Beate Lønn fu inumata a Gamlebyen, accanto a suo padre. Che era sepolto là non perché fosse il cimitero cui faceva capo il suo domicilio, bensí perché era quello piú vicino alla centrale di polizia.
Mikael Bellman si aggiustò la cravatta. Prese la mano di Ulla. Il suo consulente mediatico gli aveva suggerito di portare anche lei. Con l’ultimo omicidio la sua posizione di dirigente responsabile era diventata cosí precaria che aveva bisogno d’aiuto. Per prima cosa il consulente mediatico gli aveva spiegato che da quel momento in poi era importante che, nella sua veste di capo della polizia, si mostrasse piú coinvolto in prima persona, piú empatico, ché finora aveva dato di sé un’immagine troppo professionale. Ulla si era offerta di aiutarlo. Com’era naturale. Bellissima nelle gramaglie che aveva scelto con cura. Era una brava moglie, Ulla. Se ne sarebbe ricordato. A lungo.
Il pastore si dilungò all’infinito su quelle che chiamava le grandi domande, su cosa accade quando moriamo. Ma ovviamente le grandi domande erano ben altre: cosa era successo prima che Beate Lønn morisse e chi l’aveva uccisa. Lei, e altri tre poliziotti nel corso degli ultimi sei mesi.
Queste erano le grandi domande per la stampa, che negli ultimi giorni aveva tessuto le lodi della brillante responsabile della Scientifica e criticato il nuovo capo della polizia, evidentemente troppo inesperto.
Erano le grandi domande per la giunta comunale, che lo aveva convocato per fargli presente che il suo modo di gestire le indagini sarebbe stato messo in discussione.
Ed erano le grandi domande per le squadre investigative, sia la grande sia la piccola che Hagen aveva organizzato senza informare Bellman, il quale però non si era opposto perché se non altro aveva una pista concreta da seguire: Valentin Gjertsen. Ma era una pista con un punto debole: la teoria secondo cui quello spettro sarebbe stato il responsabile degli omicidi si basava sulla testimonianza di un’unica persona che sosteneva di averlo visto vivo. E adesso quella persona si trovava laggiú, dentro la bara davanti all’altare.
Dai rapporti della Scientifica, dell’investigativa e di Medicina legale non erano emersi particolari che permettessero di tracciare un quadro completo dell’accaduto, ma tutti i dati che avevano in mano collimavano con i fatti riportati nei vecchi rapporti sull’omicidio di Bergslia.
Quindi, se si presumeva che coincidesse anche il resto, Beate Lønn era morta nel peggior modo immaginabile. Non c’erano tracce di anestetico nelle parti del corpo che avevano esaminato. Il referto di Medicina legale conteneva espressioni come «emorragie massive nella muscolatura e nel tessuto sottocutaneo», «modificazioni tissutali e reazione infiammatoria». In parole povere significava che Beate Lønn non solo era viva nel momento in cui quelle parti del corpo le erano state amputate, ma purtroppo lo era rimasta anche per un certo lasso di tempo dopo.
Le superfici di taglio inducevano a pensare che lo squartamento fosse stato fatto con una sega a gattuccio e non con un seghetto alternativo. Secondo i tecnici della Scientifica era stata usata una cosiddetta lama bimetallica, ossia una lama di quattordici centimetri a denti fini in grado di tagliare le ossa. Bjørn Holm aveva spiegato che dalle sue parti i cacciatori chiamavano quel tipo di lama «da alce».
Probabilmente Beate Lønn era stata squartata sul tavolino, che aveva il piano di vetro ed era stato pulito dopo. A quanto sembrava l’assassino aveva portato con sé un detergente a base d’ammoniaca e dei sacchi della spazzatura neri, dato che nessuna di queste cose era stata trovata sulla scena del crimine.
Sul camion dei rifiuti avevano anche trovato resti di un tappeto intriso di sangue.
Non avevano invece trovato né impronte digitali, né orme di scarpe, né fibre tessili, né capelli o altro materiale biologico per l’estrazione del Dna appartenenti a estranei.
Né segni di scasso.
A quanto riferito da Katrine Bratt, la collega aveva riagganciato perché suonavano alla porta.
