Nove e mezzo
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Nove e mezzo

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«Il bravo critico è quello che offre allo scrittore il potere dell'osservazione piú attenta» ha scritto una volta Dan Miron, il maggiore studioso di letteratura israeliano vivente: in Nove e mezzo (evidente il richiamo felliniano) l'intera opera di Abraham Yehoshua viene passata al setaccio di un confronto tanto serrato quanto, se è lecito dirlo della critica, affettuoso.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409688

Nove e mezzo

Le citazioni da La scena perduta, sono tratte dall’edizione Einaudi, 2011 (Supercoralli).

«Nove e mezzo».

Perché «Nove e mezzo»? Perché La scena perduta è il nono romanzo di Abraham B. Yehoshua (dopo L’amante, 1977, Un divorzio tardivo, 1982, Cinque stagioni, 1987, Il signor Mani, 1990, Il ritorno dall’India, 1994, Viaggio alla fine del Millennio, 1997, La sposa liberata, 2001, e Fuoco amico, 2007). Nove romanzi ai quali va aggiunto una sorta di romanzo a metà, o racconto (o racconto lungo?) di ampio respiro: Il responsabile delle risorse umane, scritto nel 2004 in un momento in cui Yehoshua aveva l’impressione che fosse giunta l’ora di fare un passo indietro dall’insidioso terreno del romanzo composto dall’intreccio di numerosi temi e modelli strutturali. In alcune interviste di quel periodo Yehoshua aveva dichiarato che in futuro avrebbe, forse, rinunciato alla sfibrante fatica di scrivere un nuovo romanzo dalle tante diramazioni. È possibile che con questo passo volesse rinfrescare la sua scrittura ritornando a un modello analogo a quello dei racconti scritti negli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta («Di fronte ai boschi», «Il poeta continua a tacere», «Tre giorni e un bambino», «Fine estate 1971» e «Base missilistica 612») quando già aveva rinunciato ai racconti di breve respiro coi quali aveva iniziato il suo cammino («La morte del vecchio» e simili) ma ancora non si era avventurato nel romanzo, divenuto poi il suo principale terreno d’azione, di fatto l’unico, per piú di trent’anni. La scena perduta è stato invece scritto dopo che Yehoshua aveva avuto un ripensamento circa questo «ritorno alle origini», chiaramente riconoscibile in Il responsabile delle risorse umane e in una certa misura nel successivo Fuoco amico.
Probabilmente l’autore si è reso conto di non poter sfuggire al genere romanzesco giacché il suo naturale ritmo narrativo si era ormai consolidato in storie lunghe e dalle innumerevoli svolte. Eppure anche in questo genere, e forse soprattutto in questo genere, Yehoshua non si è sottratto alla necessità di rinnovare e di spezzare un cerchio ormai rigido ed estremamente logoro (una sensazione probabilmente alla base degli esperimenti condotti nelle precedenti opere, per esempio il ricorso quasi esclusivo al dialogo senza spazi epici in Fuoco amico, una tecnica simile a quella di Henry James in Che cosa sapeva Maisie). Proprio in La scena perduta è impresso, dall’inizio alla fine, il sigillo della consapevolezza che, in quanto scrittore di romanzi e artista del racconto complesso e articolato, Yehoshua è giunto a un momento di crisi. Un momento in cui, come dice l’anziano protagonista del romanzo, il regista cinematografico Yair Moses, lui stesso (ovvero Yehoshua) è «un vecchio artista che aspetta un segno per infondere vita a una nuova opera» (p. 324). Un artista che sa che se non darà una svolta decisiva alla sua vita privata e alla sua produzione artistica annasperà invano alla ricerca della prossima grande opera narrativa, cosí come Moses, nel corso dell’intero romanzo, è alla ricerca di un nuovo film di cui ancora non conosce la trama né il genere.
