Costituzione incompiuta
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Costituzione incompiuta

Arte, paesaggio, ambiente

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Costituzione incompiuta

Arte, paesaggio, ambiente

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Nel 1948 la Repubblica ha risposto all'invocazione lanciata quattro secoli prima da Raffaello: la Costituzione ha spaccato in due la storia dell'arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell'arte è in gran parte la storia dell'autorappresentazione delle classi dominanti. Ma la Costituzione le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell'eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. L'articolo 9 ha fatto di più: ha sancito solennemente l'unione indissolubile del patrimonio storico e artistico e del paesaggio, e ha trasformato in progetto il ruolo etico e politico che questa unione ha giocato nella storia d'Italia. Le interpretazioni della Corte costituzionale hanno ampliato ancora questa visione originalissima, prendendo coscienza che il primo e più essenziale bene comune è l'ambiente, la cui tutela in nome dell'interesse pubblico è condizione essenziale per la stessa esistenza di una democrazia moderna. Il progetto della Costituzione sull'ambiente, sul paesaggio e sul patrimonio artistico è la promessa di una rivoluzione: sta a noi mantenerla.

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Informazioni

PAOLO MADDALENA

Ambiente, bene comune

1. Uno sguardo sull’attuale situazione ambientale.
Per anni si è ritenuto che il problema della tutela dell’ambiente si potesse risolvere nella prospettiva di un equilibrio tra le esigenze dell’economia e la capacità rigenerativa della natura, individuando nella «compatibilità ambientale» il limite ultimo di alterabilità dei beni ambientali da parte delle attività aventi finalità economiche. È stata una pura illusione.
Istituti come la valutazione d’impatto ambientale e la valutazione ambientale strategica, entrambi fondati sulla valutazione preventiva dei danni ambientali in rapporto ai benefici economici prodotti dall’esecuzione, rispettivamente, di «opere» o «piani», pur essendo assolutamente indispensabili, non sono riusciti a porre un freno alla speculazione e all’abusivismo edilizi.
Quello che sarà, a breve, il destino del nostro pianeta è plasticamente e metaforicamente illustrato da Jared Diamond nel ricostruire la fine dell’isola di Pasqua, che fu scoperta dall’olandese Jakob Roggeveen il 5 aprile 1722, giorno di Pasqua1.
Agli occhi dello scopritore apparve uno spettacolo desolante: l’isola era completamente priva di vegetazione e abitata da appena centoundici uomini malnutriti e degradati; gli animali erano quasi completamente scomparsi, tranne pochi esemplari di uccelli marini, e l’unica specie che ostinatamente sopravviveva era quella dei topi. In compenso, lungo il cratere di un vulcano si notavano, adagiate per terra, 397 statue gigantesche, raffiguranti in modo stilizzato un torso umano maschile senza gambe e dalle lunghe orecchie. Le statue misuravano dai 4,5 ai 6 metri di altezza, mentre la piú alta raggiungeva i 21 metri, e pesavano dalle 10 alle 270 tonnellate. Lungo le tre strade che dal mare conducevano al vulcano si trovavano altre 97 statue, mentre sulla costa erano visibili circa 300 piattaforme di pietra, che un tempo sorreggevano altre 393 statue. Tutt’oggi le statue, che intanto sono state poste in posizione eretta, incutono nello spettatore una strana e sinistra emozione. Cos’era successo? L’isola di Pasqua era stata molto rigogliosa e abitata da dodici clan di polinesiani, sbarcati, a quanto pare, nel 900 d.C. Sennonché, tra il 1200 e il 1500 d.C., essi cominciarono a gareggiare tra loro nel costruire le statue piú grandi e piú pesanti. Per trasportare queste statue dal cratere del vulcano fino alla costa, gli abitanti dell’isola ricorsero al sistema di costruire due binari paralleli in legno, lungo i quali facevano scorrere le statue trattenendole con funi e utilizzando in quest’operazione anche slitte e leve di legno. Tutto era costruito con alberi di alto fusto, mentre le funi erano ricavate dalla corteccia fibrosa degli stessi alberi2.
Anno dopo anno, l’intera foresta fu abbattuta e allora gli abitanti dell’isola pensarono di scappare, ma non c’era piú legno per costruire le canoe. Il cibo venne meno e, come spesso avviene in questi casi, i superstiti ricorsero all’antropofagia.
L’esempio dell’isola di Pasqua è molto significativo per la situazione odierna:
Oggi lo sfruttamento della foresta tropicale pluviale è in gran parte opera delle multinazionali del legname, che di solito prendono in affitto la terra di un dato Paese per pochi anni, la sfruttano all’estremo abbattendo tutti gli alberi e poi se ne vanno alla ricerca di nuove foreste in nuovi Paesi. Le aziende hanno capito che, una volta pagato il loro canone di affitto, hanno tutto l’interesse a tagliare il piú velocemente possibile tutti gli alberi, senza rispettare alcuna promessa di rimboschimento, per poi andarsene. In questo modo le multinazionali hanno distrutto gran parte delle foreste della Malacca, del Borneo, delle isole Salomone e di Sumatra; ora tocca alle Filippine, e, ben presto, alla Nuova Guinea, all’Amazzonia e al bacino del Congo. Ciò che conviene a chi commercia legname, dunque, non conviene alle popolazioni locali, che perdono una preziosa risorsa e risentono delle conseguenze dell’erosione e dell’accumulo di sedimenti nei fiumi. È anche dannoso per l’intero Paese, che, dando in affitto la terra alle aziende, perde parte della sua biodiversità e della possibilità di sfruttare le sue foreste in modo sostenibile3.
Quanto si è detto per la deforestazione, va esteso ad altre mille forme di devastazione ambientale. Per quanto concerne la crisi ambientale italiana, la forma d’inquinamento piú appariscente e devastante è data dalla cementificazione del territorio, la quale distrugge piú beni ambientali e soprattutto il «paesaggio», aspetto visivo dell’ambiente e patrimonio identitario della nazione. Salvatore Settis ricorda che
secondo dati Istat tra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 663 000 ettari, un’area piú vasta della somma di Lazio e Abruzzo: abbiamo cosí convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17,06% del nostro suolo agricolo […] In ogni caso, la contrazione dei terreni agrari e boschivi misurata dall’Istat ha pesanti conseguenze negative, non solo perché accresce (anche per abbandono) la superficie improduttiva del territorio nazionale, ma anche perché spesso favorisce il dissesto idrogeologico, e intanto crea una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni4.
Né è esente da questa insensata furia distruttrice il grande patrimonio costituito dai beni artistici e storici del nostro Paese:
molti hanno capito che l’amore per la storia dell’arte può essere un ottimo affare […] è scattata una vera e propria corsa all’abuso, all’asservimento, allo sfruttamento intensivo della storia dell’arte. Naturalmente, la mistificazione commerciale della cultura è un fenomeno assai largo e complesso, e non riguarda certo la sola storia dell’arte. Ma la facilità e l’attualità del linguaggio delle immagini seducono un pubblico vastissimo, convinto di poter accedere alla piú alta cultura senza alcuno sforzo. Il presupposto fondamentale è che la storia dell’arte non deve educare, ma divertire. E cosí, mentre la grande parte del patrimonio artistico nazionale è abbandonata a se stessa, un marketing implacabile costruisce continuamente eventi mediatici intorno a pochi oggetti-simbolo capaci di assicurare consenso ai politici locali e nazionali, ritorno di immagine agli sponsor, pubblicità ai giornali ed evasione culturale al grande pubblico5.
Insomma, sullo sfondo di un apocalittico disastro planetario, assistiamo, nel nostro Paese, alla distruzione dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio artistico e storico.
2. L’influenza negativa sull’ambiente e sulla vita degli uomini e dei popoli dell’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi speculatori finanziari.
C’è da chiedersi, a questo punto, qual è la causa di questo assurdo stato di cose, che anche agli occhi del piú sprovveduto degli osservatori appare disastroso per la vita dell’uomo e del pianeta Terra. Nel 1998 Edward N. Luttwak scrisse di «credere senza restrizioni alle virtú del capitalismo, ma di credere altresí alla necessità di imporre dei limiti al suo funzionamento»6. Egli proseguiva cosí:
il capitalismo pone in essere, in modo abituale, dei metodi altamente condannabili. I licenziamenti di massa hanno superato la gestione ragionevole dei salari, il cui costo è diventato appena piú caro e talvolta anche minore, semplicemente perché il corso delle azioni si innalza con l’annuncio di ogni piano, e anche se l’effetto è effimero, i dirigenti dell’impresa si arricchiscono al momento. Per le stesse ragioni, un’unità produttiva che fa vivere una città intera sarà bloccata senza che sia intrapreso alcun tentativo per migliorare la sua produttività. I profitti rapidi sono preferiti ai benefici a lungo termine, la gestione dell’impresa, tormentata dalla corsa ai buoni affari, preparerà in permanenza la sua riconversione nel prossimo settore portante. Nello stesso tempo le imprese passano di mano a un ritmo accelerato. Questi processi capovolgono la vita degli individui, delle famiglie, di città o di regioni intere. E sempre per il peggio. Basta guardare le statistiche per capire quanti operai perdono piú del loro posto: essi vedono le loro esperienze di vita ridotte a dei sentimenti di inutilità e di umiliazione, vedono svanire il loro matrimonio; le loro case ipotecate […] Anche all’apice di processi di espansione certe città non si risollevano dai danni economici che hanno subito, dei quartieri interi restano delle zone fantasma. Il meglio remunerato degli impieghi precari non offre alcuna garanzia di stabilità, permette talvolta di soddisfare dei bisogni immediati, ma non aiuta mai a costruire un’esistenza7.
Al momento in cui Luttwak scriveva, non era ancora neppure prevista l’attuale gravissima crisi finanziaria ed economica, poiché il fenomeno della speculazione dell’alta finanza non si era ancora manifestato in tutta la sua gravità. Oggi la situazione si è incredibilmente aggravata, poiché gli speculatori, prevalentemente attraverso gli strumenti delle cartolarizzazioni e dei derivati, trasformano i debiti, anche se non adeguatamente garantiti, in titoli di credito soggetti alle valutazioni di borsa, vendendoli, poi, secondo arbitrarie e concordate valutazioni, non appena abbiano raggiunto un determinato valore. In tal maniera, dopo aver creato, attraverso la trasformazione dei debiti in titoli di credito, danaro dal danaro, raschiano la ricchezza esistente, provocando forti restrizioni della liquidità bancaria e ponendo le premesse di sicuri fallimenti. È stata creata cosí un’economia finanziarizzata, detta «debit economy»8, nella quale le risorse finanziarie non vengono piú investite per produrre beni, ma per raschiare la ricchezza esistente. In sostanza, da quando si è dato il via libera al mercato senza regole (e non si è piú distinto fra banche ordinarie e banche d’azzardo, come osserva Giulio Tremonti)9, una potentissima oligarchia di operatori economici ha cessato di svolgere la propria naturale funzione, quella cioè di aiutare con l’apporto di capitale quelle imprese che dànno garanzie di successo per la serietà dei loro programmi produttivi. È stato agevole per spregiudicati operatori economici di tal fatta (si calcola che per la nota speculazione sul grano del 2008 siano morti 44 milioni di africani) accumulare in poco tempo, con il favore di governi compiacenti, una ricchezza, che sarebbe pari a quattro volte quella di tutti gli Stati del mondo messi insieme. Essi, inoltre, sono oggi in grado di determinare attraverso le loro manovre di borsa quale debba essere il tasso d’interesse che ciascuno Stato deve pagare sui propri titoli di debito pubblico, prendendo come apodittico parametro di riferimento i tassi d’interesse della Germania. In proposito, è recente la notizia dell’acquisto da parte di potenze economiche straniere del porto di Atene, e la proposta di un governo, noto per il suo carattere autoritario, dell’acquisto in Grecia di estese basi militari. In altri termini, la speculazione finanziaria, riducendo in povertà intere nazioni, pone in pericolo anche i territori sovrani e mina alle radici persino l’indipendenza dei popoli.
Né è da sottovalutare il fatto che interi territori, dell’Africa, del Brasile, ma anche dell’Asia e dell’Europa, sono acquistati da privati che sfruttano questi beni per interessi personali, delocalizzano le imprese a loro piacimento, impongono le loro regole al mercato del lavoro, influiscono in modo determinante sul mercato globale, dando credito a una nuova «lex mercatoria», che dovrebbe prevalere sulle Costituzioni e le leggi vigenti in tutti gli Stati. A prescindere dall’assurdità giuridica di quest’ultima affermazione, della quale in seguito parleremo, sta di fatto, comunque, che oggi la politica economica e finanziaria non è piú effetto delle decisioni di ogni singolo Stato, o dell’Europa, ma è decisa dal cosiddetto «giudizio del mercato».
3. La necessità di rivedere il ruolo e i contenuti della proprietà privata nell’ambito del sistema politico vigente.
Di fronte agli incredibili danni prodotti dalla speculazione economica e finanziaria sull’ambiente, sulle persone e sui popoli, vengono inesorabilmente in discussione il ruolo e il contenuto del diritto di proprietà privata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Costituzione incompiuta
  3. Premessa di Tomaso Montanari
  4. L’articolo 9: una rivoluzione (promessa) per la storia dell’arte di Tomaso Montanari
  5. «A titolo di sovranità». Cittadinanza, paesaggio, tutela di Salvatore Settis
  6. Ambiente, bene comune di Paolo Maddalena
  7. Come nacque l’articolo 9 di Alice Leone
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Degli stessi autori
  11. Copyright