– Papà?
La voce è quella di Louis, il mio primogenito, al tempo undicenne.
– Sí?
Il mio papà avrebbe detto: «… Sííííí?» inserendoci un tono calante, a segnalare una modesta ma immancabile irritazione. Una volta gli chiesi perché lo facesse e lui rispose: «Sono qui, giusto?» Secondo lui l’intercalare Papà-Sí? era chiaramente pleonastico, trovandoci noi insieme nella stessa stanza e avendo già avviato una conversazione, per quanto saltuaria (e, dal suo punto di vista, non stimolante). Capivo che cosa intendesse; ma cinque minuti dopo mi ritrovavo a ripetere: «Papà?», per poi prepararmi a una locuzione affermativa di particolare veemenza. Soltanto da adolescente riuscii a interrompere quell’abitudine. I bambini hanno bisogno di un momento per garantirsi l’attenzione dell’interlocutore mentre forgiano il loro pensiero.
Il brano che segue è tratto da I Like It Here (1958), il terzo dei romanzi di Kingsley e il piú vicino al genere autobiografico1:
– Papà?
– Sí?
– Quanto è grande la nave che ci porterà in Portogallo?
– Non lo so di preciso. Molto grande, direi.
– Grande come un’orca assassina?
– Cosa? Ah, sí, probabilmente.
– Grande come una balena azzurra?
– Sí, certo, grande come una balena.
– Gigante, allora.
– Sí, decisamente gigante.
– Quanto gigante?
– Che ti importa quanto gigante? Gigante, punto e basta.
Segue una pausa, poi la discussione riprende.
– Papà?
– Sí?
– Se due tigri attaccano una balena azzurra, la possono uccidere?
– Be’, ma non può succedere. Se la balena è in mare, le tigri annegano subito, e se la balena…
– Ma facciamo finta che l’attacchino.
– Oh, Dio. Be’, credo che alla fine le tigri l’ammazzerebbero, ma ci vorrebbe un bel po’ di tempo.
– E quanto ci metterebbe una tigre da sola?
– Ancora di piú. E adesso basta domande su tigri e balene.
– Papà?
– Oh, David, ora che c’è?
– Se due serpenti marini…
Come ricordo bene quelle chiacchiere interessantissime. Le mie non erano neppure tigri qualsiasi, oltretutto: erano tigri dai denti a sciabola. E gli attacchi da arena di gladiatori di cui fantasticavo erano assai piú complessi di quanto appaia sulle pagine di I Like It Here. Se due boa constrictor, quattro barracuda, tre anaconda e un calamaro gigante… dovevo avere cinque o sei anni all’epoca.
Ripensandoci, mi rendo conto di come quelle domande dovessero agire sulle piú segrete paure di mio padre. Kingsley, che si rifiutava di guidare e di salire in aereo, che da solo non stava volentieri su autobus, treni o ascensori (ma nemmeno in casa, se era già buio), non era precisamente un patito di navi, né di serpenti marini. Non avrebbe neppure mai voluto andare in Portogallo né altrove. Quel viaggio gli fu imposto dai termini contrattuali del Somerset Maugham Award – un «mandato di deportazione», come lo definí in una lettera a Philip Larkin («costretto ad andare all’estero, maledizione, costretto»). Aveva vinto il premio con il suo primo romanzo, Lucky Jim, pubblicato nel 1954. Vent’anni dopo, l’avrei vinto anch’io.
The Rachel Papers uscí a metà novembre del ’73. La sera del 27 dicembre di quell’anno mia cugina, Lucy Partington, che abitava con la madre nel Gloucestershire, fu accompagnata in macchina a Cheltenham per far visita a una vecchia amica, Helen Render. Lucy e Helen trascorsero la serata facendo progetti per il futuro; insieme prepararono la domanda di iscrizione per il Courtauld Institute di Londra, dove Lucy sperava di poter proseguire gli studi di arte medievale. Si separarono alle 10,15. La fermata dell’autobus era a tre minuti a piedi da lí. Lucy non spedí mai quella lettera e non prese nemmeno l’autobus. Aveva ventun anni. Ce ne vollero altrettanti prima che il mondo scoprisse che cosa le era successo.
– Papà?
– Sí?
Louis e io eravamo in macchina – il luogo deputato di tanti scambi tra genitori e figli, quando gli Anni da Autista incominciano a dispiegarsi davanti a noi come una superstrada.
– Se non essere famoso non ti cambiasse per niente la vita, vorresti lo stesso essere famoso?
Domanda ben formulata, pensai. Sapeva che la notorietà è un ineluttabile effetto collaterale dell’acquisizione di un pubblico di lettori. Ma a parte quello? Che altro? La notorietà è merce senza valore. Di quando in quando può garantirti un trattamento speciale, ammesso che sia quello che vai cercando. Ti garantisce anche una ragguardevole dose di curiosità ostile. Il che non mi turba, ma io sono un caso speciale. Ciò che fa di me un candidato al successo, tende al tempo stesso a farmici assuefare. In una parola: Kingsley.
– Non credo, – risposi.
– Perché?
– Perché ti incasina la testa.
E Louis accolse annuendo la mia spiegazione2 .
Una volta si diceva che ciascuno di noi ha dentro un romanzo. E io ci credevo, e ancora ci credo, in un certo senso. Se sei un romanziere ci devi credere, perché fa parte del tuo mestiere: passi un mucchio di tempo a scrivere romanzi che altri hanno dentro3 . Oggi come oggi, tuttavia, nel 1999, si sarebbe portati a dubitare di tale assunto; di questi tempi, quel che ciascuno di noi ha dentro non è un romanzo ma un libro di memorie.
Viviamo nell’era della loquacità di massa. Non facciamo che scrivere, o per lo meno parlare: ricordi, apologie, curricula, cris de cœur. Nulla, per ora, può competere con l’esperienza vissuta, cosí insuperabilmente autentica, e tanto generosamente e democraticamente dispensata. Il vissuto è la sola cosa che condividiamo equamente, e questo lo percepisce chiunque. Siamo circondati da casi unici, da specialissime cause, in un’atmosfera di celebrità universale4 . Ma io sono un romanziere, allenato a usare il vissuto con intenti diversi. Perché mai dovrei raccontare la storia della mia vita?
Lo faccio perché adesso mio padre è morto e ho sempre saputo che prima o poi avrei dovuto commemorarlo. Lui era uno scrittore e io sono uno scrittore; sento il dovere di esporre il nostro caso: una curiosità letteraria che è anche un semplice, ulteriore esempio di rapporto tra padre e figlio. Questo mi porterà a concedermi un certo numero di cattive abitudini. Una delle quali, inevitabile, sarà il nominare persone famose. Del resto, in un certo senso, potrei dire di averla praticata sin dalla prima volta in cui dissi: «Papà».
Lo faccio perché porto in me le stesse inquietudini di tutti. Lo faccio per la cronaca (molta della quale è già di dominio pubblico), e perché, per una volta, ho voglia di parlare senza artifici. Anche se non senza attenzione alla forma. Il guaio della vita (secondo il romanziere) è il suo essere amorfa, la sua ridicola provvisorietà. Basta osservarla: intreccio esile, povertà tematica, sentimentalismi, ineluttabili luoghi comuni. Il dialogo è scadente, o per lo meno di una violenta discontinuità. Le svolte si dividono in prevedibili e sensazionalistiche. E poi, sempre lo stesso incipit; e la stessa fine… I miei principî organizzativi derivano da un’urgenza interiore e dalla dipendenza di ogni romanziere a scoprire paralleli, inventare collegamenti. Il metodo, unito all’impiego di note (per dare spazio ai pensieri collaterali), dovrebbe fornire lo scenario della geografia mentale di me scrittore. Se talvolta l’effetto dovesse risultare staccato, marginale, altalenante, eccetera, posso solo dire che cosí è, da questo lato della scrivania.
E poi lo faccio perché ne sono costretto. Ho visto ciò che forse nessuno scrittore dovrebbe mai vedere: il luogo dell’inconscio dal quale provengono tutti i miei romanzi. Non sarei riuscito ad affrontarlo senza aiuti. E non è stato cosí in effetti. L’ho letto sul giornale…
Qualcuno non c’è piú. L’intercessore, il padre, la figura che si erge tra il figlio e la morte non c’è piú; e non sarà mai piú la stessa cosa. Lui è assente. So che è destino comune; tutto ciò che vive deve morire, passando all’eternità attraverso la natura. Mio padre perse il suo, i miei figli perderanno il loro, e i figli dei miei figli (pensiero immensamente oneroso da contemplare) il loro.
Sullo scaffale accanto alla scrivania tengo un piccolo portafoto che contiene due fotografie. Una è in bianco e nero, formato tessera: mostra una studentessa adolescente in maglione scollato a V, camicia e cravatta. Lunghi capelli castani spartiti in mezzo, occhiali, l’accenno di un sorriso. Sopra la testa, una scritta in stampatello maiuscolo: aliena indesiderabile. È Lucy Partington… L’altra foto è a colori: ritrae una bimbetta su fondo scuro, con il vestito a fiori, ricamato sul petto, le maniche a sbuffo e bordature rosa. Ha capelli biondi e fini. E un sorriso schivo: di una pacata contentezza. È Delilah Seale.
Le due fotografie stanno insieme, e da quasi vent’anni i loro soggetti abitano le retrovie dei miei pensieri. Perché queste sono, o sono state, le mie assenze.
Sussex Tutors,
55 Marine Parade,
Brighton, Sussex.
23 ottobre [1967]
Carissimi Papà e Jane1 ,
grazie infinite per la lettera. A quanto pare sgobbiamo tutti come poveri idioti. Mi sembra di passare maniacalmente da una sfacciata sicurezza a una piagnucolosa depressione; con l’Inglese va tutto benissimo, ma il Latino mi è difficile, noioso e faticosamente ingrato. Sarebbe una bella seccatura se dovesse compromettere l’esame d’ingresso a Oxford. Ci passo sopra dalle due alle tre ore al giorno, ma risento di una penosa mancanza di basi, non appartenendo alla categoria dei piccoli bastardi che recitano ‘amo, amas, amat’ da quando avevano diciotto mesi.
In ogni caso, il testo da portare (Secondo Libro dell’Eneide) è eccellente, e se mi ci metterò con abbastanza rigore, forse su quella parte riuscirò a cavarmela.
Il signor Ardagh ha decretato che la strategia migliore per Oxford è scegliersi circa sei autori e saperli piuttosto bene, anziché cazzeggiare un po’ con tutti. Io ho scelto: Shakespeare, Donne e Marvell, Coleridge e Keats; Jane Austen; [Wilfred] Owen; Greene; e forse il vecchio Yeats. L’Inglese mi piace davvero, anche se ci sono momenti in cui sento il disperato bisogno di occuparmi di qualcos’altro. La prospettiva di insegnare ha perso attrattive perché significherebbe occuparmi dello stesso genere di cose per i prossimi quattro anni, senza vere e proprie pause. Spero che non pensiate io abbia abbandonato l’idea della Letteratura Inglese, perché al contrario mi sento avvampare di smania da accumulo di letture. Negli ultimi giorni trascorsi a Londra ho divorato Middlemarch (in tre giorni), Il processo (Kafka era proprio un idiota – in un giorno) e The Heart of the Matter (in un giorno), e persino qui riesco a farmi un paio di romanzi la settimana (piú parecchia poesia). È solo che mi sono un po’ rotto di dedicarmi agli stessi concetti tutto il tempo, ma non credo si tratti di un fenomeno che una solenne paternale – o maternale – non possa correggere. Mi dispiace di essere una seccatura; è probabile che si tratti solo di una fase. Potrebbe perfino trattarsi di un processo di formazione della personalità, chi può...