Il 15 luglio del 2010, io e mia moglie Teri abbiamo portato la nostra figlia minore, Isabel, a fare un controllo medico di routine. Aveva nove mesi e sembrava in perfetta salute. Le era spuntato il primo dente, e adesso mangiava regolarmente a tavola con noi, farfugliando e infornando per conto suo cucchiaiate di riso soffiato. Una bambina allegra e serena, con una passione per la gente che, scherzavamo, non aveva ereditato dal suo congenitamente scontroso padre.
Io e Teri andavamo sempre insieme a tutte le visite mediche delle nostre figlie, e quella volta abbiamo portato con noi anche Ella, la sorella maggiore di Isabel, che aveva poco meno di tre anni. Allo studio del dottor Gonzales, l’infermiera ha misurato a Isabel la temperatura e controllato peso, altezza e circonferenza cranica, ed Ella era contenta di non doversi sottoporre alla stessa tortura. Il dottor G. – come lo chiamavamo – ha auscultato i polmoni di Isabel, controllato occhi e orecchie. Si è soffermato sulla sua tabella di crescita aperta sullo schermo: l’altezza era nella norma; era un po’ sottopeso. Tutto sembrava a posto, tranne la circonferenza cranica, che superava di due deviazioni standard l’ultima misurazione. Il dottor G. era preoccupato. Restio a prescrivere una RM, ha fissato un’ecografia per l’indomani.
Di ritorno a casa, Isabel era irrequieta e irritabile; faticava ad addormentarsi e comunque si risvegliava subito. Se non fossimo stati dal dottor G., avremmo pensato che fosse semplicemente stanca, ma adesso avevamo una diversa griglia interpretativa, basata sulla paura. Piú tardi quella sera ho portato Isabel fuori dalla nostra stanza (dormiva sempre con noi) per calmarla. L’ho portata in cucina. Le ho cantato il mio intero repertorio di ninne nanne: You Are My Sunshine; Twinkle, Twinkle, Little Star; e un’aria di Mozart che avevo imparato da bambino e di cui miracolosamente ricordavo le parole in bosniaco. Cantare le tre ninne nanne in loop senza fermarsi di solito funzionava, ma quella sera ci è voluto un po’ prima che Isabel posasse la testa sul mio petto e si tranquillizzasse. Sembrava che mi stesse consolando, che cercasse un modo per dirmi che sarebbe andato tutto bene. Preoccupato com’ero, immaginavo un futuro in cui un giorno avrei evocato quel momento e raccontato a qualcuno – magari alla stessa Isabel – come lei avesse calmato me. Mia figlia, avrei detto, si è presa cura di me, e aveva solo nove mesi.
La mattina seguente, Isabel è stata sottoposta a un’ecografia alla testa, e ha pianto tra le braccia di Teri dall’inizio alla fine. Eravamo da poco tornati a casa quando il dottor G. ha chiamato e ci ha detto che l’ecografia evidenziava uno stato idrocefalico, e che dovevamo andare immediatamente al pronto soccorso; Isabel era in pericolo di vita.
Al pronto soccorso del Children’s Memorial Hospital di Chicago, la sala dell’esame TC era tenuta al buio perché i medici speravano che, in attesa della sua scansione, Isabel si addormentasse da sola, cosí da non doverla narcotizzare. Ma poiché, nella prospettiva di un’eventuale RM successiva, non le era consentito mangiare, Isabel continuava a piangere per la fame. Un interno le ha dato una girandola colorata e noi ci soffiavamo sopra per distrarla. Nella terrificante vaghezza delle possibilità, aspettavamo che accadesse qualcosa, tutti troppo spaventati per immaginare cosa potesse essere.
Il dottor Tomita, primario di neurochirurgia infantile, ci ha letto il referto della TC: Isabel aveva i ventricoli laterali dilatati, pieni di liquido cerebrospinale. Qualcosa ostruiva il circolo liquorale, ha detto il dottor Tomita, forse «una neoformazione». Bisognava procedere a una RM d’urgenza.
Teri ha tenuto Isabel in braccio mentre le venivano somministrati gli anestetici; quasi istantaneamente, Isabel ha abbandonato la testa sul petto di Teri. L’abbiamo consegnata agli infermieri per una RM di un’ora; sarebbe stata la prima volta che l’affidavamo a dei completi sconosciuti e andavamo a temere cattive notizie altrove. La caffetteria nel seminterrato dell’ospedale era il posto piú triste del mondo – e lo rimarrà per sempre – con le sue lugubri luci al neon e i grigi piani dei tavoli e il presentimento diffuso di quanti lasciavano i figli sofferenti per andare a mangiarsi un toast al formaggio. Non osavamo fare congetture sui risultati della RM; abbiamo sospeso l’immaginazione, ancorati al momento presente che, per quanto terrificante, non si era ancora esteso al futuro.
Convocati al reparto di radiologia, ci siamo imbattuti nel dottor Tomita lungo il corridoio sovrailluminato. – Abbiamo ragione di credere, – ha detto, – che Isabel abbia un tumore –. Ci ha mostrato le immagini della RM sul computer: esattamente al centro del cervello di Isabel, piantata tra il cervelletto, il tronco cerebrale e l’ipotalamo, c’era una cosa rotonda. Era grande quanto una pallina da golf, ha fatto notare il dottor Tomita, ma a me il golf non è mai interessato e quel che diceva non mi suggeriva niente. Avrebbe asportato il tumore, e avremmo scoperto che tipo di tumore era solo dopo il referto dell’anatomo-patologo. – Ma sembrerebbe un teratoide, – ha detto. La parola teratoide mi era ugualmente incomprensibile; esulava dal mio linguaggio e dalla mia esperienza, apparteneva al regno dell’inimmaginabile e dell’incomprensibile, regno nel quale adesso il dottor Tomita ci stava guidando.
Isabel era addormentata nella recovery room, immobile, innocente; io e Teri l’abbiamo baciata sulle mani e sulla fronte. In ventiquattr’ore o poco piú, la nostra esistenza si era orribilmente e irreversibilmente trasformata. Al capezzale di Isabel, abbiamo attraversato piangendo il momento che divideva la nostra vita tra prima e dopo, un prima che si chiudeva per sempre mentre il dopo si dispiegava, come una stella in esplosione, nell’oscuro universo del dolore.
Ancora incerto sulla parola che il dottor Tomita aveva pronunciato, ho cercato su Internet i tumori cerebrali e trovato l’immagine di un tumore quasi identico a quello che Isabel aveva nel cervello. Ho riconosciuto il bastardo a prima vista, e in quell’istante ho compreso la parola teratoide. Il nome per esteso era, come ho letto, «tumore teratoide rabdoide atipico» (AT/RT). Era altamente maligno ed estremamente raro, un mostro che colpiva solo 3 bambini su 1 000 000, e rappresentava il 3 per cento dei tumori pediatrici del sistema nervoso centrale. L’indice percentuale di sopravvivenza nei bambini sotto i tre anni era inferiore al 10 per cento. C’erano altre scoraggianti statistiche che avrei potuto consultare, ma mi sono ritratto dallo schermo, e ho deciso da quel momento di rivolgermi e affidarmi esclusivamente ai medici di Isabel; mai piú avrei indagato il suo caso in Internet. Dire a Teri quello che avevo letto non è stato facile, perché volevo proteggerla da tutte le agghiaccianti possibilità. Già capivo che, per non perdere il senno, conoscenza e immaginazione andavano tenute a bada.
Sabato 17 luglio, il dottor Tomita e la sua équipe di neurochirurghi hanno impiantato nella testa di Isabel un catetere di Ommaya, per agevolare il drenaggio e alleviare la pressione del liquido cerebrospinale accumulato. Tornata al suo letto di ospedale nel reparto di neurochirurgia, Isabel ha scalciato via la coperta, come faceva di solito; l’abbiamo preso come un segno incoraggiante, il promettente primo passo di un lungo viaggio. Il lunedí l’hanno dimessa dall’ospedale in attesa dell’intervento che avrebbe rimosso il tumore, fissato per la fine della settimana. Siamo andati a casa e abbiamo aspettato.
In città c’erano i genitori di Teri, perché sua sorella aveva partorito il secondo figlio il giorno del controllo medico di Isabel; troppo presi dalla malattia di Isabel, noi avevamo a stento registrato il nuovo arrivo in famiglia, ed Ella aveva trascorso la settimana coi nonni, quasi senza accorgersi dell’agitazione e della nostra relativa assenza. In un martedí pomeriggio di sole siamo andati a fare una passeggiata tutti insieme, Isabel legata al petto di Teri. Quella stessa notte correvamo al pronto soccorso perché a Isabel era salita la febbre, il che suggeriva un’infezione, niente di insolito dopo l’innesto di un corpo estraneo – in questo caso l’Ommaya – nella testa di un bambino.
Le hanno somministrato degli antibiotici contro l’infezione e fatto un paio di ecografie; l’Ommaya è stato rimosso. Il mercoledí pomeriggio sono tornato a casa dall’ospedale per stare con Ella, perché avevamo promesso di portarla al mercato dei contadini del nostro quartiere; mantenere le promesse è fondamentale nel corso di una tragedia. Abbiamo comprato mirtilli e pesche; sulla strada del ritorno, ci siamo fermati a prendere alcuni ottimi cannoli alla nostra pasticceria preferita. Ho parlato a Ella del fatto che Isabel era malata, del suo tumore, e le ho detto che quella sera sarebbe dovuta stare con la nonna. Lei non ha protestato né pianto, capace come qualsiasi bambino di tre anni di capire la difficoltà della situazione.
Mentre con i cannoli in mano camminavo verso la macchina per tornare all’ospedale, Teri ha chiamato e mi ha pregato di arrivare il prima possibile. Il tumore stava sanguinando; bisognava operare Isabel d’urgenza. Il dottor Tomita aspettava di parlarmi prima di trasportarla in sala operatoria. Per raggiungere l’ospedale ho impiegato un quarto d’ora circa, in un traffico che apparteneva a uno spazio-tempo interamente diverso, dove la gente non attraversava le strade correndo e nessuna vita infantile era in pericolo, dove tutto prendeva spigliatamente le distanze dalla disgrazia.
Nella stanza d’ospedale, con la scatola di cannoli ancora in mano, ho visto Teri che piangeva china su Isabel, di un pallore mortale. Il dottor Tomita era lí, con le immagini già aperte sullo schermo e indicava l’emorragia nella testa di nostra figlia. A quanto pareva, una volta drenato il liquido cerebrospinale, il tumore si era espanso nello spazio ora libero e i suoi vasi sanguigni avevano iniziato a rompersi. L’immediata asportazione del tumore era l’unica speranza, ma c’era un sensibile rischio che Isabel morisse in seguito all’emorragia. Un bambino della sua età aveva in corpo appena mezzo litro di sangue, ci disse il dottor Tomita, e le continue trasfusioni sarebbero potute essere insufficienti.
Prima di seguire Isabel nella stanza pre-operatoria, ho messo i cannoli nel frigo in camera sua. L’egoistica lucidità di quel gesto mi ha procurato un immediato senso di colpa. Solo piú tardi avrei compreso che quel gesto assurdo era connesso a qualche forma di disperata speranza: i cannoli potevano servire alla nostra futura sopravvivenza.
L’intervento doveva durare dalle quattro alle sei ore; l’assistente del dottor Tomita ci avrebbe tenuti aggiornati. Abbiamo baciato Isabel sulla fronte pallida come pergamena e l’abbiamo guardata scivolare nell’ignoto sospinta da una squadra di estranei mascherati. Io e Teri siamo tornati in camera in attesa di scoprire se la nostra bambina sarebbe sopravvissuta alla notte. Alternavamo il pianto al silenzio, sempre abbracciati. L’assistente ci ha chiamato dopo un paio d’ore, e ha detto che Isabel stava reagendo bene. Abbiamo mangiato qualche cannolo, non per festeggiare ma per tenerci in piedi: avevamo mangiato e dormito pochissimo. Nella stanza le luci erano abbassate; noi, stesi su un letto dietro una tenda; per qualche motivo nessuno ci è venuto a disturbare. Eravamo lontani dal mondo dei mercati dei contadini e dei mirtilli, il mondo dove gli infermieri si davano il cambio chiacchierando, dove altri bambini nascevano e vivevano, dove le nonne mettevano a letto le nipotine. Non mi ero mai sentito tanto vicino a un altro essere umano quanto quella sera a mia moglie; amore trascendente potrebbe essere la definizione piú semplice per quello che provavo.
Un po’ dopo mezzanotte, l’assistente ci ha chiamato per dire che Isabel aveva superato l’intervento. Abbiamo incontrato il dottor Tomita fuori dalla sala d’aspetto, nella quale altri genitori sventurati dormivano su scomodi divani, avvolti dai loro incubi. Il dottor Tomita pensava di aver asportato gran parte del tumore; fortunatamente era rimasto integro e il sangue non aveva inondato il cervello, la qual cosa sarebbe stata letale. Isabel stava bene e a breve sarebbe stata trasferita nell’unità di terapia intensiva, ha detto, dove avremmo potuto vederla. Ricordo quello come un momento relativamente felice: Isabel era viva. L’esito immediato era l’unica cosa che contava; tutto quello che potevamo sperare era di arrivare alla tappa successiva, qualunque essa fosse. Il futuro era sigillato; non ci poteva essere alcuna vita oltre il fatto che Isabel era viva adesso.
All’unità di terapia intensiva, l’abbiamo trovata prigioniera di un groviglio di tubi endovena e cavi di monitor, paralizzata dal rocuronio (che lí tutti chiamavano rock), somministrato per impedirle di strapparsi le cannule respiratorie. Abbiamo passato la notte a vegliarla, a baciare le dita di quella mano inerte, a leggere o a cantare per lei. Il giorno seguente, ho sistemato l’iPod nella sua base e ho messo della musica, non solo nell’ostinata e illusoria convinzione che la musica fa bene a un cervello sofferente e in via di recupero, ma anche per contrastare gli alienanti rumori dell’ospedale: il bip dei monitor, il sibilo dei respiratori, il chiacchiericcio indifferente degli infermieri in corridoio, la sirena ogni volta che le condizioni di un paziente precipitavano. Accompagnato dai concerti per violoncello di Bach e dalle composizioni per piano di Mingus, il mio cuore registrava ogni flessione del battito di Isabel, ogni variazione della pressione sanguigna. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle cifre che fluttuavano sadicamente sul monitor, come se la mera contemplazione potesse influenzarne l’andamento. Non potevamo far altro che aspettare.
C’è un meccanismo psicologico, ormai ne sono convinto, che impedisce alla maggior parte di noi di immaginare il momento della nostra morte. Poiché se fosse possibile immaginare nitidamente l’istante del passaggio dalla coscienza alla non-esistenza, con la relativa paura e l’umiliazione dell’impotenza assoluta, sarebbe molto difficile vivere, essendo insopportabilmente ovvio che la morte è inscritta in tutto ciò che costituisce la vita, e che ogni istante della nostra esistenza è a un soffio dall’essere l’ultimo. Saremmo ininterrottamente devastati dall’immanenza di quel momento inevitabile, perciò la nostra saggia mente rifiuta di contemplarlo. E tuttavia, mentre maturiamo verso la mortalità, immergiamo guardinghi nel vuoto le dita dei piedi frementi di orrore, sperando che in qualche modo la mente si adeguerà a morire, che Dio o qualche altro oppiaceo lenitivo resterà contattabile mentre ci avventuriamo piú a fondo nell’oscurità del non-essere.
Ma come ci si adegua alla morte della propria figlia? Intanto, dovrebbe accadere ben dopo la nostra dissoluzione nel nulla. I nostri figli dovrebbero sopravviverci di diversi decenni, durante i quali vivere le loro vite, felicemente liberati del fardello della nostra presenza, per poi completare la stessa parabola mortale dei loro genitori: oblio, negazione, paura, fine. Dovrebbero farsi carico della loro mortalità, e in questo non c’è aiuto che gli si possa dare (se non quello di costringerli a confrontarsi con la morte attraverso la nostra): la morte non è un compito di scienze. E, anche potendo immaginare la morte di tua figlia, perché mai dovresti farlo?
Io tuttavia ero perseguitato da un’immaginazione catastrofica compulsiva, e spesso avevo involontariamente immaginato il peggio. Mi capitava di vedermi investito da una macchina quando attraversavo la strada, con annessa visione degli strati di terra sul telaio del veicolo mentre la ruota mi fracassava il cranio. Oppure, bloccato nella metro a luci spente, vedevo un’onda di fuoco avanzare nella galleria verso il treno. Solo dopo aver incontrato Teri sono riuscito a tenere la mia tormentosa immaginazione sotto controllo. E quando sono nate le nostre figlie, ho imparato a cancellare rapidamente le visioni di cose orribili che le riguardavano. Poche settimane prima che a Isabel venisse diagnosticato un cancro, avevo notato che la sua testa era grossa e vagamente asimmetrica e mi era balenata una domanda: – E se avesse un tumore al cervello? – Ma prima che la mia mente partisse con una serie di ipotesi spaventose, mi sono dissuaso dal prenderle in considerazione. Isabel sembrava in perfetta salute. Anche potendo immaginare la grave malattia di tua figlia, perché mai dovresti farlo?
Un paio di giorni dopo la resezione, una RM ha rilevato nel cervello di Isabel un residuo di tumore. Quanto piú della massa cancerosa si fosse riuscito a levare, tanto migliore sarebbe stata la prognosi, perciò Isabel ha dovuto subire un nuovo intervento, per poi tornare in terapia intensiva. In seguito trasferita da terapia intensiva a neurochirurgia, il suo liquido cerebrospinale continuava a non defluire: le hanno applicato un catetere ventricolare, aprendo cosí una via chirurgica di drenaggio. A Isabel è tornata la febbre. Le hanno rimosso il catetere; i suoi ventricoli si sono dilatati e sono tornati a riempirsi di liquido, al punto da mettere a rischio la sua vita; la pressione sanguigna stava calando vertiginosamente. Sottoposta a una TAC di emergenza, a faccia in su nel tubo della RM, ha rischiato di rimanere soffocata, col vomito che schiumava dalla bocca. Alla fine le hanno impiantato uno shunt, per consentire al liquido cerebrospinale di defluire direttamente nello stomaco. In meno di tre settimane, Isabel aveva subito due resezioni cerebrali – era occorso divaricare gli emisferi perché il dottor Tomita potesse accedere al punto di unione tra il tronco encefalico, la ghiandola pineale e il cervelletto e rimuovere il tumore – piú sei interventi ulteriori per porre rimedio al mancato deflusso del liquido cerebrospinale. Le era stato introdotto un tubo nel petto per poterle infondere direttamente in circolo i chemioterapici. E a coronare il tutto, le hanno trovato un tumore inoperabile delle dimensioni di una nocciolina nel lobo frontale, mentre il referto di anatomia patologica confermava che il tumore era effettivamente un AT/RT. L’inizio della chemio è stato fissato per il 17 di agosto, un mese dopo la diagnosi, e i suoi oncologi, il dottor Fangusaro e il dottor Lulla, hanno preferito non discutere la prognosi. Non abbiamo osato insistere.
Durante le settimane immediatamente successive alla diagnosi non avevamo mangiato né dormito granché. Io e Teri stavamo perlopiú in ospedale, accanto a Isabel. Cercavamo di passare del tempo con Ella, che in terapia intensiva non era ammessa anche se poteva andare a trovare Isabel in neurochirurgia, dove la faceva sorridere ogni volta che erano insieme. Ella sembrava gestire la tragedia abbastanza bene. Familiari solleciti e buoni amici venivano a casa per distrarla, per aiutarci ad ammortizzare la nostra assenza continua. Quando le parlavamo della malattia di Isabel, Ella ascoltava a occhi sgranati, preoccupata e perplessa.
È stato durante le prime settimane di quest’ordalia che Ella a un certo punto ha iniziato a parlare del suo fratello immaginario. All’improvviso, in uno dei suoi accessi verbali, ci capitava di distinguere aneddoti a proposito di un fratello che talvolta aveva un anno, talvolta andava al liceo, e che ogni tanto, per qualche oscura ragione, partiva per Seattle o per la California, per poi tornare puntualmente a Chicago e figurare in un ennesimo, avventuroso monologo di Ella.
Non è insolito, naturalmente, che i bambini dell’età di Ella abbiano un amico o un fratello immaginario. La creazione di un personaggio immaginario è legata, suppongo, all’esplosione delle abilità linguistiche appena acquisite, esplosione che si verifica tra i due e i quattro anni di età e rapidamente produce un eccesso di linguaggio cui il bambino potrebbe non avere sufficiente esperienza da associare. Il bambino deve cosí ricorrere a delle narrazioni immaginarie per collaudare le parole che tutt’a un tratto possiede. Ella adesso conosceva la parola California ma non aveva alcuna esperienza in qualche modo connessa al termine, né era in grado di concettualizzarlo sul piano astratto, nella sua californietà. Il fratello immaginario andava perciò inviato nello stato del sole perché lei potesse parlare diffusamente come se conoscesse la California: le parole acquisite esigevano la storia, il linguaggio necessitava di un paesaggio...