L'università di Rebibbia
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L'università di Rebibbia

  1. 144 pagine
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L'università di Rebibbia

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L'arte della gioia dev'essere un romanzo maledetto. Per esso Goliarda si ridusse in assoluta povertà e andò persino in galera per aver rubato una manciata di gioielli. E quel fremito letterario per il quale era disposta a un gesto disperato si mantiene in queste pagine, in cui racconta la sua detenzione a Rebibbia, scuola di vita, vera e propria università che insegna, senza le illusioni e le ipocrisie della vita ordinaria, la dura e autentica dimensione della convivenza umana. Ma in quell'universo freddo e spietato, Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia, spontaneità, impossibili nel mondo di fuori dove si è meno liberi e sicuri. Intellettuale libera e anticonformista, Goliarda Sapienza ci offre, con sguardo lucido e penetrante, uno spaccato sorprendente che rovescia tutti i nostri stereotipi su una realtà sconosciuta e per questo tanto piú rivelatrice.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409848

Goliarda Sapienza

L’università di Rebibbia

A cura di Angelo Pellegrino

Einaudi

A sirene spiegate (o io sono diventata una criminale molto importante, o loro – sono quasi le dieci – hanno solo fretta di tornare alle rispettive case), percorriamo la città che mi appare piú sontuosa e immensa.
La vicinanza di quei carabinieri dai corpi scattanti già protesi alle loro vite private allenta la morsa dei nervi che, ora comprendo, era solo paura della loro forza fisica. Un’altra volta ho provato quel terrore d’essere fra uomini ostili. Quel poco di sicurezza che la donna crede d’avere, tutta la superiorità che a volte t’attribuisce un amante, l’amico, il figlio, spariscono davanti all’inferiorità muscolare – semplicemente muscolare – avvertita in mezzo a due o tre uomini che non hanno piú bisogno di fingere rispetto, ammirazione, pietà perché sei femmina e piú debole.
Un’altra volta mi sono trovata in una situazione come questa, ed è stato sotto i tedeschi. Come ho potuto dimenticare il silenzio minaccioso rinchiuso nel breve spazio d’una macchina come questa, l’odore acre del panno delle loro divise, misto al sentore metallico delle fibbie, dei bottoni... Era difficile associarli ai tedeschi questi carabinieri: non portano divise.
Varcato il grande portone verde cupo, con leggere spinte indifferenti mi rotolano giú dalla macchina, depositandomi come pacco di poco conto sotto gli occhi di due donnine sorridenti e misere nei loro grembiuloni blu, troppo larghi e sgraziati, di bidelle di scuola elementare. Finalmente i passi pesanti di quegli uomini s’allontanano rimbombando nel grande ingresso vuoto, su verso l’uscita. Sono fra donne. Probabilmente questo pensiero mi fa sorridere, e il mio sorriso confonde la donnina nel largo grembiule da bidella che, con gesti traballanti d’uccello affamato, perquisisce la mia borsa accuratamente. Non devo sorridere, intralcio il suo lavoro. Lavoro duro, mi dice con lo sguardo, mentre l’altra piú in carne mi intima: – Su, su, si spogli! Tutto si deve levare, tutto!
I miei vestiti nelle loro mani vengono frugati con solennità impressionante. Poi mi fanno fare una flessione a ginocchi divaricati, e capisco: è per la droga, potrei averne nascosta nella vagina.
– Ma che porta, la parrucca? I capelli troppo belli sono: Teresa, guarda un po’... – Teresa è il primo nome femminile che sento al posto di: – Maresciallo, la faccia passare!... Mi chiami il brigadiere Mancuso.
– Agli ordini, capitano! – eccetera.
Sono persone che mi scrutano, e non agenti senza emozioni come fino a quel momento m’erano apparse quelle curiose stampelle sommariamente vestite e come appese alla luce incerta di quello stanzone vuoto. Mentre Teresa mi tira un po’ i capelli e fa: – No, no, sono veri, – mi rivesto in fretta improvvisamente intimidita come al primo giorno di scuola davanti alla maestra (sento il mio corpo tornato bambino mettersi impalato su un attenti goffo).
