Dialettica negativa
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Dialettica negativa

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Apparsa per la prima volta in Germania nel 1966, e qui ripubblicata in una nuova traduzione, la Dialettica negativa di Adorno non è solo uno dei grandi classici del pensiero del Novecento; è anche un libro che non ha perso, a quasi quarant'anni dalla sua prima edizione, il suo potenziale critico e la sua forza di provocazione. Vera e propria summa del pensiero adorniano, nella quale l'autore vedeva il compimento del lavoro teorico di una vita, la Dialettica negativa è un testo filosofico a tutto tondo, che non si ritrae di fronte a nessuna delle grandi questioni con le quali si è misurata la tradizione intellettuale dell'Occidente. Alla critica inflessibile e puntigliosa dell'ontologia di Heidegger, dei suoi intenti restaurativi e delle sue complicità con il potere, da cui l'opera prende le mosse, fa riscontro un denso percorso analitico, nel quale Adorno si confronta con le questioni centrali della teoria della conoscenza, con i temi della libertà, della storia, e infine della metafisica intesa come interrogazione intorno al senso ultimo del nostro essere al mondo. Il lavoro di scavo sulle contraddizioni che la grande tradizione filosofica (da Kant a Hegel, da Heidegger a Wittgenstein) non è riuscita a sciogliere non conduce a soluzioni preconfezionate, ma non approda neppure al nichilismo o al disfattismo della ragione. Al contrario: nei nodi irrisolti del pensiero traspare il carattere antagonistico e inconciliato del mondo degli uomini; soffermandosi presso le contraddizioni e le fratture che lo attraversano, la dialettica negativa testimonia che l'esistente non esaurisce lo spazio del possibile. E mantiene aperta quella dimensione della critica che costituisce, secondo Adorno, la vocazione irrinunciabile della filosofia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410011

Parte terza

I modelli

I.

La libertà. Per la metacritica della ragion pratica

«Il falso problema».
Una volta si parlava di falso problema quando si voleva impedire illuministicamente che dall’autorità indiscussa dei dogmi potessero discendere considerazioni che sarebbero indecidibili proprio per il pensiero a cui venivano demandate. Questo riecheggia nell’uso peggiorativo del termine scolastica. Ma ora i falsi problemi non sarebbero piú quelli che si prendono gioco del giudizio e dell’interesse razionale, ma quelli che usano concetti non ben definiti. Un tabú semantico strozza le questioni reali, come se fossero solo questioni di significato; l’esame preliminare degenera nel divieto di esaminare. Le regole del gioco di un metodo, modellate senz’altro su quelle solite della scienza esatta, regolano ciò su cui è lecito riflettere, fosse pure la cosa piú urgente; i modi di procedere approvati, i mezzi, conquistano il primato sul conoscibile, i fini. Vengono cancellate le esperienze che sono in contrasto con il segno a loro univocamente correlato. Delle difficoltà da esse procurate avrebbe colpa soltanto un’imprecisa terminologia prescientifica. – Se la volontà sia libera è cosí rilevante, come i termini sono refrattari al desideratum di stabilire chiaro e tondo il loro significato. Poiché la giustizia e la punizione, e in fondo la possibilità di quel che per tutta la tradizione filosofica è stato chiamato morale o etica, dipendono da questa risposta, il bisogno intellettuale non si lascia sottrarre questa domanda ingenua come un falso problema. Un’autocompiaciuta pulizia intellettuale gli offre un misero soddisfacimento sostitutivo. Non di meno la critica semantica non è da trascurare. L’urgenza di una domanda non può costringere a dare una risposta, qualora non sia ottenibile una vera; ancor meno il bisogno fallibile, neanche quello disperato, può indicare la direzione della risposta. Si dovrebbe riflettere sugli oggetti in questione non come si giudica su enti o non enti, bensí accogliendo nella loro determinazione sia l’impossibilità di reificarli che l’invito a pensarli. Nel capitolo