L'italiano nascosto
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L'italiano nascosto

Una storia linguistica e culturale

  1. 336 pagine
  2. Italian
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L'italiano nascosto

Una storia linguistica e culturale

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A comporre questo inconsueto quadro linguistico e culturale sono convocati qui numerosi personaggi, infimi e noti: streghe e servitori, mezzadri e parroci di campagna, mercanti, dragomanni e pescivendoli, mugnai e sovrastanti, briganti e soldati, ma anche catechisti e maestri d'abaco, monache, vescovi e santi insieme a famosi letterati che, nel disbrigo delle loro faccende quotidiane, non esitano a ricorrere a una semplicità comunicativa contigua al mondo subalterno. Un'avventura o percorso nella storia della nostra lingua che consegna al lettore un panorama complesso e iridescente, folto di forme intermedie e in chiaroscuro. E che fa dell'italiano nascosto, pratico e di sopravvivenza, una figura essenziale delle vicende non solo linguistiche dell'Italia prima dell'Italia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858412169

Capitolo primo

Le scritture dei semicolti

1.
La produzione scritta di soggetti che, pur alfabetizzati, non hanno raggiunto una piena competenza della scrittura rimanendo cosí legati al dominio dell’oralità, è stata dapprima studiata sotto l’etichetta di ‘italiano popolare’ e poi sotto quella di ‘italiano dei semicolti’1.
La prima nozione è stata compiutamente definita da De Mauro nel 1970 (il «modo d’esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano», p. 49) e da Cortelazzo nel 1972 («il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto», p. 11), anche se di questo genere di studi, sviluppatosi impetuosamente dagli anni settanta, il precursore va individuato nel romanista Leo Spitzer. Il quale, ufficiale dell’esercito austriaco nella prima guerra mondiale e addetto alla censura della posta dei prigionieri italiani, trascrisse ed esaminò numerose lettere di quest’ultimi pubblicandone una raccolta nel 1921 (tradotta nella nostra lingua solo nel 1976).
Termine e nozione di ‘semicolto’ (e, di conseguenza, l’‘italiano dei semicolti’) sono entrati invece, progressivamente affermandosi, nel dibattito linguistico a partire da uno studio di argomento trecentesco di Bruni apparso nel 1978. Qui, riferendosi al presente, Bruni discute di semicolti come di «gruppi sottratti all’area dell’analfabetismo ma neppure del tutto partecipi della cultura elevata» (p. 548).
Pur con differenze o spostamenti d’accento, con enfasi su certi parametri a scapito di altri e con non pochi problemi insiti nel rapporto con altre varietà e/o categorie interpretative, dalle definizioni allineate in precedenza si può comunque dedurre che l’italiano dei semicolti (questa è la formulazione che preferiamo usare qui) è una realizzazione linguistica intermedia che, tenendo dell’uno e dell’altro, mette in contatto (e anche in attrito) i due mondi dell’oralità e della scrittura2. Ovvero: la varietà multiforme delle parlate locali e la varietà standard dell’italiano normativo senza però sfociare in una trascrizione delle prime (anzi è opinione comune che i tratti dialettali siano minori di quanto ci si attenderebbe) e senza neppure coincidere tantomeno con la seconda.
Bachtin, trattando del romanzo ma prospettando insieme questioni piú ampie di linguistica, ha scritto che «ogni enunciazione partecipa alla ‘lingua unitaria’ (alle forze e tendenze centripete) e contemporaneamente alla pluridiscorsività sociale storica (alle centrifughe forze stratificanti)»: BACHTIN 1979, p. 80. Valida per ogni enunciazione, tale diagnosi si attaglia a maggior ragione ai testi semicolti, nei quali si percepisce la tensione verso un polo centripeto della lingua (che sarà, nel caso nostro, piú un tendenziale italiano d’uso che una varietà compattamente unitaria) e, insieme, la tensione espressiva verso molteplici e centrifughi poli idiomatici, i quali contemplano anche una varietà di esperienze, vite e culture.