Perché quella sensazione puerile? Ormai non ho piú paura fisica. Con un manrovescio potrei abbatterle tutte e due in men che non si dica. La risposta viene immediata quando, affiancata dalle due bidelle, mi si ordina di andare avanti. Come allora, nel primo giorno di scuola, sto cadendo in preda alla sensazione panica di dover entrare in un luogo misterioso e potente del quale non so niente, e dove niente ormai dipenderà piú dalla mia volontà.
Infatti quel lungo corridoio largo e basso, rischiarato ogni dieci, quindici metri da fioche lampade verdastre, è cosí nuovo per le mie emozioni consuete che per un attimo arretro. Anche le due donne si fermano e mi fissano, il loro sguardo dice: non puoi che seguirci.
Questi camminamenti d’immersione alla pena sono di una perfezione gelida. Un lungo budello scivola inesorabilmente verso il fondo senza un appiglio per le mani della fantasia al quale potersi aggrappare. Dopo il primo corridoio, svoltando a destra, si scende ancora, si scende sempre. A ogni passo senti che vai verso il basso e che non potrai piú tornare a essere come prima. Quei camminamenti sotterranei parlano di morte e conducono a tombe. Infatti, per la legge dell’uomo un tuo modo di essere è stato cassato, la fedina penale macchiata, le mani insozzate dall’inchiostro per le impronte digitali: quella che eri prima è morta civilmente per sempre.
Camminando a passo svelto (è notte ormai, anche le secondine hanno fretta), prima cosa che l’istinto ti suggerisce, proprio come a scuola, è: non irritare mai i superiori. L’autodegradazione che genera quella lunga discesa e, dopo, il passaggio d’un grande cancello e dopo ancora – sempre piú in basso – la vista d’una diecina di portoncini metallici sbarrati tutt’intorno a un piazzale buio, è cosí potente da apparirmi come una sorta di piacere al quale abbandonarsi e farla finita con le angustie minute della vita, le varie etiche, l’orgoglio, la rispettabilità.
Davanti a uno di quei portoncini di ferro, tarchiato e solido, le due donne si fermano. Una tira fuori le chiavi dalla grande tasca sformata e si accinge ad aprire la porta. Il gesto è antico, evoca ricordi ancestrali: convento, segreta, cappella mortuaria, ripostiglio buio dove bambina ti chiudevano.
Brividi di freddo salgono alle caviglie. Fuori era tiepido. Il caldo vento dell’autunno romano danzava scherzoso per le strade, le piazze, i colonnati. Timido vento ancora rispettoso dell’agonia delle grandi foglie dei platani. Per settimane e settimane durerà. Poi bruscamente lo spiro lieve d’ottobre si farà tagliente e una marea di foglie ossidate invaderà il grande viale di casa mia. Ma non è tempo di ricordi.
La porticina attende aperta davanti a me, il freddo ormai dalle caviglie ha invaso tutto il mio corpo, e con voce a me estranea di bambina spaventata (o di mendicante?), sento che dico affannata: – Non avete niente da mangiare, per piacere? È da stamattina che...
– È tardi ma vado a vedere. Entri adesso, vado a vedere.
Appena entrata, non oso guardare il luogo che le donne hanno aperto e poi richiuso dietro di me con un rumore di ferro cosí forte da far sobbalzare tutta quella tenebra morta. Di scatto mi rivolto con le palme verso la porta sbarrata. All’altezza del mio viso incontro quel riquadro a sbarre di metallo, unica fessura sempre aperta nel «tutto chiuso» di tutte le celle conosciute attraverso libri, racconti, film: quel simbolo d’isolamento che tutti conosciamo, e che ricorre a volte nei sogni. Lo spioncino è all’altezza del mio viso, mi avvicino quasi a toccarlo e guardo fuori: non si vede niente nella penombra, appena appena un’altra porta davanti a me, chiusa. Il mio corpo forse resterebbe lí per sempre come un sasso se un grido inumano (a stento riconosco il timbro femminile) non accendesse il silenzio come un fulmine facendo vibrare il buio. Aspetto quasi con ansia il ritorno di quel grido ma niente, tutto s’è ricomposto in quell’immobilità innaturale come se l’urlo non si fosse mai fatto sentire. Ecco cos’è terrorizzante di quel complesso di celle: l’innaturalezza del loro silenzio.