sulle antinomie della Critica della ragion pura o in ampie parti della Critica della ragion pratica lo si è tentato con intenzione piú o meno esplicita; però Kant non ha evitato del tutto l’uso dogmatico della ragione che egli come Hume biasima in altri concetti tradizionali. Egli ha appianato dicotomicamente il conflitto tra la fatticità – la «natura» – e il razionalmente necessario – il mondo intellegibile. Anche se la volontà o la libertà non possono essere indicate come un ente, ciò non esclude affatto, in analogia con la schietta gnoseologia predialettica, che singoli impulsi o singole esperienze si lascino sintetizzare sotto concetti ai quali non corrisponde alcun sostrato naturale, ma che riducono quegli impulsi o esperienze a un comune denominatore, come, per fare un paragone, l’«oggetto» kantiano i suoi fenomeni. Secondo questo modello la volontà sarebbe l’unità normativa di tutti gli impulsi che si mostrano insieme spontanei e razionalmente determinati, a differenza della causalità naturale nel cui quadro comunque rimasero: nessuna sequenza di atti di volontà è al di fuori del nesso causale. Libertà sarebbe la parola per la possibilità di quegli impulsi. Ma la svelta soluzione gnoseologica non basta. La domanda, se la volontà sia libera oppure no, mette di fronte a un aut-aut tanto rigoroso quanto problematico, sul quale sorvola con indifferenza il concetto di volontà quale unità normativa dei suoi impulsi. E soprattutto in questo costrutto concettuale, orientato sul modello della filosofia soggettiva dell’immanenza, viene supposto tacitamente che la volontà e la libertà abbiano una struttura monadologica. Questo è contraddetto da una cosa semplicissima: innumerevoli momenti della realtà esterna, in particolare di quella sociale, entrano nelle decisioni definite libere e volontarie con la mediazione di quel che la psicoanalisi chiama «esame di realtà»; se il concetto di volontà conforme a ragione avrà mai un qualche significato, esso si riferisce proprio a ciò, per quanto Kant si ostini a negarlo. Ciò che alla definizione filosofico-immanente di quei concetti dona eleganza e autarchia è in verità un’astrazione rispetto alle decisioni effettive di cui ci si può chiedere se siano libere o no; ciò che essa lascia di psichico è poco rispetto alla complessione reale d’interno ed esterno. Da questo qualcosa d’impoverito, di chimicamente puro, non si può ricavare che cosa è lecito predicare della libertà o del suo contrario. Detto piú rigorosamente, e anche piú kantianamente, il soggetto empirico che prende le decisioni – e solo uno empirico le può prendere, l’io penso di trascendentale purezza non potrebbe avere impulsi – è esso stesso momento del mondo «esteriore», spazio-temporale e non ha su di esso alcuna priorità ontologica; perciò naufraga il tentativo di localizzare in lui la questione del libero arbitrio. Questo tentativo traccia il confine tra l’intellegibile e l’empirico all’interno dell’empiria. Questo c’è di vero nella tesi del falso problema. Non appena la questione del libero arbitrio si riduce a quella della decisione degli individui rispettivamente singoli, separati dal loro contesto, l’individuo dalla società, essa obbedisce all’inganno di un puro essere in sé assoluto: la limitata esperienza soggettiva usurpa la dignità della cosa piú certa. Il sostrato dell’alternativa ha un che di fittizio. Il presunto soggetto in sé essente è internamente mediato da ciò da cui si separa, la relazione di tutti i soggetti. Tramite la mediazione diventa ciò che in base alla sua coscienza di libertà non vuole essere: eteronomo. Anche laddove si suppone l’illibertà positivamente, le sue condizioni, in quanto quelle di una causalità psichica chiusa nell’immanenza, vengono ricercate nell’individuo scisso, che essenzialmente non è cosí scisso. Come il singolo non trova dentro di sé il rapporto di cose della libertà, cosí il teorema di determinazione non può semplicemente estinguere post festum il sentimento ingenuo dell’arbitrio; la dottrina del determinismo psicologico è stata sviluppata solo in una tarda fase.
L’interesse alla libertà è scisso.
Dal secolo XVII la grande filosofia aveva definito la libertà come il suo interesse piú proprio; con l’implicito mandato della classe borghese di fondarla in modo trasparente. Quell’interesse è però internamente antagonistico. Va contro la vecchia repressione e incrementa quella nuova insita nello stesso principio razionale. Viene cercata una formula comune per la libertà e la repressione: quella viene ceduta alla razionalità che la limita e l’allontana dall’empiria in cui non la si vuole affatto vedere realizzata. Questa dicotomia si connette anche alla progressiva scientifizzazione. La classe borghese è alleata con questa in quanto incrementa la produzione, e deve temerla non appena intacca la fede nell’esistenza della sua libertà, già rassegnata all’interiorità. Questo sta realmente dietro la dottrina delle antinomie. Già in Kant e poi negli idealisti l’idea di libertà entra in antitesi con la ricerca specialistica, in particolare con quella psicologica. I suoi oggetti vengono relegati da Kant nel regno dell’illibertà; la scienza positiva starebbe al di sotto della speculazione: in Kant al di sotto della dottrina dei noumena. Con il venir meno della capacità speculativa e il correlato sviluppo delle scienze particolari l’antitesi si è acuita all’estremo. Le scienze particolari hanno pagato per questo con la grettezza, la filosofia con un vuoto non vincolante. Quanto piú le scienze specialistiche le sequestrano il contenuto – ad esempio la psicologia la genesi del carattere, su cui lo stesso Kant fa congetture ancora selvagge – tanto piú penosamente i filosofemi sul libero arbitrio scadono a declamazioni. Se le scienze particolari cercano una sempre maggiore legalità; se questo, ancor prima che ne abbiano l’intenzione, le spinge a prendere partito per il determinismo, allora nella filosofia devono depositarsi in misura crescente visioni prescientifiche e apologetiche della libertà. In Kant la dottrina delle antinomie, in Hegel la dialettica della libertà costituiscono un momento filosofico essenziale; dopo di loro almeno la filosofia accademica si è votata all’idolo di un regno che si eleva sull’empiria. La libertà intellegibile degli individui viene apprezzata affinché senza inibizioni si possano inchiodare quelli empirici alle loro responsabilità e li si possa tener meglio a freno, prospettando una punizione metafisicamente giustificata. L’alleanza della dottrina della libertà con la prassi repressiva allontana la filosofia sempre piú da una comprensione genuina della libertà e illibertà dei viventi. Essa si avvicina, anacronisticamente, a quella melensa edificazione che Hegel aveva diagnosticato come miseria della filosofia. Poiché però la scienza particolare – ad esempio quella del diritto penale – non è all’altezza del problema della libertà ed è costretta a dichiarare la propria incompetenza, essa cerca aiuto proprio da quella filosofia che non può concederglielo per la sua cattiva e astratta antitesi allo scientismo. Dove la scienza attende dalla filosofia la decisione sull’insolubile, riceve da questa solo conforto ideologico. Su di esso si orientano poi i singoli scienziati secondo i gusti e, si deve temere, secondo la propria struttura psicologica pulsionale. Il rapporto con il complesso di libertà e determinismo viene rimesso all’arbitrio dell’irrazionalità, oscillando tra singole osservazioni piú o meno empiriche, inconcludenti, e universalità dogmatiche. In ultimo la posizione rispetto a questo complesso viene a dipendere dalla fede politica o dal potere appena riconosciuto. Le riflessioni su libertà e determinismo suonano arcaiche, come agli inizi della borghesia rivoluzionaria. Ma che la libertà invecchi senza essere realizzata non è da accettare come fatalità; la resistenza deve spiegarla. L’idea di libertà perse non da ultimo il suo potere sugli uomini perché era stata concepita sin dall’inizio in modo soggettivo-astratto, cosicché l’oggettiva tendenza sociale non fece fatica a seppellirla sotto di sé.
La libertà, il determinismo, l’identità.
L’indifferenza per la libertà, per il suo concetto e per la cosa stessa è maturata dall’integrazione sociale che i soggetti subiscono come se fosse irresistibile. Il loro interesse a essere garantiti ha paralizzato quello per una libertà che essi temono come mancanza di protezione. Come l’appello alla libertà, il solo nominarla suona retorico. A ciò si adegua il nominalismo intransigente. Che esso releghi le antinomie oggettive secondo il canone della logica nella regione dei falsi problemi ha a sua volta una funzione sociale: coprire le contraddizioni, rinnegandole. Mentre ci si attiene ai dati o ai loro eredi contemporanei, le proposizioni protocollari, la coscienza viene esonerata da ciò che contraddice l’esterno. Secondo le regole di quell’ideologia basterebbe soltanto descrivere e classificare i modi di comportamento degli uomini nelle diverse situazioni, non parlare di volontà o di libertà; questo sarebbe feticismo concettuale. Tutte le determinazioni dell’io, com’era effettivamente nei progetti del behaviorismo, sarebbero ritraducibili semplicemente in modi di reagire e reazioni singole che poi si sarebbero stabilizzati. Non si considera che lo stabilizzato crea nuove qualità rispetto ai riflessi dai quali può essere sorto. I positivisti ubbidiscono inconsapevolmente al dogma del primato del primo, nutrito dai loro mortali nemici, i metafisici: «Piú di ogni altra cosa si venera ciò che è antico, ma ciò su cui si giura merita piú rispetto di altro»1. In Aristotele è il mito; di esso negli antimitologi puri rimane la concezione che tutto quel che è sarebbe riducibile a ciò che una volta è stato. Nelle equazioni del loro metodo quantificante c’è cosí poco spazio per la formazione dell’altro, come all’interno del bando del destino. Tuttavia ciò che negli uomini si è oggettivato a partire dai riflessi e contro questi, il carattere o la volontà, organo potenziale di libertà, è anche ciò che li mina. Infatti esso impersona il principio di dominio al quale gli uomini si assoggettano sempre piú. L’identità del Sé e l’estraniazione del Sé si accompagnano sin dall’inizio; perciò il concetto di estraniazione del Sé è cattivo romanticismo. Pur essendo condizione di libertà, l’identità è immediatamente insieme il principio del determinismo. C’è volontà nella misura in cui gli uomini si oggettivano nel carattere. Con ciò essi diventano esteriori a se stessi – qualunque cosa ciò sia – secondo il modello del mondo esterno, assoggettato alla causalità. – Inoltre il concetto di «reazione», di per sé positivista, meramente descrittivo, presuppone assai piú di quanto ammette: la dipendenza passiva dalla situazione rispettivamente data. Viene fatta sparire a priori l’interazione di soggetto e oggetto, la spontaneità viene esclusa già dal metodo, all’unisono con quell’ideologia dell’adattamento che, al servizio del mondo, disabitua gli uomini a quel momento anche nella teoria. Se ci si fermasse alle reazioni passive, ci si fermerebbe nel linguaggio dell’antica filosofia alla ricettività: nessun pensiero sarebbe possibile. Come c’è volontà solo per mezzo della coscienza, cosí correlativamente c’è anche coscienza solo dove c’è volontà. Da parte sua l’autoconservazione nella sua storia esige piú che il riflesso condizionato e prepara quindi quel che alla fine potrebbe superarla. In questo essa presumibilmente si appoggia all’individuo biologico che prescrive la forma ai suoi riflessi; difficilmente potrebbero esserci i riflessi senza un qualche momento di unità. Essa si rafforza come il Sé dell’autoconservazione; a lui la libertà si apre come il suo esser diventato differente dai riflessi.
La libertà e la società organizzata.
Senza alcun pensiero di libertà la società organizzata non si potrebbe fondare. A sua volta essa poi la riduce. Le due cose si potrebbero mostrare sulla base della costruzione hobbesiana del contratto statale. Di fatto un determinismo lineare sanzionerebbe, in antitesi al determinista Hobbes, il bellum omnium contra omnes; ogni criterio d’azione verrebbe meno, se tutte fossero ugualmente predeterminate e cieche. Viene prospettata una situazione estrema; forse c’è un paralogismo nel fatto che si esiga la libertà per la possibilità di vivere in società: affinché non ci sia il terrore, la libertà dovrebbe essere reale. Piuttosto c’è invece il terrore, perché non c’è ancora libertà. La riflessione sul problema della volontà e della libertà non abolisce il problema, ma lo ripropone nella prospettiva della filosofia della storia: perché le tesi, che la volontà è libera e che la volontà non è libera, sono diventate un’antinomia? Che quella riflessione sia sorta storicamente, Kant non ha mancato di notarlo e ha espressamente basato sul suo ritardo la pretesa rivoluzionaria della sua filosofia morale: «Si vedeva l’uomo legato dal suo dovere a leggi, ma non ci si lasciava venire in mente che egli fosse assoggettato a una legislazione sua propria e tuttavia universale, e che egli fosse legato soltanto ad agire in conformità della propria volontà, la quale però, secondo il suo fine naturale, detta leggi universali»2. Non gli è però mai passato per la mente che la stessa libertà, per lui un’idea eterna, possa essere di natura storica; non solo come concetto, ma anche in base al contenuto di esperienza. A intere epoche, a intere società mancava sia il concetto di libertà che la cosa. Attribuirla a esse come un in sé oggettivo, anche nel caso in cui agli uomini fosse del tutto velata, contrasterebbe con il principio kantiano del trascendentale che deve essere fondato nella coscienza soggettiva e che sarebbe insostenibile, qualora esso, la presunta coscienza in generale, venisse meno a uno dei viventi. Da qui lo sforzo caparbio di Kant di dimostrare che la coscienza morale è presente ovunque, anche nei radicalmente cattivi. Altrimenti egli a quelle fasi e a quelle società prive di libertà avrebbe dovuto negare con il carattere di entità dotate di ragione anche quello di umanità; il seguace di Rousseau non avrebbe acconsentito a ciò. Prima che si formasse l’individuo nel senso moderno, ovvio per Kant, che non intende semplicemente la singola natura biologica, ma quella costituita come unità solo tramite la sua autoriflessione3 , «l’autocoscienza» hegeliana, è anacronistico parlare di libertà, reale o richiesta. Come pure la libertà, da produrre per intero solo in condizioni sociali di scatenata abbondanza di beni, potrebbe estinguersi del tutto e forse senza lasciar traccia. Il male non è che gli uomini liberi agiscano in modo radicalmente cattivo, come effettivamente agiscono in una misura per Kant inimmaginabile, ma che non ci sia ancora un mondo in cui essi, secondo una folgorazione di Brecht, non abbiano piú bisogno di essere cattivi. Il cattivo potrebbe essere allora la loro propria illibertà: ciò che accade di cattivo ha origine da essa. È la società che fa diventare gli individui, anche in base alla loro genesi immanente, quel che sono; la loro libertà o illibertà non è il primario, quale appare loro sotto il velo del principium individuationis. Infatti l’io impedisce alla coscienza soggettiva anche la visione della propria dipendenza, come è stato chiarito da Schopenhauer con il mito del velo di Ma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dialettica negativa
  3. Un pensiero sul margine del paradosso di Stefano Petrucciani
  4. Avvertenza
  5. Premessa
  6. Introduzione
  7. Parte prima - Il rapporto all’ontologia
  8. Parte seconda - Dialettica negativa. Il concetto e le categorie
  9. Parte terza - I modelli
  10. Glossario a cura di Pietro Lauro
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright