Due anni prima di morire mio padre mi affidò una valigetta piena di suoi scritti, manoscritti e taccuini. Con la sua solita espressione ironica e scherzosa mi chiese di leggerli dopo che se n’era andato; e intendeva dire dopo la sua morte.
«Dài un’occhiata, – disse con leggero imbarazzo. – Guarda se c’è dentro qualcosa di buono. Forse, dopo che me ne sarò andato, potrai fare una selezione e pubblicare il materiale».
Eravamo nel mio studio, circondati dai libri. Mio padre cercava un posto dove posare la valigetta andando avanti e indietro come se avesse voluto liberarsi di un penoso e singolare fardello. Alla fine la lasciò con noncuranza in un angolo dove non avrebbe attirato l’attenzione. Una volta passato questo momento un po’ imbarazzante ma indimenticabile, riprendemmo con fare spensierato i nostri soliti ruoli, le nostre personalità ironiche e rilassate. Parlammo come sempre facevamo del piú e del meno, della vita, degli infiniti problemi politici della Turchia e delle avventure imprenditoriali di mio padre, per lo piú fallimentari, discorrendone senza troppo rammarico.
Ricordo che, andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la portava sempre con sé nei viaggi brevi e talvolta la usava per i documenti di lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo al suo interno, deliziato dal profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era un oggetto familiare e affascinante che richiamava ricordi del passato e della mia infanzia, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio per il peso misterioso del suo contenuto segreto.
Parlerò ora del senso di questo peso. È il senso del lavoro di un uomo che si chiude in una stanza e che, seduto a un tavolo, ritirato in un angolo, si esprime per mezzo di carta e penna – vale a dire il senso della letteratura.
Nel momento in cui toccai la valigia di mio padre pur senza riuscire ad aprirla, conoscevo alcuni di quei taccuini. Avevo visto mio padre impegnato a scrivere su alcuni di essi. Non era la prima volta che avevo sentito parlare del contenuto della valigetta. Mio padre aveva una grande biblioteca. Da giovane, alla fine degli anni Quaranta, aspirava a diventare poeta, a Istanbul, e aveva tradotto Valéry in turco, ma non aveva voluto affrontare il tipo di vita riservato a chi scriveva poesie in un paese povero con pochi lettori. Il padre di mio padre, mio nonno, era stato un ricco uomo d’affari; mio padre aveva vissuto una vita agiata da bambino e da ragazzo e non aveva intenzione di cadere in ristrettezze in nome della letteratura, della scrittura. Amava la vita con tutte le sue piacevolezze e lo capivo.
Il primo dubbio che mi tenne lontano dal contenuto della valigetta di mio padre era, ovviamente, il timore di non gradire ciò che avrei letto. Mio padre lo sapeva e per questo aveva finto di non prendere troppo sul serio il contenuto della borsa. Ne fui addolorato, dopo venticinque anni passati a scrivere, ma non volevo neppure irritarmi con lui perché non prendeva la letteratura abbastanza sul serio... Il mio vero timore, la cosa essenziale che non volevo sapere o scoprire era la possibilità che mio padre fosse un bravo scrittore. Non riuscivo ad aprire la valigetta di mio padre perché temevo proprio questo. Peggio ancora, non riuscivo neppure a confessarlo a me stesso. Se dalla valigetta di mio padre fosse emersa della vera, grande letteratura, avrei dovuto ammettere che mio padre nascondeva un uomo del tutto diverso. Era una prospettiva terribile. Perché anche alla mia non piú tenera età avrei voluto che lui fosse soltanto mio padre, non uno scrittore.
Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca dell’essere distinto che porta dentro di sé e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrittura, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o la tradizione letteraria, ma è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e si ripiega in se stessa e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Quest’uomo (o questa donna) può usare la macchina per scrivere, può approfittare dell’aiuto di un computer, oppure può scrivere come me, per trent’anni, con una penna stilografica e mentre scrive può bere caffè, tè e fumare sigarette. Qualche volta può alzarsi dal tavolo e può guardare fuori, i bambini che giocano per la strada, gli alberi o un panorama, se è fortunato, oppure un muro cieco. Può scrivere poesie, drammi oppure romanzi come me. Tutte queste differenze passano in secondo piano, dopo il vero lavoro, che è quello di sedersi al tavolo e di chiudersi pazientemente in se stessi. Scrivere è trasmettere questo sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente con pazienza, ostinazione e gioia. Quando passo giorni, mesi, anni scrivendo lentamente le mie parole su un foglio bianco, seduto al tavolo, sento di costruire un nuovo mondo, una nuova persona dentro di me, proprio come coloro che costruiscono un ponte o una cupola pietra su pietra. Le pietre di noi scrittori sono le parole. Le tocchiamo, sentiamo il rapporto che hanno tra di loro, qualche volta le guardiamo da lontano, qualche volta le accarezziamo con le dita o con la punta della penna, le pesiamo, le sistemiamo e cosí per anni, con determinazione, pazienza e speranza costruiamo nuovi mondi.
Secondo me il segreto dello scrittore non sta nell’ispirazione, che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza. «Scavare un pozzo con un ago» è un bel modo di dire turco che descrive il lavoro dello scrittore. Nelle antiche favole, mi piace e comprendo la pazienza di Ferhat che si scavò una strada attraverso le montagne per amore. Raccontando nel mio romanzo Il mio nome è rosso la storia dei vecchi miniaturisti persiani che disegnando ogni giorno lo stesso cavallo finiscono per memorizzarlo al punto di poterlo rifare a occhi chiusi, parlavo in realtà del mestiere di scrivere, della mia vita. Penso che lo scrittore, seduto a un tavolo, debba pazientemente dedicare molti anni della sua esistenza a questo mestiere, a quest’arte e trarne sufficiente fiducia per poter raccontare la propria vita come se fosse la vita di un altro e sentire dentro di sé la forza del racconto. La musa, che ispira alcuni scrittori e ne evita altri, ama questa sicurezza e questa fiducia: nel momento in cui lo scrittore si sente terribilmente solo e inizia a nutrire dubbi sul suo lavoro, sul valore della sua immaginazione e dei suoi scritti – in altre parole quando pensa che la storia che sta scrivendo resterà una storia soltanto sua – la musa offre quelle fantasie, quelle immagini e quei racconti che evocheranno il mondo che lo scrittore vuole costruire. Se ripenso ai libri a cui ho dedicato tutta la mia vita provo un sentimento sconvolgente: mi sembra di non aver scritto con le mie mani le frasi, i sogni, le pagine che mi hanno dato una grande felicità, ma di averlo fatto grazie a una forza generosa e sconosciuta.
Avevo paura di aprire la valigetta di mio padre e leggere i suoi taccuini perché sapevo che lui non avrebbe tollerato le difficoltà che avevo sopportato io, che non era la solitudine che lui amava, bensí mescolarsi agli amici, la folla, i salotti, gli scherzi, la compagnia. Ma poi presi a riflettere in modo diverso: queste idee, questi sogni di sofferenza e pazienza, potevano essere pregiudizi che avevo tratto dalla mia vita e dalla mia personale esperienza di scrittore. C’erano moltissimi scrittori geniali che conducevano una vivace, brillante vita sociale e familiare fatta di compagnia e allegre conversazioni. Inoltre mio padre quando eravamo piccoli, stanco della monotonia della vita familiare, ci aveva lasciato per andarsene a Parigi, dove, come tanti autori, si era chiuso in una stanza d’albergo a riempire i suoi taccuini. Sapevo anche che alcuni di quei taccuini si trovavano nella valigetta perché qualche anno prima di portarmela aveva finalmente iniziato a parlarmi di quel periodo della sua vita. Raccontava di quegli anni anche quando ero bambino, ma senza far cenno alle sue debolezze, ai sogni di diventare poeta-scrittore o alle crisi di identità che lo avevano afflitto nelle stanze d’albergo. Mi parlava invece di come vedesse spesso Sartre per i marciapiedi di Parigi, dei libri letti, dei film visti, con il...