Fiabe
  1. 672 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Da Cappuccetto rosso a Hänsel e Gretel, Cenerentola, Biancaneve, Pollicino: le favole che raccontano attraverso storie di nani, giganti, apparizioni angeliche e stregonesche, voci buffe e solenni, tutte le paure e le gioie autentiche dell'uomo. "All'arte della traduttrice, Clara Bovero - scrisse Italo Calvino a proposito di quest'edizione - si deve la limpidezza con cui risaltano i vari registri stilistici del dettato popolare, e la spontaneità con cui anche poesiole e filastrocche sembrano nate nella nostra lingua". Con una nota biobibliografica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410158
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Libro primo

I.

Il principe ranocchio o Enrico di ferro

Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie eran tutte belle, ma la piú giovane era cosí bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana: nelle ore piú calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguí con lo sguardo, ma la palla sparí, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre piú forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre cosí piangeva, qualcuno le gridò: – Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi –. Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme. – Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! – disse, – piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte. – Chétati e non piangere, – rispose il ranocchio, – ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco? – Quello che vuoi, caro ranocchio, – diss’ella, – i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d’oro –. Il ranocchio rispose: – Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d’oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d’oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo, mi tufferò e ti riporterò la palla d’oro. – Ah sí, – diss’ella, – ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla –. Ma pensava: «Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell’acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana!»
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott’acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull’erba. La principessa, piena di gioia al vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. – Aspetta, aspetta! – gridò il ranocchio: – prendimi con te, io non posso correre come fai tu –. Ma a che gli giovò gracidare con quanto fiato aveva in gola! La principessa non l’ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticato la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.
Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d’oro – plitsch platsch, plitsch platsch – qualcosa salí balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: – Figlia di re, piccina, aprimi! – Ella corse a vedere chi c’era fuori, ma quando aprí si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: – Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c’è forse un gigante che vuol rapirti? – Ah no, – rispose ella, – non è un gigante, ma un brutto ranocchio. – Che cosa vuole da te? – Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d’oro cadde nell’acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l’ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell’acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me –. Intanto si udí bussare per la seconda volta e gridare:
– Figlia di re, piccina,
aprimi!
Non sai piú quel che ieri
m’hai detto
vicino alla fresca fonte?
Figlia di re, piccina,
aprimi!
Allora il re disse: – Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va’ dunque, e apri –. Ella andò e aprí la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lí si fermò e gridò: – Sollevami fino a te –. La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: – Adesso avvicinami il tuo piattino d’oro, perché mangiamo insieme –. La principessa obbedí, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: – Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire –. La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: – Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno –. Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: – Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre –. Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: – Adesso starai zitto, brutto ranocchio!
Ma quando cadde a terra, non era piú un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all’infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono. La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevan pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d’oro; e dietro c’era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Il fedele Enrico si era cosí afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall’angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salí dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udí uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò:
– Rico, qui va in pezzi il cocchio!
– No, padrone, non è il cocchio,
bensí un cerchio del mio cuore,
ch’era immerso in gran dolore,
quando dentro alla fontana
tramutato foste in rana.
Per due volte ancora si udí uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.

2.