Ciò che Yehoshua intende compiere non è solo a un rinnovamento estetico e narrativo (benché ovviamente lo sia anche) ma una riflessione sulla condizione umana in generale e sulla realtà ebraica e israeliana in particolare. In La scena perduta affronta direttamente, onestamente e in maniera non banale, questa crisi acuta dietro la quale aleggia l’ansia dell’inaridimento e dell’impoverimento, l’analizza profondamente su un piano narrativo e spiana la strada a nuove risposte alle domande consuete con le quali, in veste di autore, si è misurato fin dall’inizio della sua carriera. Per questo La scena perduta, contrariamente al parere di alcune critiche superficiali che l’hanno accolta, è una delle opere piú importanti di Yehoshua, superata in audacia letteraria e in originalità di pensiero soltanto da Il signor Mani, il migliore dei suoi romanzi fino a questo momento, e paragonabile a Un divorzio tardivo, scritto prima di Il signor Mani e che ha preparato l’autore al salto di qualità. Di La scena perduta si può dire che, malgrado il protagonista del romanzo sia ashkenazita e non sefardita, o, per la precisione, un ashkenazita che ha stretto un patto con il «sefardismo» per poi infrangerlo, rappresenta il capitolo finale della tetralogia «sefardita» di Yehoshua (e dunque il titolo originale del libro – Carità spagnola1 – non sta a indicare solamente che una parte importante del racconto si svolge nella penisola iberica). Un divorzio tardivo e Il signor Mani sono rispettivamente il fondamento e il capolavoro di questa tetralogia, Viaggio alla fine del Millennio, il terzo romanzo di questa «serie», mostra un certo cedimento mentre l’ultimo, La scena perduta, rappresenta un ritorno all’alto livello dei primi due. Queste quattro opere scavano nell’intricato ginepraio della condizione umana, ebraica e israeliana da un punto di vista «sefardita» o, potremmo anche dire, affrontano la tensione fra «Oriente» e «Occidente» e fra «Africa» ed «Europa», e costituiscono senza dubbio la maggiore impresa epica scritta finora da Yehoshua.
Il titolo Nove e mezzo di questo libro vuole naturalmente richiamare alla mente dei lettori la lontana somiglianza tra La scena perduta e il famoso film di Federico Fellini Otto e mezzo, uscito nel 1963 a conclusione di una prima fase dell’opera del grande cineasta. Tale rassomiglianza non è unicamente dovuta al fatto che il protagonista di La scena perduta sia l’anziano regista Moses come quello di Otto e mezzo è Guido, regista di successo. L’essenza di tale accostamento va cercata altrove. Fellini, come si sa, girò Otto e mezzo dopo aver prodotto sette lungometraggi, alcuni dei quali riscossero un enorme successo internazionale e divennero quasi subito dei classici. Dopo questi successi, susseguitisi praticamente l’uno dopo l’altro, Fellini attraversò una crisi creativa, riconoscibile fra l’altro nella sua disponibilità a passare dall’epos fantastico di La strada (1954), Le notti di Cabiria (1957) e La dolce vita (1960), a un semplice episodio quale Le tentazioni del dottor Antonio all’interno di Boccaccio ’70, un film a piú mani (1962). Questo episodio rappresenta il «mezzo» del titolo del grande film che lo seguí. Fellini comprese che un ridimensionamento del formato cinematografico non avrebbe risolto la crisi che stava attraversando. Per risolverla occorreva affrontare tale crisi di petto e analizzarla in un lungometraggio, divenuto poi il tassello finale di una grande tetralogia ricordata come il principale contributo di Fellini all’arte cinematografica (malgrado i seguenti grandi successi: Giulietta degli spiriti, Fellini Satyricon, Roma, Amarcord ecc.).
È questa la somiglianza rilevante tra Yehoshua e Fellini. La scena perduta è l’opera principale, se non l’unica, nella quale Yehoshua dedica una riflessione alla propria narrativa e a una ricerca articolata e profonda dell’enigma della produzione artistica, che è anche l’enigma che tormenta l’artista narratore. L’autore e il testo vagano a lungo tra realtà e fantasia, fra letterale e allegorico, tra normalità e assurdo. Malgrado Yair Moses sia un personaggio immaginario, il romanzo nasconde uno spesso nocciolo autobiografico: lo si intuisce anche dal fatto che la maggior parte dei primi film di Moses, descritti e discussi a lungo nel romanzo, sono piú o meno un richiamo diretto ai primi racconti di Yehoshua (tipo «Il rapido serale di Yatir» e «L’ultimo comandante») mentre il nuovo film che dirigerà – se e quando supererà la crisi – sarà una variante o un adattamento in chiave moderna di «Tre giorni e un bambino», privo però della violenza che troviamo nel racconto (il dubbio del protagonista se far del male al bambino affidatogli per esprimere la rabbia che prova verso la madre del piccolo, suo amore di gioventú che gli ha preferito un altro, e tentare cosí di riavvicinarla). Analogamente Otto e mezzo non è soltanto un film apertamente autobiografico ma anche, e soprattutto, l’opera principale e forse l’unica in cui Fellini riflette sulla propria arte cinematografica, una riflessione sull’enigma della narrazione cinematografica condotta attraverso gli strumenti stessi della narrazione cinematografica: immagini, primi piani, e sequenze sorprendenti. Al tempo stesso è una ricerca della personalità e della vita dell’artista che vuole raccontare le sue storie con un linguaggio, una grammatica e una sintassi proprie. Anche questa ricerca si muove tra fantasia e realtà, tra ricordi involontari (la memoria proustiana che si impone sulla coscienza) e costruzioni di trame in parte assurde, fra letteralità e simbolismo. Anche in Otto e mezzo questa ricerca avviene sullo sfondo di una forte crisi attraversata dal timore di un inaridimento e di un impoverimento della vena creativa di un artista esperto in attesa di «un segno che infonda vita». Dopo un momento di resa momentanea, il Guido di Fellini vede la strada del rinnovamento creativo in un ritorno a ciò che considera il capostipite dello spettacolo e della rappresentazione: il circo. Al termine del film Guido raccoglie i frammenti della sua vita che non si compongono in una storia sensata nel corteo di acrobati e di clown circensi accompagnati dal suono della banda e del piccolo pifferaio (Guido bambino, o il bambino ancora presente nel Guido adulto, capace di provare stupore davanti alla manifestazione circense). Analogamente al termine di La scena perduta Yair Moses indica, col suo strano pellegrinaggio, la possibilità di un rinnovamento creativo in un ritorno intenzionale alla sorgente letteraria, all’origine pura dell’arte romanzesca, al Don Chisciotte di Cervantes. Accostarsi a Dulcinea del Toboso, la rozza contadina trasformatasi in principessa immaginaria, e succhiare direttamente dal suo seno gigantesco significa accettare la fantasia e accoglierla come nutrimento rivitalizzante della prosa. Un nutrimento che, se assimilato nel suo stato puro, non amalgamato ad altri, potrebbe rivelarsi pericoloso, inebriante e annebbiare la mente; ma se dovesse scarseggiare, o diminuire in maniera drastica, potrebbe rendere sterile la miscela di alimenti narrativi e annullarne il valore come fonte vitale e stuzzicante del racconto.

Badante/paziente.

Yehoshua intreccia nei suoi romanzi una fitta e complessa rete di decine se non di centinaia di fili che si potrebbero definire «motivi» nel senso compositivo del termine, ovvero unità tematiche con un denominatore comune che, sparse all’interno del testo, compaiono, scompaiono o modificano la loro combinazione in questa o in quella misura senza tuttavia perdere il forte legame col denominatore comune. Ciascuno di questi motivi porta in sé, in piccole o in grandi dosi, il bagaglio semantico complessivo della storia (benché il significato preciso e «definitivo» di ogni «dose» non sia stabilito unicamente dal singolo motivo ma dall’intreccio di tutti i motivi e di altre componenti della storia quali la trama, la struttura, lo stile, la definizione dei personaggi, l’identità retorica del narratore, la filosofia ecc.). Per questo, forse, non avrebbe senso seguire in dettaglio ciascuno dei motivi, tanto piú che un simile sforzo implicherebbe la stesura di un saggio lungo quanto il romanzo stesso (o forse anche di piú) poiché la loro disposizione avviene spesso mediante allusioni o riferimenti talmente fugaci che il lettore poco esperto quasi non li nota mentre una descrizione critica dovrebbe soffermarsi sul riferimento per rivelarlo e renderlo chiaro. Ci accontenteremo dunque di un unico esempio di motivo intrecciato nel ricco e denso tessuto di La scena perduta, quello del paziente che si trasforma in badante, che è anche scambio di ruoli fra insegnante e allievo: l’insegnante si trasforma in allievo e l’allievo in insegnante.
È questo uno dei motivi centrali dell’opera, presente negli snodi della trama e, in forma esplicita, dichiarata, nel contenuto narrativo, nell’«ethos» speculativo e persino nel titolo del primo film di Moses proiettato durante la «retrospettiva» all’Istituto del cinema di Santiago de Compostela in Galizia, Spagna. Una retrospettiva durata tre giorni e il cui resoconto occupa i primi due terzi del romanzo. Shaul Trigano, nato in una cittadina di immigrati sefarditi nel «trascurato» sud di Israele, brillante sceneggiatore, collaboratore e ispiratore di Moses al principio della sua carriera cinematografica, aveva ideato una storia assurda, non priva di segni di immaturità e di semplicismo, ma con una tale carica spirituale da renderla meritevole di aprire la retrospettiva. Juan de Viola, il sacerdote direttore dell’Istituto dove ha luogo la retrospettiva, sostiene che questo film, malgrado possa apparire «ingenuo o primitivo […] serba una qualche verità religiosa» (p. 45). Non è quindi «banale» bensí «è un’opera d’esordio», «un’opera prima» ispirata da un sentimento religioso o, per lo meno, da una ricerca metafisica (p. 65). Il titolo del film, Da paziente a badante, ne annuncia il contenuto che è basato sul seguente principio: «Chiunque abbia bisogno di cure può e deve a sua volta prendersi cura di qualcuno» (p. 48). Il desiderio di affermare questa bizzarra teoria, che pare essere smentita dai fatti della vita, aveva indotto Trigano a costruire un racconto circolare, che trascendeva i limiti della logica e delle possibilità reali e sconfinava nel campo della metafora e del simbolismo. Una giovane donna, arrivata a Gerusalemme da un piccolo paese del sud di Israele con la speranza di riallacciare i contatti con l’uomo di cui è innamorata, è costretta a prendere in affitto una camera e a pagarla facendo le pulizie e preparando i pasti alla proprietaria, una donna debole, anziana e malata, quasi impossibilitata a provvedere a se stessa. Ma non appena la ragazza esce dalla camera l’anziana donna (interpretata dalla madre di Moses, ex alto funzionario presso l’ufficio del controllore dello stato ormai in pensione)2, si alza dalla poltrona, afferra una sporta, un bastone e si reca con andatura lenta ma decisa al mercato a fare la spesa, non per sé ma per una donna semiparalizzata, una «corpulenta sefardita quasi mitica», di età indefinibile, seduta su una sedia a rotelle in una delle squallide e disadorne vecchie case dei vicoli del mercato. L’anziana ashkenazita si prodiga nella cura della «corpulenta sefardita» «con sottomissione estrema, quasi umiliante» (p. 55) ma quando se ne va quest’ultima si riprende e, spingendo la sedia a rotelle con grande perizia tra vicoli e cortili, scende e sale scale (un sapiente montaggio cinematografico aveva eliminato i passaggi impossibili) per arrivare al suo paziente: un malato terminale intubato e con una maschera dell’ossigeno sul viso. La corpulenta donna accudisce il moribondo e anche in questo caso, non appena lei se ne va, contrariamente a ogni logica e credibilità, l’uomo si alza dal letto, si strappa la maschera dell’ossigeno e, spingendo il trespolo delle fleboclisi, si precipita alla vecchia stazione degli autobus di Gerusalemme dove vaga come un fantasma in piena notte con il suo pigiama bianco d’ospedale fino a che trova la ragazza vista all’inizio del film, amaramente delusa dall’amato e che ora aspetta il primo autobus che la riporti all’alba al suo paesello. Il «moribondo», che a quanto pare si è spinto fin lí per prendersi cura di lei o almeno per consolarla, conquista la fiducia della giovane esortandola a esprimere la sua delusione e disperazione e il film si conclude con un primo piano della ragazza che accenna un timido sorriso.
Questo film «d’esordio» di Moses e Trigano ripropone, in una sorta di ribaltamento positivo e idealistico, il carosello lucido e cinico della pièce Girotondo di Arthur Schnitzler (adattato con successo anche al grande schermo), in cui il sedotto diventa nella scena seguente seduttore e l’ultima scena si ricollega alla prima, chiudendo cosí un cerchio. Il film di Moses e Trigano, ingenuo e artefatto al tempo stesso, non convince nemmeno come racconto semi-realistico. Riflettendo, però, scopriamo che illumina alcune vicende centrali del romanzo e che il suo messaggio contiene una verità profonda – una verità che si rivela nei rapporti fra i personaggi e nel loro sviluppo verso una soluzione di conflitti che appaiono irrisolvibili. E in effetti una soluzione positiva di tali conflitti, o anche una riduzione significativa del loro impatto negativo, non sarebbe possibile senza una propensione interiore a vivere secondo la regola: «Ogni paziente può e deve essere anche badante». Una regola a cui se ne può abbinare un’altra: ogni insegnante può e deve essere anche allievo. Yair Moses inizia la sua carriera professionale come giovane insegnante di un prestigioso liceo di Gerusalemme, coscienzioso pedagogo consapevole del proprio valore e in grado di frapporre una chiara distanza fra sé e gli alunni. L’unico che riesce a superare tale distanza è un giovane di nome Shaul Trigano, approdato a quel liceo da un villaggio di nuovi immigrati grazie a una borsa di studio. Il suo insegnante, Moses, lo incontra anche di sera, al cinema, dove Trigano lavora come maschera per guadagnare qualche soldo in piú. Tra i due si instaura un dialogo sempre piú profondo sui film che Trigano ha l’opportunità di vedere piú volte, osservandone in dettaglio pregi e difetti. Col tempo, quando Trigano comincerà a scrivere le sue prime sceneggiature, Moses, l’insegnante, diverrà suo collaboratore fino ad abbandonare a poco a poco l’insegnamento per diventare regista di film – una posizione dalla quale continuerà a istruire, vale a dire a indirizzare e a guidare attori e staff tecnico. Ma la sua autorità di insegnante-artista viene minata dall’indiscusso talento di Trigano e dalla determinazione del giovane nel decidere ogni dettaglio della trama. Moses a poco a poco diviene un sottoposto del giovane. L’insegnante si trasforma in allievo e questo alla fine provoca una rottura fra i due che non è solo un atto di sfida e di affrancamento ma anche di ripristino di una condizione di superiorità, di ripresa del proprio ruolo da parte dell’insegnante. Tale rottura conduce però lentamente a un declino della creatività di Moses che si trasforma in un autore di film commerciali, privi di profondità di pensiero e di immaginazione.
All’inizio della storia Moses sembra non rendersi conto del proprio declino, anche se a tratti questa sua incoscienza appare artificiosa. Verso la fine del romanzo, dopo aver rivisto i suoi primi film girati in collaborazione con Trigano (il regista non sa che saranno gli unici presentati alla retrospettiva e quando se ne rende conto si arrabbia e diviene sospettoso, un atteggiamento che dimostra la consapevolezza della mediocrità dei film da lui girati senza Trigano) comprende di aver commesso dei «peccati professionali» e, di fatto, anche personali e umani. Comprende di essere giunto a un punto morto della propria carriera e di non sapere come proseguire. Va quindi alla ricerca del suo vecchio sceneggiatore, divenuto nel frattempo suo acerrimo nemico, e gli impone un colloquio. Trigano è ora docente di cinematografia a Netivot, una cittadina poco lontano dal confine con la Striscia di Gaza. Moses, che assiste a una sua lezione, scopre che il suo ex allievo è diventato un bravissimo insegnante. Durante il confronto tra i due Moses riconosce di nuovo – almeno in parte – l’autorità di Trigano e quest’ultimo pone, come condizione a un ripristino della loro collaborazione professionale, un atto di pentimento temerario, bizzarro e apparentemente assurdo che tuttavia Moses accetta. Un’accettazione non inappellabile però. Moses cerca di compiere l’atto di pentimento nella maniera giusta a suo vedere ma quando le difficoltà aumentano a volte perde la pazienza e arriva al punto di separarsi nuovamente da Trigano, «destinato a rinchiudersi nella sua solitudine, a non creare nulla di suo e a continuare a insegnare cosa è giusto e cosa è sbagliato nei film degli altri, come quando faceva la maschera a Gerusalemme» (p. 359). Eppure la sua vitalità e la sua forte aspirazione a un rinnovamento creativo lo spingono a ricucire lo strappo. L’atto di pentimento avviene in maniera non meno fantasiosa della momentanea «resurrezione» del malato terminale in Da paziente a badante e, una volta compiuto, Moses potrà pensare a un nuovo progetto cinematografico. Trigano, in veste di sceneggiatore, tornerà a essere allievo o apprendista giacché sarà Moses a proporre l’idea per la trama di un nuovo film mentre lui si limiterà ad adattarla al grande schermo. I due – alternativamente insegnante e allievo – potranno esprimere il loro talento soltanto insieme, in ottemperanza a una regola che impone un incessante scambio di ruoli e di status. Chi dà le direttive potrà continuare a farlo solo se sarà disposto a sottomettersi occasionalmente ad altri. Un autore continuerà a creare solo se nel momento opportuno saprà subordinare ad altri la propria creatività.
La sindrome insegnante/allievo o badante/paziente trova espressione anche in un altro rapporto centrale del romanzo: quello fra Moses e Ruth, l’attrice principale dei suoi film. Ruth (il cui vero nome è Nehama ma che ha scelto «Ruth» in quanto a suo parere è piú adatto a un’attrice israeliana) è nata in un villaggio sperduto del Marocco e dopo la morte della madre subito dopo la sua nascita (il motivo di un genitore che abbandona il figlio o la figlia o li trascura echeggerà anche nel prosieguo della romanzo) è stata condotta in Israele dal padre rabbino, costretto a trasformarsi, nella realtà degli anni Cinquanta, in un umile operaio. È stato però Trigano, suo compagno fin dalla piú tenera età, a dare un’impostazione alla sua vita e al suo «personaggio» e a spingerla fra l’altro ad abbandonare la scuola dopo averla coinvolta, già durante gli anni del liceo, nei suoi progetti cinematografici. In pratica Trigano ha fatto di lei un personaggio simbolo del deserto selvaggio, insofferente delle limitazioni e dei freni imposti dalla società occidentale, uno spirito ribelle nel quale però Ruth non vuole riconoscersi e che di fatto non le appartiene, ma che lei era disposta ad accettare agli inizi della carriera per compiacere il suo amato. Il modello insegnante/allievo e badante/paziente giunge, con la coppia Trigano-Ruth, a una concretizzazione esasperata, pigmalionica. E proprio per questo non può continuare a lungo. In Ruth, che lentamente sviluppa una propria forte personalità, cresce un senso di ribellione verso il fidanzato tiranno al punto di rifiutarsi di interpretare la strana scena conclusiva di un film (intitolato appunto Il rifiuto) che lei ritiene lesiva della sua sensibilità. Questa ribellione, che Moses si affretta a sostenere in totale contrasto ai suoi obblighi di regista verso lo sceneggiatore, è all’origine del doppio strappo tra Ruth e Trigano e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nove e mezzo
  4. Nove e mezzo
  5. Dietro a ogni pensiero se ne nasconde un altro
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Copyright