisamente interrotto.
Sono la loro semplicità e sincerità a dare la carica per continuare, loro sanno convincermi che il mio lavoro ha un senso.
Il problema è che la classe non è «un posto di lavoro» come molti altri, documenti e pratiche da sbrigare il meglio possibile: sono storie, splendide o tristissime, desiderio intenso di essere ascoltati da un adulto che non si limiti a giudicare, giovani sogni pieni di progetti per il futuro. E anche quei ragazzi che dicono di non averne, di sogni, o di non sapere… sono solo in attesa di qualcuno con cui valga la pena raccontarsi.
La classe è vivere, spesso con la porta chiusa, in venticinque nella stessa stanza di trenta metri quadrati per molte ore al giorno. È mescolare vite. Insofferenze gli uni per gli altri, starnuti, depressione e felicità incontenibile, voglia di capire e voglia di isolarsi. Certe giornate entrare lí è come scendere in un campo di battaglia e allora devi giocartela bene con i tuoi migliori alleati: l’amore eterno di Paolo e Francesca raccontato da Dante, quella sensazione immortale di infinito di Leopardi, la forza, la bellezza e la gioventú di Alessandro Magno, la grandezza della democrazia di Atene, i trecento eroi di Sparta, i nonni degli stessi ragazzi un po’ partigiani e un po’ no, il centro di Torino bombardato durante la guerra…
Altri giorni tutto è facile, viaggiamo alle origini dell’universo, combattiamo accanto ai rivoluzionari americani o francesi, conquistiamo faticosamente l’unità d’Italia o voliamo tra i sentimenti eterni dell’uomo sulle ali della poesia dei grandi e la classe gira insieme al mondo, con semplicità e naturalezza.
Poi la campanella suona, la fine dell’ora ci sorprende inaspettata e ci costringe a scendere a malincuore da quel treno privato che ci siamo costruiti lavorando insieme. Quelle sono le volte in cui esco di classe con la sensazione che il mondo è lí per me.
Alcuni di noi hanno imparato a fregarsene, per sopravvivenza, e cercano di non stabilire rapporti con gli allievi saltuari, consapevoli che tanto non dureranno piú di qualche mese. L’arma piú utilizzata è quella di non imparare nemmeno un nome… Finito il periodo di supplenza passano tranquillamente oltre.
Ma se il tuo cuore e il tuo cervello ti impongono di imparare nomi e cognomi di quegli occhi che ti fissano studiandoti, fosse anche per una settimana, tu sei già fregato e quando la breve supplenza inesorabilmente finirà lascerai un po’ di te tra quei banchi, con la stessa sensazione che si prova quando suona l’intervallo e tutti escono liberi in corridoio e tu sola resti in classe senza piú un ruolo certo, esclusa dalla festa che si svolge fuori.
Da sei anni vivo e lavoro cosí: la scuola mi chiama (fino a qualche anno fa sul cellulare, facendomi vivere con l’ansia ogni volta che mi trovavo in un posto senza segnale, ora, con la crisi e i tagli di tutto, solo via posta elettronica certificata che compulsivamente controllo ogni giorno) per verificare la mia disponibilità, cioè la mia attuale disoccupazione.
Quando tocca a me, la mattina successiva alla telefonata, comincio e ogni volta riorganizzo la mia vita e quella della mia famiglia. L’orario è rigido, non ho mai avuto la fortuna di restare due anni di seguito nella stessa scuola e quindi di avere diritto a qualche richiesta personale, per cui adeguo la gestione della giornata dei miei figli sulla base dell’orario che mi toccherà e che in alcuni anni è cambiato anche cinque o sei volte, con altrettante sedi scolastiche diverse.
I miei figli ogni volta si lamentano allo stesso modo: «ecco adesso avrai un’altra classe e penserai solo a loro, ai figli degli altri, invece che a noi», ma poi sono sempre partecipi e desiderosi dei racconti di tutte le avventure che in classe non mancano mai.
Arrivo a scuola e mi accoglie il o la bidella, motore e custode, figura di valore pratico e morale che si arriva a comprendere in pieno solo se a scuola si vive, altrimenti la si considera inutile e si taglia il suo servizio come superfluo, facendo passare quel taglio come una riforma. Il bidello mi manda in vicepresidenza dove colleghi, per la maggior parte donne, mi accolgono velocemente perché l’ora sta per cominciare e bisogna entrare in classe, mi danno due dritte sui problemi piú importanti che mi troverò ad affrontare, mi indicano la sala professori, mi prestano i libri di testo e mi augurano buon lavoro.
Ormai con gli anni anche io ho imparato il mio copione, cammino con un sorriso studiato che appaia cordiale ma non amichevole, autorevole piú che autoritario, per i corridoi tutti uguali e spesso sporchi delle scuole d’Italia, tra la curiosità dei ragazzi che si chiedono chi sia questa faccia nuova, poi mi avvicino a una classe, che a breve si trasformerà nella «mia classe», mentre sento risuonare la solita frase: «… arriva, arriva la supplente!»
Entro e la prima cosa che mi accoglie è un odore particolare: misto di giovani vite, gomma per cancellare e carta. Sa comunque di buono, sa della mia scuola da bambina e mi piace sempre. Cerco subito di identificare quello che mi farà dannare per tutto il tempo, quello che ha bisogno di mettersi in mostra, quello che mi aiuterà a sopravvivere fissandomi per tutto il periodo con occhi svegli e intelligenti, desiderosi di sapere.
Mi seggo, apro la mia unica arma, il registro, provo a leggere i loro cognomi senza fare errori di pronuncia ma ormai non mi riesce quasi piú, in ogni classe ci sono tantissimi ragazzi stranieri e spesso sbaglio, loro mi correggono, mi spiegano da dove arrivano quei nomi, mi insegnano.
Con i ragazzi non si può fingere di sapere tutto, il loro primo giudizio su di te difficilmente verrà modificato e allora tanto vale essere subito se stessi, con loro le maschere non funzionano, quella è roba da adulti.
E cosí racconto subito che anche il mio cognome mi ha creato spesso problemi e che ora spiegherò il perché, ma solo chi ha proprietà di linguaggio potrà farsi una bella risata, mentre gli altri si ritroveranno ad ammettere quanto sia brutto non capire…
Conquisto la loro attenzione, l’attesa si avverte, ora sono in balía delle mie parole… Mi chiamo Cristiana Lano, ma senza apostrofo.
Le reazioni sono sempre le stesse: alcuni sogghignano timorosi, chiedendosi se permetterò di ridere davvero, altri sghignazzano, fieri di aver compreso, «bella Prof!» mi dicono, ma molti si guardano intorno un po’ spaesati non intuendo bene dove stia il divertimento…
E cosí arriva la prima lezione, quella che se capíta vale già il mio essere qui ora: sapere significa avere gli strumenti necessari per comprendere, in ogni situazione.
Il primo anno completo della mia carriera di precaria l’ho ottenuto presso un Istituto superiore di Torino in una seconda classe dell’Aziendale.
Insegno lettere e il programma ministeriale prevede che io trasmetta a quindicenni, in prevalenza femmine, la conoscenza delle caratteristiche fondamentali di un testo poetico, delle principali figure retoriche e delle poetiche dell’Ottocento e Novecento, oltre che la capacità di interpretare un testo e il suo valore polisemico. Cosí recita il programma…
Poi,
prima e dopo il sogno c’è
la vita da vivere, vivere.
Mia e dei ragazzi che ho di fronte.
Quell’anno in quella classe è successo un po’ di tutto.
Per me è stata una scoperta inaspettata: insegnare, anche se sei un «supplente», è il lavoro piú bello che esiste a questo mondo, come mio nonno e mia mamma mi hanno sempre detto per esperienza diretta e a cui io non ho mai creduto per spirito di ribellione a un destino che mi appariva già scrittomi addosso.
Per molte delle mie allieve le scoperte sono state piú violente. Come poi mi è sem...