Gatto e topo in società

Un gatto aveva fatto conoscenza con un topo e gli aveva tanto vantato il grande amore e l’amicizia che gli portava, che alla fine il topo acconsentí ad abitare con lui; avrebbero governato insieme la casa. – Ma per l’inverno dobbiamo provvedere, altrimenti patiremo la fame, – disse il gatto, – e tu, topolino, non puoi arrischiarti dappertutto, se no finirai col cadermi in trappola –. Il buon consiglio fu seguito e comprarono un pentolino di strutto. Ma non sapevano dove metterlo; finalmente, pensa e ripensa, disse il gatto: – Non so dove potrebbe essere piú al sicuro che in chiesa; là nessuno osa commettere un furto: lo mettiamo sotto l’altare e non lo tocchiamo prima di averne bisogno –. Il pentolino fu messo al sicuro; ma il gatto non tardò ad aver voglia di strutto, e disse al topo: – Volevo dirti, topolino, che mia cugina mi ha pregato di farle da compare: ha partorito un piccolo, bianco con macchie brune, e devo tenerlo a battesimo. Lasciami uscire oggi, e sbriga da solo le faccende di casa. – Sí, sí, – rispose il topo, – va’, in nome di Dio; se mangi qualcosa di buono, pensa a me: un gocciolo di quel dolce vino rosso puerperale lo berrei volentieri anch’io –. Ma non c’era niente di vero; il gatto non aveva cugine, né l’avevan richiesto come padrino. Andò dritto in chiesa, si avvicinò quatto quatto al pentolino di strutto, si mise a leccare e leccò via la grassa pellicola. Poi se ne andò a spasso per i tetti della città, si guardò attorno e poi si stese al sole, e si leccava i baffi ogni qualvolta pensava al pentolino. Non ritornò che alla sera. – Eccoti qua, – disse il topo, – hai certo passato una giornata allegra. – È andata bene, – rispose il gatto. – Che nome hanno messo al piccolo? – domandò il topo. – Pellepappata, – rispose il gatto secco secco. – Pellepappata! – esclamò il topo: – che nome strampalato! Si usa nella vostra famiglia? – Che c’è di strano? – disse il gatto: – non è peggio di Rubabriciole, come si chiamano i tuoi figliocci.
Poco tempo dopo al gatto tornò la voglia. Disse al topo: – Devi farmi ancora il piacere di badare alla casa da solo; mi vogliono di nuovo come padrino, e siccome il piccolo ha un cerchio bianco intorno al collo, non posso rifiutare –. Il buon topo acconsentí; ma il gatto girò furtivamente fuori mura fino alla chiesa e si divorò mezzo pentolino. «Nulla è piú gustoso, – disse fra sé, – di quel che si mangia da soli» ed era tutto contento della sua giornata. Quando arrivò a casa, il topo domandò: – E questo piccolo come si chiama? – Mezzopappato, – rispose il gatto. – Mezzopappato! che dici! Non ho mai sentito questo nome in vita mia; scommetto che non è neanche sul calendario.
Ben presto al gatto tornò l’acquolina in bocca: – Non c’è due senza tre, – disse al topo, – devo far di nuovo il padrino; il piccolo è tutto nero e ha solo le zampe bianche, del resto non ha un pelo bianco in tutto il corpo; questo càpita solo una volta ogni due anni: mi lasci andare? – Pellepappata! Mezzopappato! – rispose il topo, – sono nomi cosí curiosi che m’impensieriscono. – Tu te ne stai a casa nel tuo giubbone grigio scuro e col tuo lungo codino, – disse il gatto, – e ti monti la testa: succede cosí quando non si esce mai –. Durante l’assenza del gatto il topo pulí e mise in ordine la casa, ma quel golosone di un gatto si divorò tutto il pentolino di strutto. «Solo quando si è finito tutto si sta in pace», disse a se stesso; e tornò a casa soltanto la notte, ben pasciuto. Il topo domandò subito che nome avevan dato al terzo piccino. – Non ti piacerà certo, – disse il gatto, – si chiama Tuttopappato. – Tuttopappato! – esclamò il topo: – è il nome piú bizzarro che ci sia, non l’ho mai visto scritto. Tuttopappato! che cosa vorrà dire? – Scosse il capo, si acciambellò e si mise a dormire.
Da allora piú nessuno chiese al gatto di far da padrino; ma giunto l’inverno, quando fuori non si trovava piú nulla, il topo si ricordò della loro provvista e disse: – Vieni, gatto, andiamo dove abbiamo messo in serbo il nostro pentolino di grasso, ce la godremo. – Certo, – rispose il gatto, – te la godrai come a mangiare aria fritta –. Si misero in cammino, e quando arrivarono la pentola era ancora al suo posto, ma vuota. – Ah, – disse il topo, – ora capisco quel che è successo, ora tutto è chiaro. Sei un bell’amico! Hai divorato tutto, quando hai fatto da compare: prima pellepappata, poi mezzopappato, poi… – Vuoi tacere! – esclamò il gatto: – ancora una parola, e ti mangio. – Tuttopappato, – aveva già sulla lingua il povero topo; come gli uscí di bocca, il gatto fece un salto, l’afferrò e ne fece un boccone.
Vedi, cosí va il mondo.

3.

La figlia della Madonna

Davanti a un gran bosco viveva un taglialegna con la moglie; essi avevano una figlia sola, una bimba di tre anni. Ma eran cosí poveri che non tutti i giorni avevano il pane e non sapevano che cosa darle da mangiare. Una mattina, il boscaiolo andò al suo lavoro nella foresta, tutto preoccupato; e mentre spaccava la legna, gli apparve all’improvviso una bella signora d’alta statura, che aveva una corona di stelle lucenti sul capo; e gli disse: – Sono la Vergine Maria, la madre del Bambino Gesú; tu sei in miseria, portami la tua bimba; io la prenderò con me, sarò la sua mamma e provvederò a lei –. Il boscaiolo obbedí, andò a prendere la bambina e la consegnò alla Vergine Maria, che la portò in Cielo. Là stava bene: mangiava marzapane e beveva latte dolce, e i suoi vestiti erano d’oro, e gli angioletti giocavano con lei. Quando ebbe quattordici anni, la Vergine Maria la chiamò a sé e disse: – Cara bambina, io devo fare un lungo viaggio; prendi in consegna le chiavi delle tredici porte del regno dei cieli: dodici puoi aprirle e contemplare le meraviglie che custodiscono, ma la tredicesima, per cui serve questa piccola chiave, ti è vietata; guardati dall’aprirla, o sarà la tua disgrazia –. La fanciulla promise di obbedire e, quando la Vergine Maria fu partita, cominciò a visitare le stanze del regno dei cieli: ogni giorno ne apriva una, fin che n’ebbe viste dodici. In ogni stanza c’era un apostolo, circondato di grande splendore, e la fanciulla gioiva di quel fasto e di quella magnificenza, e gli angioletti che l’accompagnavano sempre gioivano con lei. Ormai rimaneva soltanto la porta proibita; allora le venne una gran voglia di sapere che cosa fosse nascosto là dietro e disse agli angioletti: – Non voglio aprirla del tutto e nemmeno entrare, ma voglio socchiuderla, perché possiamo sbirciar dalla fessura. – Ah, no, – dissero gli angioletti, – sarebbe peccato: la Vergine Maria l’ha proibito, e potrebbe essere la tua disgrazia –. Allora la fanciulla tacque, ma non tacque la brama nel suo cuore; continuò a roderla e a tormentarla, e non le dava requie. E in un momento che gli angioletti erano tutti fuori, ella pensò: «Adesso son sola sola e potrei dare una sbirciatina, tanto non lo saprà nessuno». Scelse la chiave e quando l’ebbe in mano l’infilò nella serratura, e quando l’ebbe infilata la girò. Allora la porta si spalancò ed ella vide la Trinità circonfusa di fuoco e di luce sfolgorante. Restò un attimo immobile a contemplare, piena di meraviglia; poi sfiorò col dito quel fulgore e il dito si coprí d’oro. Fu subito presa da una gran paura, chiuse violentemente la porta e volle correr via. Per quanto facesse, la paura non cedeva e il cuore continuava a batter forte e non si voleva chetare; e l’oro rimase sul dito e non andò via, per quanto lavasse e strofinasse.
Poco dopo la Vergine Maria tornò dal suo viaggio. Chiamò la fanciulla e le richiese le chiavi del Cielo. Quando la fanciulla le porse il mazzo, la Vergine la guardò negli occhi e disse: – Non hai aperto anche la tredicesima porta? – No, – rispose. Allora le mise la mano sul cuore, sentí come batteva e batteva e si accorse che la fanciulla aveva trasgredito il suo ordine e aperto la porta. Domandò ancora una volta: – Davvero non l’hai fatto? – No, – disse la fanciulla per la seconda volta. Allora la Vergine scorse il dito che si era coperto d’oro toccando il fuoco celeste, vide che la fanciulla aveva peccato e per la terza volta domandò: – Non l’hai fatto? – No, – disse la fanciulla per la terza volta. Allora disse la Vergine Maria: – Tu non mi hai ascoltato e per di piú hai mentito: non sei piú degna di stare in Cielo.
E la fanciulla cadde in un sonno profondo e quando si svegliò giaceva sulla terra, in un luogo selvaggio. Volle chiamare, ma non poté emetter suono. Saltò in piedi e volle correr via, ma, dovunque si volgesse, era sempre trattenuta da fitti roveti, che non poteva attraversare. Nel deserto dov’era prigioniera c’era un vecchio albero cavo: doveva essere la sua dimora. Quando veniva la notte, ella si rannicchiava là dentro per dormire, e vi si riparava quando pioveva e faceva tempesta; ma era una vita ben misera e, quando ella pensava com’era bello vivere in Cielo dove gli angeli avevan giocato con lei, allora piangeva amaramente. Radici e bacche eran tutto il suo nutrimento, le cercava fin dove poteva arrivare. D’autunno raccoglieva le noci e le foglie cadute e le portava nel suo buco; d’inverno le noci erano il suo cibo e quando veniva la neve e il ghiaccio ella si rannicchiava come un povero animaletto nelle foglie, per non gelare. Ben presto i suoi vestiti si lacerarono e le caddero di dosso a brandelli. Appena il sole splendeva caldo, ella usciva e sedeva davanti all’albero, e i suoi lunghi capelli la coprivano da ogni parte come un mantello. Cosí ella passava un anno dopo l’altro e sentiva il dolore e la miseria del mondo.
Una volta, quando di nuovo gli alberi si eran vestiti di fresco verde, il re del paese cacciava nella foresta e inseguiva un capriolo e, poiché esso era fuggito tra i cespugli che cingevano la foresta, smontò da cavallo, spezzò i pruni e si aprí il varco con la spada. Penetrò nel folto e vide seduta sotto l’albero una fanciulla meravigliosa, coperta fino alla punta dei piedi dalla sua chioma d’oro. Egli si fermò e la contemplò pieno di stupore; poi le rivolse la parola, e disse: – Chi sei? perché sei qui in questo deserto? – Ma essa non rispose, perché non poteva schiuder le labbra. Il re proseguí: – Vuoi venir con me al mio castello? – La fanciulla chinò lievemente il capo. Il re la sollevò tra le braccia, la portò sul suo cavallo e andò a casa con lei; e quando arrivò alla reggia, le fece indossare belle vesti e non le lasciò mancar nulla. Benché non potesse parlare, essa era cosí bella e graziosa, che il re se ne innamorò e poco dopo la sposò.
Era passato circa un anno e la regina diede alla luce un figlio. La notte, mentre giaceva sola nel suo letto, le apparve la Vergine Maria e disse: – Se vuoi dir la verità e confessare che hai aperto la porta proibita, ti dissuggellerò le labbra e ti renderò la parola; ma se persisti nella colpa e continui a negare, porterò con me il tuo piccino –. Alla regina fu concesso di rispondere, ma, ancora ostinata, ella disse: – No, non ho aperto la porta proibita –. E la Vergine Maria le tolse dalle braccia il neonato e scomparve con lui. La mattina dopo, quando non si trovò il bambino, si mormorò fra la gente che la regina era un’orchessa e aveva ucciso suo figlio. Ella udiva tutto e non poteva contraddire; ma il re non volle crederlo, tanto l’amava.
Dopo un anno, la regina partorí un altro figlio. Nella notte tornò la Vergine Maria e disse: – Se vuoi confessare di aver aperto la porta proibita, ti restituirò il tuo bambino e ti scioglierò la lingua; ma se persisti nella colpa e neghi, porto anche questo con me –. E la regina tornò a dire: – No, non ho aperto la porta proibita –. La Vergine le tolse dalle braccia il bambino e lo portò in Cielo. La mattina, scomparso di nuovo il piccino, la gente disse ad alta voce che la regina l’aveva divorato; e i consiglieri del re chiesero che ella fosse giudicata. Ma il re l’amava tanto che non volle crederlo e ordinò ai consiglieri di non parlarne piú, pena la vita.
L’anno dopo la regina partorí una bella figlioletta; per la terza volta le apparve di notte la Vergine Maria e disse: – Seguimi –. La prese per mano e la condusse in Cielo e le mostrò i due figli maggiori, che le sorridevano e giocavano con la palla del mondo. La regina se ne rallegrò; allora disse la Vergine Maria: – Non si è ancora intenerito il tuo cuore? Se confessi di aver aperto la porta proibita, ti restituirò i tuoi due figlioletti –. Ma la regina rispose per la terza volta: – No, non ho aperto la porta proibita –. Allora la Vergine la lasciò ricadere sulla terra e le prese anche la bambina. La mattina dopo, quando la cosa trapelò, tutti gridarono a gran voce: – La regina è un’orchessa, dev’esser condannata! – E il re non poté piú respingere i suoi consiglieri. La regina fu giudicata e, pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Fiabe
  3. Prefazione di Giuseppe Cocchiara
  4. Fiabe
  5. Libro primo
  6. Libro secondo
  7. Libro terzo
  8. Leggende per bambini
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Copyright