Sembrava escluso che Beate Lønn avesse fatto entrare di sua spontanea volontà uno sconosciuto, soprattutto mentre aveva luogo l’operazione. Perciò l’ipotesi cui stavano lavorando era che l’assassino fosse entrato minacciandola con un’arma.
E poi, naturalmente, c’era l’altra ipotesi. Che non si trattasse di uno sconosciuto. Perché la porta massiccia di Beate Lønn era munita di una serratura di sicurezza. E dai numerosi graffi si capiva che era stata usata regolarmente.
Bellman vagò con lo sguardo fra i banchi. Gunnar Hagen. Bjørn Holm e Katrine Bratt. Una signora anziana insieme a una bambina che immaginava fosse la figlia di Beate Lønn, tanto le somigliava.
Un altro spettro, Harry Hole. Rakel Fauke. Bruna, con quel suo scintillante sguardo nero, bella quasi quanto Ulla. Incredibile che uno come Hole fosse riuscito ad accaparrarsela.
E un po’ piú indietro: Isabelle Skøyen. Ovviamente la giunta comunale doveva essere rappresentata, altrimenti la stampa avrebbe potuto metterne in risalto l’assenza. Prima di entrare in chiesa lei lo aveva preso in disparte, ignorando Ulla che lo aspettava scalpitante, e gli aveva chiesto per quanto tempo ancora avesse intenzione di non rispondere alle sue telefonate. E lui le aveva ripetuto che era finita. Al che lo aveva osservato come si guarda un insetto prima di schiacciarlo con il piede, dicendogli che lei era una che lasciava, non una che veniva lasciata. E glielo avrebbe dimostrato. Mentre raggiungeva Ulla e le porgeva il braccio, Bellman aveva sentito il suo sguardo conficcato nella schiena.
Per il resto, i banchi erano occupati da quello che immaginava fosse un miscuglio di parenti e amici e colleghi, la maggior parte in divisa. Li aveva sentiti consolarsi come potevano, dicendo che non aveva segni di tortura e c’era da sperare che l’emorragia le avesse fatto perdere conoscenza quasi subito.
Per una frazione di secondo il suo sguardo incrociò quello di un altro convenuto. Lo distolse subito fingendo di non averlo visto. Truls Berntsen. Cosa diavolo ci faceva là? Non era certo da annoverare tra gli amici di Beate Lønn. Ulla gli strinse appena appena la mano, gli rivolse uno sguardo interrogativo, e lui si affrettò a risponderle con un sorriso. D’accordo, probabilmente nella morte siamo tutti colleghi.
Katrine si era sbagliata. Non aveva finito di piangere.
Lo aveva creduto diverse volte nei giorni successivi al rinvenimento di Beate: di non avere piú lacrime, ormai. Invece ne aveva. E le aveva stillate dal corpo già tutto anchilosato da lunghi pianti convulsi.
Aveva pianto finché il corpo si era rifiutato di continuare, e aveva vomitato. Aveva pianto fino ad addormentarsi sfinita. Aveva pianto dal momento in cui si era svegliata. E adesso stava piangendo di nuovo.
Nelle ore in cui riusciva a dormire era tormentata dagli incubi, per il patto che aveva stretto con il diavolo. Quello in cui si era detta disposta a sacrificare un altro collega in cambio della cattura di Valentin. Quello che aveva suggellato con la formula: «Ancora una volta, diavolo che non sei altro. Colpisci ancora una volta».
Katrine singhiozzò forte.
Udendo quel forte singhiozzo Truls Berntsen si raddrizzò. Per poco non si era addormentato. Maledizione, la stoffa dell’abito da pochi soldi era talmente liscia contro il legno consumato che aveva rischiato di scivolare giú dal banco.
Fissò lo sguardo sulla pala d’altare. Gesú con delle specie di raggi che gli uscivano dalla testa. Lampada frontale. Remissione dei peccati. Certo che avevano proprio avuto un colpo di genio. La religione cominciava a vendere male, la gente faceva fatica a osservare tutti i comandamenti via via che si poteva permettere di cedere a piú tentazioni. Cosí si erano inventati che la fede conveniva. Un’idea di vendita efficace tanto per il fatturato quanto per l’acquisto a credito, sembrava quasi che la salvezza non costasse nulla. Ma proprio come succede con gli acquisti a credito la cosa era andata fuori controllo, la gente se ne infischiava, peccava a piú non posso, perché bastava credere un pochino, per cosí dire. Allora, piú o meno nel Medioevo, erano stati costretti a prendere provvedimenti, e passare alla riscossione dei crediti. Avevano inventato l’inferno e la storia che l’anima sarebbe bruciata tra le fiamme. Ed ecco che spinti dalla paura i clienti tornavano alla Chiesa e questa volta pagavano. La Chiesa era diventata ricca sfondata e rispettata: avevano fatto un gran bel lavoro. Questa era l’opinione sincera di Truls in merito, anche se personalmente credeva che una volta morto sarebbe finita lí, senza la remissione dei peccati né l’inferno. Ma se si sbagliava, si sarebbe trovato in un mare di guai, questo era poco ma sicuro. C’era per forza un limite a ciò che si poteva perdonare, e probabilmente Gesú non aveva avuto abbastanza fantasia da immaginare un paio di cosette che Truls aveva fatto.
Harry fissava dritto davanti a sé. Era altrove. Nella Casa del dolore dove Beate indicava e dava spiegazioni. Si riscosse solo quando udí Rakel bisbigliare: – Harry, devi aiutare Gunnar e gli altri.
Lui trasalí. Le rivolse uno sguardo interrogativo.
Con un cenno della testa lei gli indicò l’altare dove gli altri si erano già messi in posizione ai lati della bara. Gunnar Hagen, Bjørn Holm, Katrine Bratt, Ståle Aune e il fratello di Jack Halvorsen. Hagen aveva spiegato che Harry doveva portare la bara a fianco del cognato di Beate, che era il secondo piú alto del gruppo.
Si alzò e si affrettò lungo il corridoio.
«Devi aiutare Gunnar e gli altri».
Sembrava un’eco di quello che Rakel aveva detto la sera prima.
Harry rispose agli impercettibili cenni dei compagni. Occupò il posto libero.
– Al mio tre, – disse Hagen sottovoce.
Le note dell’organo montarono sovrapponendosi le une alle altre.
Infine portarono Beate Lønn fuori, nella luce.
Justisen era strapieno di gente che aveva partecipato al funerale.
Dalle casse tuonava una canzone che Harry aveva già sentito in quel locale. I Fought the Law dei Bobby Fuller Four. Che continuava ottimisticamente dicendo «… and the law won», e la legge ha vinto.
Aveva accompagnato Rakel al treno per l’aeroporto, e nel frattempo diversi suoi ex colleghi si erano presi una bella sbornia. Da osservatore esterno e sobrio, Harry ebbe modo di appurare che bevevano quasi disperatamente, come se fossero a bordo di un vascello che si stava inabissando. Molti sbraitavano in coro insieme ai Bobby Fuller Four che la legge aveva vinto.
Harry fece segno al tavolo occupato da Katrine e dagli altri portatori della bara che sarebbe tornato subito e si avviò verso i bagni. Mentre stava liberando la vescica gli si affiancò un uomo. Udí il rumore della lampo che si apriva.
– Questo locale è frequentato da noialtri poliziotti, – biascicò una voce. – Perciò cosa diavolo ci fai tu qui?
– Piscio, – rispose Harry senza alzare lo sguardo. – E tu? Spegni gli incendi?
– Non ci provare, Hole.
– Se ci avessi provato, a quest’ora non circoleresti da uomo libero, Berntsen.
– Sta’ in guardia, – ansimò Truls Berntsen sostenendosi al muro sopra l’orinatoio con la mano libera. – Posso incastrarti per omicidio, sai. Il russo in quel bar, Come As You Are. In polizia tutti sanno che sei stato tu, ma io sono l’unico in grado di provarlo. E per questo tu non ti azzarderai.
– A quanto mi risulta, Berntsen, quel russo era uno spacciatore che ha cercato di liquidarmi. Ma se pensi di avere piú possibilità di lui, accomodati pure. Non sarebbe la prima volta che pesti un poliziotto.
– Eh?
– Insieme a Bellman. Era un gay, giusto?
Harry udí interrompersi di colpo lo zampillo che Berntsen era finalmente riuscito a emettere.
– Hai ripreso a bere, Hole?
– Mhm, – rispose lui riabbottonandosi. – A quanto pare va di moda...