L'universo, gli dèi, gli uomini
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L'universo, gli dèi, gli uomini

Il racconto del mito

  1. 224 pagine
  2. Italian
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L'universo, gli dèi, gli uomini

Il racconto del mito

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I miti giungono dai Greci fino a noi come un universo di frammenti, personaggi, storie, illuminazioni. Raccontano il tepore e la profondità di Gaia (la Terra), l'urlo tremendo di Urano (il Cielo) che, castrato dal figlio Crono, genera in un unico istante Afrodite e con lei l'amore. Raccontano dei Giganti e degli dèi, di Pandora e dell'invenzione della donna, di Prometeo che ci portò il fuoco, e della bellezza di Elena che scatenò una guerra interminabile. I miti raccontano le astuzie immortali di Ulisse e i suoi amori con Circe e Calipso. Raccontano di Edipo che scioglie gli enigmi ma rimane prigioniero per sempre del proprio tragico destino. Ci dicono che Perseo diventò una costellazione perché, con questa splendente metamorfosi, Zeus volle onorare il coraggio di chi osò sfidare e vincere Medusa. Oggi ci rimangono tracce scritte, allusioni e un infinito numero di varianti. Lo sanno bene gli interpreti piú autorevoli del mito, come Jean-Pierre Vernant, uno dei pochi a potersi permettere il rischio di annodare quei frammenti in un racconto ininterrotto, con il semplice gesto di vicinanza che, quello sí, si ripete identico da sempre, fra chi racconta una storia e chi - bambino o adulto - si ferma ad ascoltarla.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858412732

Ulisse o l’avventura umana

I Greci hanno vinto. Dopo lunghi anni di assedio e di combattimenti incessanti ai piedi delle mura, Troia è infine caduta. I Greci non si sono accontentati di vincerla e di assoggettarla, l’hanno saccheggiata, incendiata grazie a un’astuzia, il famoso cavallo di legno che i Troiani hanno introdotto in città, credendo che fosse un’offerta votiva per gli dèi. Un’avanguardia nemica è uscita di notte dalla pancia del cavallo, ha aperto di nascosto le porte di Troia e ha permesso all’armata greca di introdursi all’interno delle mura, mettendo la città a ferro e fuoco e sterminando chiunque trovasse sul proprio cammino. Gli uomini sono stati uccisi, le donne e i bambini ridotti schiavi, tutt’intorno non restano che rovine fumanti. I Greci pensano che la questione sia definitivamente conclusa, ma è proprio allora che si manifesta l’altro versante di un’impresa guerresca tanto imponente. È infatti necessario che, in un modo o nell’altro, i vincitori paghino i crimini, gli eccessi, la hybris di cui si sono macchiati, addirittura nei momenti stessi della vittoria. Immediata scoppia una disputa fra Agamennone e Menelao. Mentre quest’ultimo spera di partire, di far subito ritorno in patria, il fratello, invece, vuole trattenersi sul posto per fare sacrifici ad Atena che, appoggiando la causa greca al cospetto divino, ha determinato la loro vittoria. Ulisse con le sue dodici navi, decide di far rotta, senza attendere oltre, in direzione di Itaca. Sulla stessa imbarcazione si trovano lui, Menelao e il vecchio Nestore. Ma presso l’isola di Tenedo, Ulisse ha un diverbio con Menelao e fa ritorno a Troia per unirsi ad Agamennone. I due partono dunque di conserva sperando di guadagnare contemporaneamente la Grecia continentale. Ma gli dèi hanno deciso altrimenti. I venti si scatenano, scoppiano violenti temporali, imperversa una tempesta impetuosa. La flotta è dispersa; molte navi affondano, trascinando con sé, nel naufragio, anche i propri equipaggi di guerrieri e marinai. Pochi superstiti, fra i Greci, hanno la fortuna di tornare a casa, e fra quelli risparmiati dal mare, alcuni troveranno poi la morte sulla soglia della propria dimora. Questa è ad esempio la sorte che attende Agamennone. Non appena l’eroe mette piede sul suolo patrio, cade vittima della trappola tesagli dall’infedele sposa Clitennestra e dal suo amante Egisto. Privo di sospetti, Agamennone fa ritorno felice alla propria casa, come un bue alla sua stalla. Sarà colpito senza pietà e abbattuto dai due complici.