Questo doppio sistema di tensioni prende forma in particolari tipi di testi, in cui l’esigenza e la necessità di esprimersi, il bisogno di mettere sulla carta (o sui muri) notizie, fatti, difese o sentimenti si realizzano in schemi primari della scrittura: lettere, diari, autobiografie ma anche le cosiddette ‘scritture esposte’: cartelli, tavolette di ex voto, scritte murali3. Tali testi sono stati dapprima editi e studiati (sotto l’insegna dell’‘italiano popolare’) trascegliendoli dai secoli piú recenti (l’Ottocento e il Novecento) e interpretandoli sostanzialmente come una conseguenza dei grandi mutamenti intervenuti dopo l’Unità: dalla scolarizzazione alla leva obbligatoria, dalle guerre all’industrializzazione. Successivamente l’interesse si è esteso anche a testi anteriori all’Ottocento. La loro similarità con i testi otto-novecenteschi, mentre non consente piú per essi un’interpretazione come la precedente, ha sensibilmente mutato lo scenario dell’analisi storica dell’italiano ponendo il problema della diffusione di quest’ultimo «in termini un po’ diversi dal rigido monolinguismo dialettale in precedenza ipotizzato per le epoche anteriori all’Unità»: D’ACHILLE 1994, p. 494. Da ciò, in estrema sintesi, si sono tratte, negli studi piú recenti, due conseguenze. La prima: l’italiano dei semicolti appare come una modalità espressiva dal «carattere tendenzialmente pancronico» (TRIFONE 2006, p. 274) che accomuna la fenomenologia dei testi degli ultimi secoli a quella dei tempi piú remoti sino ad arrivare persino alle testimonianze del latino volgare5. Anche se – è forse il caso di aggiungere precisando – il rinvenimento di aspetti costanti di lunga durata, ascrivibile in larga parte ai tratti della comunicazione parlata, non deve nascondere, nella dinamica storica, alcuni movimenti di italianizzazione, fasi di espansione di una lingua d’uso con progressivi incrementi di stabilità. La seconda conseguenza: la ‘data di nascita’ dell’italiano semicolto, non piú collocabile nella fase postunitaria, va quindi arretrata e ricondotta ad altri momenti. Secondo Trifone è ipotizzabile una sua origine addirittura all’epoca della prima «codificazione linguistico-letteraria del Trecento, che contrappone una varietà ‘alta’ di riferimento ad una varietà ‘bassa’ di partenza»: TRIFONE 2006, p. 274.
Al di là dei vari pareri, si può comunque con certezza affermare (seguendo, tra gli altri, BERRUTO 1987, p. 113) che il momento decisivo per questo tipo di lingua va collocato nel Cinquecento, nel periodo cioè della codificazione della norma bembiana. È in questi anni che, da un lato, si fanno sempre piú numerose le testimonianze dei semicolti e che, dall’altro, si determina – in seguito alla normalizzazione grammaticale – una sempre piú netta separazione tra scritture di livello alto e scritture di stampo medio-basso. Differentemente dai secoli precedenti, in cui la situazione si presentava ancora fluida e variamente polimorfica, ora l’affermarsi di una regola meglio consente la riconoscibilità di quanto eccede da essa: lo iato che si scava nei confronti di comportamenti stilistici a fortissimo tenore estetico-letterario e ad alta tenuta di stabilità (quasi un platonismo linguistico) fa emergere per contrasto moduli, segni e testi di lingua d’uso, priva di preoccupazioni letterarie o di intenti artistici. Da qui l’importanza di tali documenti per la ricostruzione dei processi di italianizzazione della penisola e, insieme, per il rinvenimento di un uso concreto della lingua che, non coincidendo né con lo standard normativo in via di formazione né con le parlate locali, riesce a essere, pur tra tante difficoltà, comunicativa ancor prima che i processi storici determinino un’effettiva e diffusa italofonia.
Connesse con l’esigenza concreta di ‘farsi intendere’ sono alcune delle piú importanti caratteristiche dei testi semicolti. Se si astrae – ma è necessario farlo – da quei casi al di sotto del limite della comprensibilità a causa di bassa coesione e coerenza e della mancata esplicitazione di circostanze non verbali date per scontate ma a noi non note, si possono desultoriamente elencare, per i testi di media ‘tenuta’ e di sopravvivente intellegibilità, i seguenti tratti macroscopici6: la tendenza alla semplificazione, soprattutto sul piano morfosintattico; e, strettamente legata a essa, l’uso dell’analogia; l’interferenza con il dialetto che, evidente in fatti fonetici e lessicali, non dà però mai origine a effetti di dispersione babelica; l’impostazione egocentrica del discorso, da intendersi sia come quadro referenziale della parola che come partecipazione emotiva all’argomento in questione; la ‘regola’ dominante della ripetizione per marcare a piú riprese il tema ritenuto piú rilevante; e, in bilanciamento con quest’ultima – al fine di assicurare una minima progressione semantica –, il ricorso a schemi di messa in rilievo affidati alle strategie di tematizzazione; l’andamento sintattico ‘slegato’ o a blocchi in corrispondenza con una progettazione a breve gittata; la deissi extratestuale o ‘esoforica’ che rinvia a quanto sta al di fuori della scrittura sottolineando la forte dipendenza dal contesto e – sotto l’aspetto cognitivo – l’assenza di astrazione da esso. Accanto a queste strategie linguistiche, alcune delle quali (dalla quarta all’ottava per esser precisi) rientrano nel modo di comunicazione definito da GIVÓN 1979 pragmatic mode in contrapposizione al syntactic mode, va poi anche ricordato – a completare per quanto è possibile il quadro – il riuso di schemi, moduli o di veri e propri cliché formulari appartenenti al genere utilizzato (la scrittura fa sempre sentire, anche ai livelli piú bassi di competenza, la sua forza d’attrazione, il suo prestigio e la sua «morale de la countenance»: GREIMAS e FONTANILLE 1991, p. 248).
Stabilite le premesse essenziali (definizione dell’oggetto e sue principali caratteristiche), ci dedicheremo nelle pagine seguenti alla lettura di alcuni documenti o, talvolta, di semplici brani della produzione linguistica dei semicolti. Tra i numerosi suoi esemplari, venuti alla luce in maniera particolarmente fitta negli ultimi anni, sceglieremo solo pochi casi rappresentativi disponendoli – senza per questo voler minimamente tentare una loro storia o sistematico inquadramento – sull’arco cronologico che va dal Cinquecento ai primi anni del Novecento.
2.
L’origine materialisticamente individuata da Foscolo nei «bisogni dell’uomo» e nei loro naturali suggerimenti, segnalata in principio nell’Introduzione, è in buona sostanza – se all’urgenza comunicativa si sovrappone quella che Claude Hagège chiama «la passione di dir(si)»: HAGÈGE 1989, p. 285 – quanto ha spinto, attraverso i secoli, i semicolti a impugnare la penna. È quanto, ad esempio, ha indotto, nel 1527 o 1528, Bellezze Ursini da Collevecchio, nella campagna romana della Sabina, a stendere la sua ‘confessione’. Il testo, dettagliatamente studiato in TRIFONE 20067, pp. 185-290, può a buon diritto essere eletto, insieme ad altri che vedremo piú avanti, a piccolo ‘classico’ della scrittura semicolta sia per la vasta attenzione ricevu-ta8 sia per la sua singolarità. Si tratta infatti – ed è cosa rara – di una confessione scritta dalla diretta interessata e non, come solitamente avveniva, raccolta dalla viva voce e poi trascritta da una figura intermediaria in un verbale da allegare agli atti del processo.
Bellezze era una popolana che alternava all’attività di domestica quella di guaritrice e che si era cosí attirata, in un ambiente caratterizzato da ignoranza e sottosviluppo, l’accusa di stregoneria. Le voci diffuse sul suo conto bastarono a promuovere un’azione giudiziaria contro di lei. Il processo si tenne a Fiano sotto la regia del giudice Marco Calisto da Todi, assistito dal vicario del luogo, il notaio Luca Antonio (di cui poi torneremo a parlare). Incarcerata e sottoposta a tortura, Bellezze dapprima nega ogni addebito, ma in seguito, stremata dalle sofferenze, sceglie la strategia del pentimento sperando con ciò di ottenere un giudizio clemente e di evitare lo strazio della ‘corda’. Accetta dunque il consiglio del suo «pricuratore» (il figlio Giovanni) e redige una confessione: «otto paginette faticosamente riempite» le cui «lettere incerte, tracciate una per una, senza legature» mostrano con chiarezza che «la loro autrice non aveva molta confidenza con la penna»: TRIFONE 2006, pp. 186-87. Ormai decisa a ‘sciogliere il sacco’, Bellezze rivela, quasi a voler compiacere fantasie e aspettative dei suoi inquisitori, un’impressionante serie di misfatti negromantici. Ma non dovette servirle a nulla perché, ormai convinta che l’aspettava il rogo, preferí infine suicidarsi.
«Scriveva male, Bellezze; ma comunque scriveva»: TRIFONE 2006, p. 187. E che una popolana par suo, e appartenente a un contesto povero e marginale sotto ogni possibile aspetto, riuscisse a metter su carta la sua confessione è un fatto di grande rilievo, che può essere bifidamente interpretato: o semplicemente, come si è soliti fare, nei termini dell’assoluta eccezionalità o ipotizzando invece che una sia pur minima competenza di lingua scritta fosse propria di certi semicolti. I quali, non confitti nell’esclusivo mondo della dialettale parola orale, erano in grado di interpretare un livello minimo di ‘italiano’ quando le circostanze li costringevano a farlo. L’unicità di Bellezze sarebbe allora – sempre rimanendo nel campo delle ipotesi – dovuta sia alla fortunata circostanza che ci ha permesso di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’italiano nascosto
  3. Premessa
  4. L’italiano nascosto
  5. Introduzione
  6. I. Le scritture dei semicolti
  7. II. Libri per leggere e libri per imparare
  8. III. Nel retroscena dei letterati
  9. IV. Un volgare per la fede
  10. V. L’italiano d’oltremare
  11. Conclusione
  12. Bibliografia
  13. Indice dei nomi
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright