Mentre la maggior parte dei ragazzi conoscono i patrizi solo di fama, studiandoli sui libri di storia, io ebbi la sorte, all’età di appena sei anni, di vivere a tu per tu coi patrizi. Questo mi toccò perché ero una bambina anemica; la mia faccia, fra i riccioli color «ala di corvo», era pallida come quella di una bambola lavata, e i miei occhi celesti erano cerchiati di nero. Venne un giorno una lontana parente, che aveva per sua sorte favolosa sposato un conte ricchissimo. Ella mi guardò con pietà e disse: – La porto a vivere con me, nel mio giardino.
Il mio corredo fu tutto lavato e stirato dalla serva e chiuso in una valigia di fibra. Partii cosí verso il sontuoso giardino rinascimentale, dove trovai, per mia compagna, una bambina della mia stessa età, però patrizia. Si chiamava Giacinta.
La cosa che subito mi colpí in Giacinta fu che essa possedeva un armadio tutto per sé. In questo armadio procedevano in fila vestiti e vestiti. Il mio corredo invece era povero: non c’era giorno che la governante, dopo avermi fatto il bagno, non imprecasse contro i miei genitori. Quando andavo a spasso, mi mancava sempre qualche bottone; sempre qualcosa mi cascava, e il mio cuore piangeva di me stessa, ma, come mi accingo a spiegarvi, era un cuore ipocrita e finto.
Di me si diceva: «Quant’è carina! Quant’è educata!» ed io stupisco oggi stesso che dentro una persona cosí piccola potesse esistere un simile inferno. Mentre il mio corpo era quel che vi ho detto, l’anima mia era una cosa grossa e nera, piena di occhi curiosi e di tortuosi, cupi vicoli. Era un mostro ipocrita e spietato. Anzitutto, mentre gli altri mi credevano piccola, ero grande. O meglio c’erano in me due persone, una piccola e una grande; ma la piccola, servilmente fingeva per lusingare la grande. Questa era gonfia di convenzioni e di strani pregiudizi, possedeva un’Idea, e si contorceva in una Ribellione. Essa esigeva, per esempio, che la piccola sul far dell’aurora bagnasse di lagrime il cuscino e senza farsi udire miagolasse: «Oh, mammina, povera me senza il tuo bacio. Oh, casina mia, cosí piccola mi pari un castello. Oh, mi sognavo di essere con voi, fratellini». Ma in realtà alla piccola non importava niente né della casina, né della madre, e tanto meno dei fratelli bizzosi; a lei piaceva moltissimo stare nella villa.
La persona grande si vergognava della piccola; ogni volta che dicevano «la bambina», si accartocciava per l’umiliazione, e pensavo con un sorriso di sprezzo: «Non sanno che sono piú grande di loro». Essa trovò una vittima nell’ingenua Giacinta.
Ancora oggi, se penso a quella mia vittima che muoveva al supplizio tenera e mansueta come un agnello, non posso vincere il rimorso. Perdonami, Giacinta.
C’erano, fra noi due, grandissime differenze: lei era bella ed io mi credevo bruttissima. È vero che dicevano di me: «Che amore! quant’è carina!» e i conti e i duchi perfino mi vezzeggiavano. Ma io pensavo che lo facessero per rispetto, perché già sapevo leggere e scrivere; poi guardando nello specchio quei miei occhi grandi e quel pallore, tremavo d’odio e di nausea verso me stessa. Per i bambini, la bellezza è soprattutto nei colori, e Giacinta aveva sul viso un sacco di colori, color pesca e color tortora e color ginestra, anzi oro. Ma la differenza che piú mi adontava era un’altra e cioè:
Mentre avevo la mente pronta alle invenzioni, io ero incapace d’esprimerle. E Giacinta invece! La sua mente non si affaticava nell’inventare e nel pensare: vuota e leggera, anzi trasparente, l’anima di Giacinta dormiva dondolandosi come foglia sul ramo. Però, al momento di fare la bella figura, trasformata in uccello spiccava il volo fino al segno, incosciente, brillante e felice. Con grazia e senza malizia, essa coglieva il frutto delle mie fantasie. Cosí avvenne quella volta dello spettacolo.
Io avevo inventato la commedia tragica: io avevo ideato i costumi e scelto la sala del teatro e dipinto le scene con porporina; io avevo assegnato le parti. Con modestia, m’ero riservata la parte di una semplice Dama di Corte, mentre avevo dato la parte della Regina alla figlia del cuoco; e perfidamente avevo deciso che Giacinta facesse da Diavolo, il quale non parla e sta nascosto dietro lo sportello della finestra, ma al momento della catastrofe porta le anime all’inferno. Due corna nere le avevo messo in testa e applicato al suo piccolo didietro una nera coda; le sue scarpe erano forcute e il vestito color sangue. E l’avevo nascosta dietro lo sportello, comandandole di restare là fino al terzo atto.
Marchesi, conti e duchi entrarono ridendo nella sala; sfilarono dinanzi a me e alla Regina ferme sulla scena nel nostro diadema pennuto e strascico. Ognuno di loro gettava una moneta, prezzo dello spettacolo, in un portafiori, e il profumo delle dame saliva fino a noi sospirando. Allora con orrore compresi che Ada, la figlia del cuoco, non avrebbe mai parlato. Essa doveva aprire il dialogo dicendo: «Signora Dama, quella mia figlia cattiva deve morire. O veleno o spada», ma non accennava ad aprir bocca. La sua faccia rubiconda e tutta impiastricciata restava dura e impassibile, i neri occhi fissi e stupidi. – Parla! – le dissi pizzicandola, – incomincia a dire «Signora Dama». Di’ qualche cosa, scema ignorante, non hai la lingua? – Già i signori si guardavano, arguti; il sangue mi si gelava. E sapevo che neppure io non avrei parlato.
Nel silenzio, in quell’orribile incertezza e disagio uscí Giacinta per salvarci. Con due dita strinse il suo grembiule spaventoso quasi fosse una veste da ballo, accennò l’inchino di corte, e saltellò su un piede per la scena:
Io sono un diavoletto
che faccio un bel balletto,
improvvisò con festoso spirito.
Si levò un applauso meraviglioso. E Giacinta ebbe tanti baci; veramente anche a me quei conti e dame gentili davano baci; ma io sapevo di non meritarli e che me li davano solo per convenienza, e li respingevo con strattoni. A un tratto, presi a battere i piedi e a piangere; ed essi mi consolavano con lusinghe: – Poverina, tu non hai colpa, – dicevano. – La Dama di Corte non può parlare prima della Regina. Tu ti sei comportata benissimo. O cara, credi che non sappiamo la tua bella vocina? Ti ricordi quando ci cantasti Capinera? – Essi non sapevano che piangevo d’odio.
Giacinta però mi amava; fu lei a prestarmi il vestito di mussolina bianca il giorno della festa dei bambini. Avvenne che dopo il pranzo il mio stomaco respinse con furia, nel mezzo della sala, l’eccesso dei frutti e delle creme, e la cortese mussolina fu violata.
Mi portarono a letto, e subito dopo Giacinta, lasciato il ballo, salí a visitarmi. Ella se ne stava a distanza, con un sorriso umile e confuso, ripetendo: – Poverina, che male dev’essere quando il pranzo salta fuori cosí, – e mi trattava come oggetto sacro; ma io capivo che per quel fatto le facevo schifo. La sua cortesia le consigliava di comportarsi di fronte a tanto schifo come davanti a cosa sacra, con quelle mossette e quei sorrisi mansueti e quelle distanze. Erano proprio simili trovate di Giacinta che piú mi irritavano.
Per divertirmi con lei, avevo inventato un gioco feroce. L’anima di Giacinta, d’un anno piú giovane di me, ancora involta nelle fasce del limbo, ancora istoriata di gentili frottole, seguiva quell’anima mia nera come mai cane il suo padrone. Dunque io bendavo strettamente Giacinta, e traendomela dietro in alto e in basso attraverso le quarantaquattro stanze del castello, la illudevo di condurla attraverso i tre regni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. Ed ella, come mai l’ultimo dei cherubini credette in un arcangelo, credeva in me. Mi armavo di punzoni e di spazzole, e le annunciavo che si trovava all’Inferno.
– Ecco, – urlavo, – i diavoli coi secchi. Ecco, uno vuol ungerti con la pece.
Con una vocina patetica e le mani giunte, Giacinta scongiurava: – Pietà, buon diavolo! – Ma io la avvertivo: – È inutile che gli parli, tanto non capisce l’italiano. Ceranon patapum satina caranano caranin? Il diavolo dice che, pazienza, niente pece, ma ti spazzolerà con lo spazzolone dei tappeti. Avanti, diavoli! Nero e rosso! Ecco i fossi e le fiamme che cammi...