Desideriamo spesso il silenzio, ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non-rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro. Senza accorgermi mi sono aggrappata con le mani alle sbarre; lo noto solo quando il viso della donnina dal collo d’uccello affamato e lo sguardo lacrimoso mi si para davanti e mi sussurra: – Come va, signora?
– Bene, grazie.
– Ecco, abbiamo trovato solo questo.
Non dice buonanotte perché forse ha già infranto molte regole portandomi qualcosa e rivolgendomi la parola. Dev’essere cosí perché fugge via sparendo dalla mia vista come un fantasma risucchiato dallo stesso buio che l’aveva materializzato.
Al contatto del pane la fame si fa piú forte, e questo mi dà l’ardire di rivoltarmi e affrontare il luogo dove starò... Non devo pensare a quanto ci starò. Giro gli occhi solo verso destra dove intuisco ci dev’essere la branda. Fissando solo quella mi seggo: fra le mani ho pane e un pomodoro. Mangio piano, che duri il piú a lungo possibile. Mangiando la tensione s’allenta, e quando ho finito cerco, scrutando in giro il meno possibile, d’infilarmi sotto una coperta ruvida al tatto.
Non la devo guardare, basta l’odore quando la tiro su verso il mento. Basta questo a scatenare una sfilza di fantasie insopportabili. Devo riuscire a fermare la fantasia e attenermi solo ai gesti e ai pensieri che mi possono aiutare a superare tutto con il minimo di sofferenza. Non tuffarsi nella sofferenza, altra tentazione quasi voluttuosa in confronto alla solitudine che senti intorno, ma che porta a quel grido ascoltato prima. Infatti c’era anche voluttà in quel grido.
Fermare la fantasia. Ripeto questa frase nella mente come al tempo della scuola quando si mandava a memoria una poesia che non si capiva. Io che ho fatto uno strumento della fantasia, che l’ho studiata tutta la vita per acuirla, liberarla, renderla agile il piú possibile, mi trovo ora a doverla uccidere come si farebbe col peggiore dei nemici. Eppure è cosí. Da questo momento essa mi può essere maligna.
Anche adesso che ho lasciato libera la mente a teorizzazioni astratte e con esse mi sono portata fuori da questo luogo, lo scoppiare di un: – Voglio uscire! M’ammazzo, voglio uscire! – mi sconvolge talmente da farmi scattare seduta in preda a un panico maggiore di prima. No, mi dico ad alta voce, da oggi per me la fantasia è nemica.
Fisso la luce in alto che, è inutile raccontarsi favole, di sicuro resterà accesa tutta la notte. Entrando, è logico, la cella m’era apparsa molto buia, ma ora è come se un sole si fosse acceso davanti a me, un sole immobile, maligno che riapre le palpebre ormai troppo stanche per non desiderare di chiudersi. Avessi la sciarpa la potrei stringere intorno agli occhi come quando sono in viaggio, ma – è noto – tutto meno l’indispensabile per coprirti ti viene levato quando entri qui dentro. Quando m’hanno spogliata per perquisirmi pensavo che m’avrebbero dato una divisa, invece m’hanno lasciato i miei vestiti. Forse domani.
La luce di quel sole artificiale rivela la nudità di quattro mura dipinte di un azzurrino opaco che dà la nausea, poi un cesso di colore dubbio senza tavoletta e un lavandino grigiastro. Nella parete di fronte all’ingresso una finestra rettangolare con vetri molto spessi, di colore simile a quelli delle latrine di terza categoria, s’apre a bocca di lupo ma solo di quindici centimetri, cosí che in nessun modo (anche se fosse all’altezza d’uomo) si può vedere fuori.
Mente progressista doveva possedere l’architetto che ideò quella finestra: niente sbarre per carità, troppo crudeli, si può vedere il cielo. Quella finestra s’apre per mezzo d’una leva o manico. La prima «cosa» che vedi appesa a quel manico è la tua testa penzoloni. Ecco perché si impiccano cosí facilmente da qualche anno a questa parte: un tavolino c’è, anche una sedia da metterci sopra, un lenzuolo – lo sento sotto la coperta – c’è pure per fare il cappio. Lassú la forca è già pronta.
Distolgo gli occhi dal manico annotando dentro di me l’ulteriore lusinga delle sirene carcerarie; tutti i luoghi antichi hanno sirene e quindi anche qui se ne aggirano. Le scoverò. Mi addormento, credo con gli occhi aperti, le palpebre appese a quel sole maligno.
Quando mi sveglio il sole non c’è piú. Al suo posto una luce biancastra da cesso pubblico spande una specie di aurora boreale. Non riesco a muovere gli arti: il desiderio di richiudere gli occhi, non fare piú un gesto, è immenso. Ecco le sirene carcerarie che tornano all’attacco: hanno lunghi capelli bianchi di luna e mani algose. Abbandonarsi a loro, rifiutare l’acqua, il cibo, e lasciare che gli altri – finalmente – se la sbrighino loro con questo corpo che non fa che richiedere sforzi, gesti, appetiti insopportabili.
Invece salto in piedi, anche se la tazza del cesso non ha nessun significato per il mio intestino bloccato. Come un bravo soldatino mi lavo le mani fin sopra il gomito, come diceva Rilke, e il viso. Mi rivolto verso il letto per rifarlo. Il letto non si muove: è inchiodato saldamente al pavimento. Mi tremano le gambe, non c’è pensiero logico che mi possa calmare. Inutilmente mi dico: lo fanno perché potresti servirtene in caso di rivolta per barricare la porta. Non c’è niente da fare: il voltastomaco, il senso di claustrofobia che ero riuscita fin qui a dominare mi si scaraventa addosso con onde di panico. Come un naufrago mi getto sulla branda cercando la salvezza nel non pensare.
Devo aver dormito a lungo perché quando apro gli occhi la finestrella dà piú luce e dietro la porta, dopo tanto silenzio, si sentono scalpiccii di passi affrettati, stridere di chiavi nelle toppe, rotolío di ruote metalliche. Scorgo allo spioncino un carrello immenso con due donne che ci trafficano intorno. Di una vedo solo la schiena enorme, l’altra, giovanissima e paffutella, i modi bruschi da contadina, mi porge un bicchiere di plastica una volta bianco ma ormai divenuto marrone dall’uso: – Latte, signo’?...
Prendendo rapida il bicchiere – ormai è chiaro che hanno sempre fretta e non bisogna irritarle – sfioro la sua mano e sento che dico – Grazie –. Due occhioni incerti se offendersi o ridere mi fissano per un attimo: – C’hai detto?
– Grazie.
Gli occhioni spariscono muti, ma a me il contatto di quella mano ha dato vigore. Bevo il liquido marroncino che la contadina ha asserito essere latte. Il liquido è caldo e fa bene.
In qualche modo il mio grazie deve aver fatto effetto perché dall’aria misteriosa – quasi complice – con la quale mi richiama allo spioncino capisco che sta facendo qualcosa di insolito per quel posto: – Guarda, signo’, c’oggi nun te fanno usci’ all’aria, domani forse, datte ’na regolata.
Per sapere se è stato il mio grazie a farmi ottenere quella informazione, ripeto: – Grazie –. È stato quello il movente della sua premura perché questa volta sorride con tanti bei dentoni un po’ accavallati ma bianchissimi.
Avvertita, non mi dà dolore seguire allo spioncino figurette che scivolano rapide nell’ombra come pesci colorati in un acquario, alcune lente e pesanti. Richiami, sospiri, un fischiettío duro e sonoro come quello di un ragazzo: deve essere di quella ragazzina piccola e snella in jeans e giubbotto nero che passa svelta, le mani in tasca, la zazzera all’aria. Ho detto «all’aria»! Non c’è aria ma lei probabilmente se la sta inventando. Fino alla fine mi godo quel movimento, dà vigore dopo tanta immobilità. Solo quando l’ultima gonna colorata sparisce mi decido a stendermi sulla mia branda a «non pensare», o a incanalare i pensieri su cose che non rischiano di ferirmi, ne ho tutto il tempo.
Perché, per esempio, hanno deciso di sopprimere le divise? Avranno pensato di rendere cosí meno dura la condizione della detenzione. E poi perché me ne meraviglio tanto? Anche i militari di leva non hanno piú l’obbligo in libera uscita di indossare la divisa. È piú democratico e lo Stato risparmia. Anche su questo risparmio che lo Stato ricava posso soffermarmi. E butto lí cifre su cifre.
In questo ring mentale, tirando pugni e saltellando e spiazzandomi a ogni sinistro dei pensieri molesti, non ci crederete, le ore passano rapide (anche perché ogni venti minuti mi alzo e passeggio almeno per altri venti su e giú). Quasi mi sorprendo quando arrivano con il pasto di mezzogiorno: riso ...

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  1. Copertina
  2. L’università di Rebibbia
  3. Il libro
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