La tempesta getta lo scompiglio fra le navi di Agamennone, che formano il grosso dell’intera flotta, e quelle di Ulisse. Cosí Ulisse si trova isolato in mezzo al mare con la sua flottiglia e sopporta le medesime prove e affronta le stesse tempeste dei suoi compagni di sventura. Quando infine sbarca in Tracia nel paese dei Ciconi, l’accoglienza che riceve è ostile. Conquista allora Ismaro, la loro città, comportandosi nei confronti dei vinti come erano soliti fare molti eroi greci: uccide la maggior parte degli abitanti, ma ne risparmia uno, Marone, sacerdote di Apollo. In segno di riconoscenza Marone offre ad Ulisse numerosi orci di un vino speciale, una sorta di nettare divino che l’eroe fa stivare sulle sue navi. I Greci, nuovamente sereni, montano il loro accampamento notturno lungo le rive del fiume, in attesa di ripartire al levar del giorno. Ma i Ciconi dell’interno, avvertiti dell’arrivo dei nemici, li attaccano di buon mattino e ne uccidono un gran numero. I sopravvissuti si imbarcano in fretta e furia e fuggono il piú rapidamente possibile sulle navi messe di gran carriera in mare.
Verso il paese dell’oblio.
Eccoli di nuovo in viaggio; la flotta ha subito forti perdite. Veleggiando verso sud, un po’ piú lontano, Ulisse arriva vicino al Capo Maleo, poi lo doppia. Le coste della sua Itaca sono ormai in vista. Ulisse si sente restituito alla propria patria. Nell’istante in cui gli sembra che il cammino sia giunto alla fine, il sipario si alza su un nuovo atto del suo periplo: fino a qui aveva semplicemente compiuto un viaggio di ritorno dopo una spedizione di guerra al di là dei mari. Ma quando i Greci doppiano il Capo Maleo, una tempesta improvvisa si abbatte su di loro. Soffierà per sette lunghi giorni trasportando la flotta in uno spazio ben diverso da quello in cui navigava in precedenza. D’ora in avanti, Ulisse non saprà piú dove si trova, non incontrerà piú popolazioni come i Ciconi, combattenti ostili ma comunque simili a lui. L’eroe esce in qualche modo dalle frontiere del mondo conosciuto, della oikoumene umana, per essere trasportato in uno spazio di non-umanità, un mondo dell’altrove.
A partire da questo momento, Ulisse incontrerà soltanto esseri che sono di natura quasi divina, e si nutrono di nettare e ambrosia, come Circe e Calipso, oppure esseri subumani, mostri antropofagi come i Ciclopi o i Lestrigoni che divorano carne umana. Per i Greci la specificità dell’uomo, ciò che lo definisce tale, è il fatto che mangia il pane e beve il vino, che ha un nutrimento prestabilito, che riconosce e rispetta le leggi dell’ospitalità, che accoglie lo straniero, invece di divorarlo. L’universo in cui Ulisse e i suoi marinai si trovano proiettati dalla tempesta è esattamente il contrario di questo mondo umano normale. Non appena la tempesta si quieta, i Greci guadagnano la riva, approdano su una terra di cui non sanno assolutamente niente. Per capire un po’ chi la abita e per trovare delle provviste, Ulisse decide di mandare delle staffette in avanscoperta cosí da prendere i primi contatti con gli abitanti del paese. I Greci vengono accolti con gentilezza estrema. Gli indigeni sono affabili e amichevoli e propongono subito ai marinai stranieri di dividere con loro il cibo di cui si nutrono abitualmente. Ebbene, gli abitanti di questo paese sono i Lotofagi, i mangiatori di loto. Come gli uomini si nutrono di pane e vino, loro mangiano una pianta squisita, il loto. Se un umano assaggia questo nutrimento delizioso, per lui è l’oblio. Non ricorda piú il proprio passato, dimentica immediatamente chi è, da dove viene, dove va. Colui che assimila il loto smette di vivere come un essere umano che porta in sé il ricordo del passato e la coscienza della propria identità.
Le staffette di Ulisse, quando ritrovano i propri compagni, si rifiutano di riprendere il mare, incapaci di dire quello che è capitato loro. Appaiono come anestetizzati in una sorta di beatitudine che paralizza ogni ricordo. Sognano soltanto di restare là dove sono, cosí come sono, senza piú legami, senza piú passato, senza alcun progetto: senza desiderio di ritorno. Ulisse li costringe con la forza a imbarcarsi sulle navi e prende velocemente il mare. Prima tappa, dunque: una terra che è il paese dell’oblio.
Nel corso del lungo periplo che seguirà, in ogni momento, sullo sfondo di tutte le avventure di Ulisse e dei suoi compagni, l’oblio, la cancellazione del ricordo della patria e del desiderio di farvi ritorno, rappresenta sempre il pericolo e il male. Essere nel mondo umano significa vivere alla luce del sole, vedere gli altri ed essere visto da loro, vivere in reciprocità, ricordarsi di sé e degli altri. Là, invece, Ulisse e il suo equipaggio entrano in un mondo su cui le potenze notturne, i figli della Notte, come li chiama Esiodo, stendono a poco a poco la loro ombra sinistra. Una nube di oscurità sta continuamente sospesa al di sopra dei naviganti, minaccia di farli smarrire se solo si lasciano andare all’oblio del ritorno.
Ulisse impersona Nessuno di fronte al Ciclope.
Abbandonata l’isola dei Lotofagi, la nave di Ulisse scivola via sulle acque e di colpo la piccola flotta si trova avvolta in una sorta di nebbia dove non si riesce a distinguere piú niente. È ormai sera, l’imbarcazione avanza senza che i marinai debbano remare e senza che possano avvistare ciò che li minaccia. Infatti finiscono per incagliarsi su un isolotto che non avevano scorto e del quale non distinguono neppure molto. È stato il mare stesso, o gli dèi, a spingerli verso quest’isola invisibile su cui approdano nella piú completa oscurità. Perfino la luna non si mostra in cielo, e tutto intorno è il buio piú nero. Ulisse e i suoi uomini sono là, su quel lembo di terra, senza aver potuto prevedere niente di quello che accade loro. Quasi che, dopo l’isola dell’oblio, la porta della notte, si socchiudesse davanti ai loro occhi. Un passaggio verso nuove avventure. Scendono a terra, scorgono un’altura, è il promontorio dove vivono quei giganti mostruosi che hanno un solo occhio in mezzo alla fronte, i Ciclopi.
Ulisse mette al riparo la propria imbarcazione in una piccola baia e, con dodici uomini, sale fin sulla cima della collina, dove ha localizzato una caverna in cui spera di trovare di che approvigionarsi. La grotta è scura e profonda, gli uomini entrano, dinanzi ai loro occhi si spalanca un vero e proprio spettacolo bucolico. Non ci sono cereali, ma ci sono greggi, formaggi, forse anche una piccola vigna selvatica verso il basso. Naturalmente, i compagni di Ulisse hanno in testa un’idea soltanto: razziare qualche formaggio e ridiscendere il piú velocemente possibile lontano da quell’enorme caverna che non dice loro niente di buono. Lo esortano: – Su, andiamo! – Ma lui rifiuta. Ulisse vuole restare perché vuole vedere. Vuole conoscere l’abitante di quello strano luogo. Ulisse non è soltanto l’uomo che deve ricordarsi, ma colui che vuole vedere, conoscere, sperimentare tutto ciò che può offrirgli il mondo, anche questo mondo subumano in cui si trova gettato. La curiosità che lo spinge sempre oltre questa volta rischia di essere causa della sua rovina e provocherà, in ogni caso, la morte di molti dei suoi compagni. Il Ciclope, infatti, sopraggiunge ben presto con le sue capre, le sue pecore, il suo ariete preferito, e tutti insieme entrano nella grotta.
Il Ciclope è un essere enorme, veramente gigantesco. Da principio non si accorge di quei minuscoli omini, per lui tali e quali a pulci, che tremano di paura nascosti negli angoli della caverna. All’improvviso, li scopre e si rivolge a Ulisse, che si trova leggermente davanti agli altri, chiedendogli:
– Ma tu, chi sei?
Ulisse, naturalmente gli racconta delle storie. Gli dice, prima bugia:
– Non ho piú una nave, – mentre la sua lo attende nella baia, – la mia imbarcazione è andata in pezzi, sono completamente in tua balia, vengo insieme ai miei uomini a implorarti ospitalità, siamo Greci, abbiamo combattuto valorosamente sulle rive di Troia insieme ad Agamennone, abbiamo conquistato la città e ora eccoci qui naufraghi sfortunati.
Il Ciclope risponde:
– Sí, sí, molto bene, bravi, ma io me ne frego di tutte queste storie.
Subito afferra per i piedi due compagni di Ulisse, li sbatte contro la parete rocciosa, rompe la loro testa e li divora nudi e crudi. Mentre gli altri marinai restano impietriti per il terrore, Ulisse si domanda in quale situazione si è mai cacciato. Del resto non ha alcuna speranza di uscire dalla grotta, perché il Ciclope, per la notte, ne ha chiuso l’entrata con un masso enorme che nessun Greco, neppure un’intera squadra, riuscirebbe mai a muovere. Il mattino dopo si ripete la stessa scena, il Ciclope sbrana altri quattro uomini, due la mattina, poi ancora due la sera. Ne ha già mangiati sei, ciò vuol dire la metà dell’intero gruppo. Il Ciclope è felicissimo. Quando Ulisse tenta di blandirlo con parole di miele, si instaura fra loro una certa forma di ospitalità. Ulisse gli dice:
– Ti farò un regalo che, credo, ti riempirà di gioia.
Nasce allora un dialogo che sboccia in una relazione personale, in un rapporto di ospitalità.
Il Ciclope si presenta, si chiama Polifemo. Come dice il suo nome, è un uomo di molte parole e di grande fama. Chiede a Ulisse il suo nome. Per stabilire un rapporto di ospitalità l’usanza vuole che ciascuno dica all’altro chi è, da dove viene, chi sono i suoi genitori e qual è la sua patria. Ulisse dichiara di chiamarsi Outis, cioè Nessuno.
Gli dice:
– Il nome che mi danno amici e parenti è Outis.
Si tratta anche di un gioco di parole perché le due sillabe di ou-tis possono essere rimpiazzate in altro modo, me-tis. Ou e me sono infatti in greco le due forme della negazione, ma se outis significa nessuno, metis designa l’astuzia. Ben inteso, quando si parla di metis, si pensa innanzitutto a Ulisse che è per l’appunto l’eroe della metis, dell’astuzia, della capacità di trovare soluzioni all’inestricabile, di mentire, di raggirare le persone, di raccontare loro sciocchezze e di sapersela cavare sempre al meglio.
Outis, Nessuno, – esclama il Ciclope, – poiché tu sei Nessuno, ti farò anch’io un regalo. Ti mangerò per ultimo.
A questo punto, Ulisse gli dà il suo dono, si tratta di una parte del vino che gli aveva regalato Marone, una bevanda che è un nettare divino. Il Ciclope ne beve, lo trova meraviglioso, se ne inebria. Rimpinzato di formaggio, delle carni dei due marinai appena divorati, e ubriacato dal vino, Polifemo si addormenta.
Ulisse ha il tempo di far arroventare sul fuoco un enorme palo di ulivo che taglia appuntendolo con cura. Ciascuno dei marinai supestiti partecipa prima al lavoro di falegnameria, poi alla manovra che consiste nel conficcare il palo incandescente nell’occhio del Ciclope. Il gigante si risveglia urlando. Il suo unico occhio è accecato. Anche lui è consegnato alla notte, all’oscurità. Allora, naturalmente, chiama aiuto, e i Ciclopi dei dintorni accorrono. I Ciclopi vivono ognuno per conto suo, ognuno è padrone in casa propria, non riconoscono né dèi né altri signori al di fuori di se stessi, ma accorrono comunque alle grida di Polifemo. E poiché la grotta è chiusa, urlano: – Polifemo, Polifemo che cos’hai? – Ah, è orribile, mi uccidono! – Ma chi, ti ha fatto del male? – Nessuno, Outis! – Ma se nessuno, metis, ti ha fatto del male, perché ci rompi i timpani in questo modo? – E se ne vanno.
Ulisse si è nascosto, è scomparso, si è annullato dietro al nome che si è scelto, ed è in un certo senso salvo. Ma non del tutto, perché deve ancora uscire dall’antro bloccato da una roccia enorme. Per uscire dalla caverna, escogita l’espediente di legare con delle verghe di vimini ognuno dei sei uomini superstiti sotto il ventre delle pecore. Lui stesso si aggrappa alla lana spessa e morbida dell’ariete preferito di Polifemo. Nel momento in cui Polifemo, dopo aver spostato la pietra che bloccava l’entrata dell’antro, si mette davanti all’apertura per far uscire il suo gregge, fa passare ciascun animale fra le sue gambe. E cosí facendo tasta loro il dorso per essere sicuro che nessun greco se ne sia approfittato per salirvi sopra. Ma non si accorge che i Greci sono nascosti al di sotto. Quando esce l’ariete con Ulisse, il Ciclope si rivolge all’animale, che è poi il suo unico interlocutore, per dirgli:
– Guarda in che stato mi ha ridotto quel malvagio di Nessuno, gliela farò pagare!
L’ariete avanza verso l’uscita, e Ulisse è fuori nel medesimo istante.
Il Ciclope rimette a posto la pietra, credendo che i Greci siano ancora dentro l’antro, mentre invece sono già slegati e in piedi all’esterno della grotta: scendono di gran carriera gli stretti e tortuosi sentieri rocciosi fino alla baia dove è nascosta la loro imbarcazione. Saltano sopra la nave, levano velocemente gli ormeggi e si allontanano a tutta velocità dalla costa. Scorgono in alto, ben saldo sulla punta della roccia vicino alla sua grotta, il Ciclope Polifemo che scaglia contro di loro, alla cieca, massi enormi. In quel momento, Ulisse non riesce a resistere, cede al gusto della millanteria e alla lusinga della vanità. Grida al gigante:
– Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiedesse chi ha accecato il tuo occhio, rispondi pure che lo ha fatto il distruttore di rocche Ulisse, il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa, il vincitore di Troia, Ulisse dai mille inganni.
Naturalmente, «chi di spada ferisce, di spada perisce». Il Ciclope è infatti figlio di Poseidone, il dio di tutto ciò che è liquido, ma anche di tutto quanto è sotterraneo. Terremoti come tempeste, è sempre Poseidone a scatenarli. Il Ciclope formula contro Ulisse una maledizione solenne, che non sarebbe valida se non venisse pronunciato il nome di colui che la subisce. Se avesse infatti detto «Nessuno», forse la maledizione non avrebbe sortito effetti, ma il Ciclope svela il nome di Ulisse al padre Poseidone e gli domanda vendetta: che Ulisse non possa tornare a Itaca prima di aver patito mille sofferenze, senza che i suoi compagni non siano prima tutti morti, che la sua nave non sia affondata lasciandolo solo, perduto e naufrago. Se mai Ulisse dovesse comunque cavarsela, che ritorni però in patria come uno straniero, su nave straniera, e non come il navigante atteso che fa ritorno a casa sulla propria imbarcazione.
Poseidone ode la maledizione del figlio, e la raccoglie. A partire da questo episodio ha origine la sua volontà, che domina tutte le avventure seguenti di Ulisse: possa costui essere spinto fino al limite estremo delle tenebre e della morte e che le prove che dovrà sostenere siano le piú terribili possibile. Come spiegherà piú tardi Atena, la massima protettrice di Ulisse, è perché Poseidone non può accettare il male che è stato fatto a suo figlio che lei non è potuta intervenire e che non compare se non alla fine, al termine del suo lungo errare, quando ormai Ulisse è quasi giunto a destinazione. Perché? Perché aver fatto calare le tenebre sull’occhio di Polifemo, l’averlo cacciato nella notte, accecato, comporta che Ulisse, a sua volta, trovi sulla sua strada il notturno, l’oscuro e il sinistro.
Idillio con Circe.
La nave abbandona la terra di Polifemo e raggiunge l’isola di Eolo. Uno di quei luoghi incontrati da Ulisse nel suo viaggio che molti hanno cercato, senza successo, di localizzare. Ma la particolarità di tali luoghi è proprio quella di non essere l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'universo, gli dèi, gli uomini
  3. Premessa
  4. L’origine dell’universo
  5. Guerra degli dèi, sovranità di Zeus
  6. Il mondo degli umani
  7. La guerra di Troia
  8. Ulisse o l’avventura umana
  9. Dioniso a Tebe
  10. Edipo fuori luogo
  11. Perseo, la morte, l’immagine
  12. Dèi uomini luoghi
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright