Primavera di bellezza
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Primavera di bellezza

  1. 208 pagine
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Primavera di bellezza

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«Un romanzo di formazione, storia di un ragazzo che non diventa uomo perché incontra la guerra».

Piero Negri Scaglione 8 settembre 1943: uno dei momenti piú difficili della nostra storia. Il momento in cui una generazione si trovò davanti a un bivio che l'avrebbe segnata in maniera indelebile. La vicenda di Johnny, futuro partigiano del capolavoro di Fenoglio, riassume tutta la confusione di quell'attimo incredibilmente lungo; tutto il peso delle scelte prese quando infuria la battaglia. Primavera di bellezza (1959) è il terzo e ultimo libro pubblicato in vita da Beppe Fenoglio. «Il romanzo venne concepito e steso in lingua inglese. Il testo quale lo conoscono i lettori - dichiarò provocatoriamente - è quindi una mera traduzione».Con L'estate del '43 di Oreste Del Buono e la cronologia della vita e delle opere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410226

Primavera di bellezza

To the girl
– in the picture torn asunder –
combed her raven hair,
in a meadow by St-Stephen
with the fabulous comb
of gold and tortoise-shell Egyptian.

1

Insensibile al freddo mordace, Johnny fissava vacuamente lo scarico della latrina. Si riscosse all’arrivo di un compagno, ciabattante, malsano, terrone. Lo scansò a testa bassa e filò via rasente il muro sgocciolante, orientandosi sull’alone funereo della lampada della sua camerata. Rivide il distretto, quel lercio maresciallo nel primo ufficio, che portava l’uniforme come una camicia da notte, i cassetti della scrivania pieni di omaggi e pedaggi in viveri e tabacco. Quindi il colonnello comandante, nella sala visite: in perfetta divisa, calzava sotto i gambali fruste pianelle di marocchino. Batté il piede per richiamare l’attenzione dello scritturale e decretò: – ...esimo fanteria. Battaglione d’istruzione. Moana.
Johnny era alto e asciutto, anzi magro, negli occhi il suo punto di forza e di bellezza. Al momento della chiamata alle armi si trovava a metà degli studi per diventare professore di lingua e letteratura inglese. A ribattezzarlo Johnny era stata l’insegnante d’inglese, in terza ginnasio; il nome era subito entrato nell’uso dei compagni di scuola, poi dei suoi di casa e infine di tutti nella sua città.
Rientrò nella camerata. Ci pioveva attraverso il tetto d’eternit, tutti giacevano coperchiati dal telo-tenda e lo stillicidio sull’aspro tessuto somigliava al ticchettare di centinaia di sveglie. Arrivò al suo castello, ci abitava al terzo piano. Puntò i piedi sul pagliericcio del pugliese Lippolis e si afferrò con le mani al piano dove dormiva l’istriano Dian, col suo sano, laconico russare. La sgangherata impalcatura oscillò pericolosamente e, laggiú, Lippolis gemette nel sonno. Si tirò sugli occhi il telo indurito. Erano le due, la sveglia esattamente fra tre ore, con la tromba. Mancando un minuto alle cinque, pareva ai già desti che tutta l’aria dentro e fuori si scongelasse ed affluisse in onde concentriche al punto in cui sarebbe esplosa la mina delle note. Allora gli uomini si inarcavano come marionette, e nulla di umano riaffiorava in loro se non dopo che si erano energicamente stropicciata la faccia, come a scrostarla di un cerume. Poi il turpiloquio e il cieco galoppo ai lavatoi, troppo insufficienti. Era entrato l’ufficiale di giornata, narici arricciate e labbra compresse (degradati, imbestiati, irriconoscibili figli, gli allievi, della borghesia italiana), e si teneva attentamente lontano dall’andirivieni cameratalatrina-lavatoio, avrebbe voluto stringersi la manica all’osso. Si ritraeva ancor piú, verso le rastrelliere: individuava un’arma fuori sicura e sbuffando ne annotava la matricola. Gli ufficiali istruttori, in quell’ultimo anno di guerra, erano anch’essi parecchio giú di corda: vestivano di orticariante panno autarchico, con cinturone di seconda mano e stivali di cuoio grezzo; lontani dai loro forbitissimi, seducenti colleghi del giugno 1940.
Dal distretto scesero in treno a Fossano e marciarono, le posate di stagno dannatamente rumorose nel floscio tascapane, all’immensa ruinosa caserma ottocentesca. Nel cortile pestavano i piedi dozzine d’altri destinati a Moana, in maggioranza meridionali, qualche calabrese in velluto. Erano in consegna a un sergente dal viso bello, la voce triviale. Bisognava passare una seconda visita, e un fante ai servizi li smistò alla sala medica distribuendo pacche sul sedere: – Altra classe della vittoria, altra infornata di sfessati –. Dall’interno l’ufficiale medico lo rimproverò blandamente.
Quel sergente aggredí le reclute. – Scattare, svegliarsi. Occhi aperti e orecchie dritte. Siamo nell’esercito, qui, mica alla Gioventú Italiana del Littorio.
– Voglio sperarlo, sergente, – disse calmo un meridionale, avanzando il suo profilo berbero.
Il sergente fece dietrofront per urlargli sulla bocca di tacere.
Il vecchio fante sogghignò. – Vi spiego perché vi maltratta cosí. Doveva diventare signor ufficiale come voi. Ma al corso, al vostro corso, l’hanno bocciato ed è diventato soltanto sergente. Metà di voi faranno la sua fine. Moana è un mattatoio.
Si ricoprirono, percorsero una fuga di stanzoni arredati solo dal puzzo ammoniacale dell’antica truppa, attualmente disseminata, sopra o sotto terra, su di un fronte imperiale, e riuscirono nello sconfinato cortile. Una decina di uomini stavano vestendosi di grigioverde nell’aria polare: li vigilava un soldato paffuto, gli occhi e il moschetto rivolti verso terra, si muoveva con l’indolenza felina del tiratore di stocco. Gli altri erano biondastri e legnosi, con quadri toraci implumi, occhi grigiazzurri tardi e fanatici, si vestivano con estrema lentezza, con ripugnanza. Spuntò un altro fante ai servizi, la giubba sbottonata e i calzoni retti da una sciarpa variopinta alla moda dei carrettieri, gloriosamente fuori ordinanza. – Quelli? – disse tra i denti. – Sono slavi, schiavoni, gentaglia di Tito che noi abbiamo reclutato di forza laggiú ed ora vestiamo. Guardateli bene negli occhi. Potessero, ci sbranano, si cibano dei nostri testicoli. Pagherei per vederne uno fare una mossa falsa e il nostro soldato col moschetto farlo secco. Sigarette d’avanzo per il nonno, ragazzi?
Toccò a loro spogliarsi, nel centro del cortile, e uno svelto fante percorreva il loro fronte seminando indumenti. Andarono in fila indiana all’antro naftalinoso del maresciallo al vestiario. Buttò su Johnny i suoi grassi occhi meridionali.
– Per quanto concerne i pantaloni, questi ti andranno certamente bene. Giubba, questa.
– Questa non mi va, maresciallo, questa mi si spacca sulla schiena.
Si accubitò sul bancone, si pinzò il naso e soffiò: – Voi figlietti di papà, studentelli belli e cari. Ora state nell’esercito, dovete smetterla con tutte le vostre esigenze, smetterla di pensare ai bei vestiti attillati che avete lasciato a casa.
– Maresciallo, io mi lamento appunto dell’eccessiva attillatezza...
Gli ingiunse basta e silenzio, il sopraggiunto sergente ripeté, a volume triplo, basta e silenzio. Fortunatamente Johnny s’imbatté in un terroncino costernato per una giubba che gli arrivava ai ginocchi e furono felici dell’immediato baratto. Disse l’altro: – Al corso ci sarà pure un sarto militare per i necessari ritocchi. Comunque, questo esercito è una schifezza. Sí, sono riusciti a mandare a schifío anche l’esercito.
Gli slavi laggiú segnavano il passo, grotteschi e disperati, sotto gli striduli comandi del soldato col moschetto. Alle reclute vennero buttati grappoli di scarpe, di un giallo fecale, e ci fu l’assalto per il possesso, e poi lotta coi lacci aggrovigliati. Chiesero dove procurarsi il lucido per annerirle. Operazione da effettuarsi soltanto a Moana, avvisò il sergente. Come? dovevano attraversare prima Fossano e poi Moana con quelle scarpe color della popò dei bambini in piena salute? I borghesi si sarebbero spanciati dal ridere.
– I borghesi non si spanceranno. E non cominciate a darvi arie parlando dei borghesi. I borghesi non rideranno. E chi vi bada a voi? Siamo in guerra siamo, ma forse voi, studenti universitari, lo ignorate. Ma da domani a Moana, a Dio piacendo, vi faranno il deretano, un deretano tale che nemmeno su un paracarro dell’autostrada vi fiderete piú di sedervi.
Si elevò puntuale la protesta goliardica.
– Ah, cosí la prendete? Ma qui non è il premilitare. Adesso vi dò un assaggio del corso, un anticipo di ordine chiuso. Attenti. Riposo. Fate compassione. Attenti. Riposo. Fate schifo. Attenti. Riposo. Rachitici, scoglionati, pezzi di chiavica. Attenti. Riposo. Attenti. Avanti, marsc –. Li manovrò tutta un’ora a un ritmo pazzesco, sotto il ghigno dei vecchi fanti sparsi, mani in tasca e pancia in fuori, nel cortile, sotto i portici cenerognoli, ai finestroni slabbrati.
– Vi è passata, eh? Riprovatevi a muggire. E vedrete al corso. Passo, passo, cadenza, passo passo passo, battere battere battere. La naja non è la Gil.
– È orribilmente identica alla Gil, – sospirò Johnny, e trovò la sua disperazione riflessa negli occhi carboniosi del giovane berbero.
La sera franava sulla caserma, soltanto sulla caserma, e smoriva l’eco del traffico cittadino che valicava il vecchio muro sbrecciato.
Segnalarono la tradotta per Moana, l’attesero inquadrati in un androne, cancellati dalla tenebra, escluso quell’insopprimibile, sardonico balenio giallo delle scarpe. La tradotta ritardava, non si sciolse la formazione, si presentò un nuovo sergente, probabilmente un aspirante ufficiale respinto come quello ingoiato dal labirinto della caserma. Questo pure incrociava ridacchiando: – Vedrete al corso. Sputerete, orinerete sangue. Vi faranno un culo cosí –. Anche i fanti ai servizi si erano avvicendati, senza che cessasse lo scherno né l’accattonaggio di sigarette e panini imbottiti.
Finalmente marciarono per la città oscurata alla stazione luminescente nella pianura nevosa. Li aspettavano cinque carri bestiame e un sergente maggiore direttamente dal battaglione d’istruzione, un tipo con baffetti guasconi su una faccia padana. Fece l’appello, storpiando un bel po’ di nomi, tra lo sfiatare delle locomotive. Due militi in servizio ferroviario sbraitarono all’orizzonte contro una qualche infrazione all’oscuramento. I meridionali piangevano per il freddo e imprecavano al Piemonte. Un vecchio ferroviere indugiò presso quella nuova truppa.
– Quanti chilometri a Moana?
– Quaranta, da che mondo è mondo.
– Quante ore?
– Non si può mai dire con questi convogli militari.
Il sergente maggiore urlò silenzio, non comunicare coi borghesi. Il ferroviere si allontanò, offeso, brontolando che egli non si considerava, si rifiutava di considerarsi un borghese.
Come il treno prese velocità, i settentrionali, primi gli emiliani, attaccarono i meridionali: – Terroni, sudici, terra da pipe, abissini! – e quelli reagirono: – Polentoni, a cuornuti! – con voci tanto strascicate, preficali e antiche quanto schioccanti, fresche e deliberate le voci del Nord. In una tregua per ripigliar fiato, due romani, un Lulli e un Petrangeli, credettero di dover celebrare l’Urbe e intonarono impettiti «Roma divina», a confusione del Nord e del Sud. Allora le due fazioni estreme si riconciliarono provvisoriamente e seppellirono i due quiriti sotto un consolidato cumulo di ingiurie. Poi riprese il duello Nord-Sud, Johnny sibilò d’insofferenza e rudemente si fece strada alla sbarra di ferro, dove rimase fino alla fine del viaggio, nel volo radente di nevischio e scintille.
Giunsero a Moana verso la mezzanotte, si allinearono per il contrappello sulla banchina lastrata di ghiaccio, il sergente maggiore rinforzato da due sergenti direttamente dal corso, solidi e ingrugnati, fortemente rappresentativi. Mancava un uomo, certo Larosa del distretto di Reggio Calabria, i sergenti presero a urlarne il nome sotto la pensilina, verso i carri, oltre i binari, e le reclute unirono le loro voci. Un calabrese uscí dai ranghi a precisare che Larosa era paesano suo, se ciò poteva servire. I sergenti chiamavano, bestemmiavano, dirigevano in ogni dove la luce delle torce elettriche, mentre la truppa pestava i piedi gialli sul ghiaccio, mentalmente maledicendo Larosa, il distretto di Reggio, i sergenti e l’esercito tutto. Rastrellarono il convoglio e Larosa venne scovato e tirato giú ed avanti di peso, piangente e scalciante. Il sergente maggiore gli tamburellò sulla spalla: – Che t’ha preso, giovanotto? L’esercito mica ti vuole per mangiarti.
Oltre il riverbero rossastro del corpo di guardia, con grommose facce di sentinelle appiccicate ai vetri li guidarono in un androne scarsamente illuminato, lí rifecero il contrappello. Johnny fu assegnato alla prima compagnia, quella la camerata. Ci penetrò fra pozze e rivoli d’acqua di sgelo: niente di meglio di un capannone autarchico, miserabile nella parte già occupata, decisamente sinistro in quella ancora disabitata. Sui castelli larve di uomini si ersero sui gomiti e sghignazzarono estenuatamente ai nuovi arrivati. Un sergente urlò che il silenzio era suonato da quattro ore circa.
Sentí sfregare un fiammifero sotto un telo del castello accanto, poi emerse la testa di Lorusso, la sigaretta in bocca. Di media statura, stupendamente armonico, biondo normanno e naturalmente abbronzato, con una calda voce senza accento, stiloso anche nella mortificante divisa, Arturo Lorusso, la stella del Sud. La sua prima domanda confidenziale a Johnny era stata: «Come ti piace Duke Ellington?»
– Non dormi, Johnny?
– Tu che hai la sigaretta accesa...
– Vuoi tirare?
– No, dimmi l’ora.
– Two fifteen1. Domani ginnastica.
– Hang it!2.
– Meglio i salti mortali che la teoria, per quel che mi riguarda.
– Hang it all! Yet the army is an honourable thing3.
1 2,15.
2 Sulla forca!
3 Tutto sulla forca! Ma l’esercito è un’onorevole cosa.

2

Era stato Lorusso, arrivato fra i primi dalla lontana Bari, a iniziare Johnny e via via tutti gli altri assegnati al plotone armi d’accompagnamento, squadra mortai.
– L’ufficiale? Il tenente Jacoboni signor Paolo. Il piú cristaccio.
Ovviamente, commentò il siciliano Garofalo, nero emaciato e resistente come un beduino, piú alto dello stesso Johnny, severamente amichevole.
– Sottufficiale: sergente maggiore Perego Carlo, milanese. La perla dei sergenti.
– Qui andiamo meglio.
– Meglio un corno. La perla dei sergenti sí, ma da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Primavera di bellezza
  3. L’estate del ’43 di O.d.B.
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Primavera di bellezza
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright