disteso sul lettino dell’agopuntore
con otto sottili steli metallici
conficcati lungo i meridiani del corpo
ascolto, tra veglia e torpore,
l’andirivieni serale del traffico.
Forse è Genova, forse Berlino.
Probabilmente Fasanenstrasse.
Il vario clamore intorno sfuma,
via via perde vigore,
s’attenua in tonalità basse.
Diventa, nell’eco dell’acufene,
un unico suono
azzurro acciaio, circolare,
in cui si mescola
un sussurro lontano.
Misero, farsesco sansebastiano
sento vibrare da sotto il selciato,
dalle fessure del lastricato
rotto dei marciapiedi,
fango e calcare
radici in crescita
gusci di conchiglie
serpenti ossa
lenti rodii nei cunicoli
microscopiche piante
– forse figure di lettere sante
a volte vi rivedo tutti quanti in cucina.
Mi mostrate quello che di nuovo e strano
avete fatto in casa durante la mia assenza:
la tappezzeria a fiorami sul soffitto
i gerani rossi alle finestre
un merlo canterino sul trespolo in salotto.
Poi usciamo a passeggiare sul monte:
la luce è forte e netta.
Quasi accecante. C’è silenzio.
Stanco mi sdraio sotto un pino:
mi addormento nel sogno
in una Lavagna semideserta
avvolta di pioggia corpuscolare
in sospensione nell’aria
e tutt’attorno sulle colline
di nebbia
abbiamo svolto egregiamente
un non secondario corollario d’amore:
vagando per luoghi diversi
(ospedale panetteria oratorio
della Madonna della Salute)
e sempre attenti l’uno dell’altro:
io del tuo piccolo guaio alla caviglia
tu della mia, fastidiosa, ansia di famiglia
non ala orma ombra nell’azzurro e verde.
Nel silenzio degli stagni e dei prati
il verde inazzurrandosi
indica il futuro.
Che sia nostro oppure no poco importa
l’accompagno per via Cianà dalla cognata
la novantenne Luisa
che spedita procede sui ciottoli
con l’aiuto del bastone.
Tra noi poche parole:
l’annata buona delle olive,
la cataratta, qualche ricetta,
i cinghiali che raspano nei campi.
Nessuna nostalgia.
La lascio per scendere tra gli alberi
alla casa dei tre fratelli S.
Solitari e soli,
quarant’anni fa,
di questa stagione,
mangiavano pane e fichi
seduti sui gradini d’ardesia della porta.
Lorenzo e Marco i loro nomi...
Del terzo ricordo solo il volto butterato,
le gambe anchilosate dalla Russia,
i pantaloni di panno a spina
e i compiti domestici affidatigli dagli altri:
cucina, lavatura e ago e filo per i rattoppi.
Non so perché
ma sono certo che lui, là dove si trova,
continua a rammendare, anche per me,
gli sbreghi sfilacciati della memoria
si respira aria da dormitorio
arrampicandosi tra le nuvole sulle montagne.
Ti incontro sul ciglio di un dirupo.
Nell’ombra crepuscolare del sogno
chiedo piú luce offrendoti l’abbraccio
e tu mi dài in cambio dieci lucciole
prigioniere nel cavo delle mani
s’assottiglia anno dopo anno
il numero delle vecchie alla messa.
Oggi solo quattro rispondono al prete
che zoppicando lento
s’affanna attorno all’altare.
C’è da pensare a un rito ormai inutile,
alla replica di uno strazio troppo privato
per non essere anche colpevole.
Quando il prete fa però i vostri nomi
rinnovandone pace e onore
sento aprirsi un passaggio,
un sentiero incerto
come gli esili ponti di legno
sui rombanti torrenti in montagna.
Capisco allora che siete voi
i veri officianti della cerimonia
pronti sempre ad insegnarmi
che qualcosa non è ancora svanito
anche se, nel tempo, tutto è finito
«per alcuni anni, tra liceo e università,
ho portato solo vestiti dei morti:
lo spolverino double face
(impermeabile da un lato
soprabito di tweed dall’altro)
dello zio ansaldino,
una giacca marrone da cacciatore
con le tasche laterali per la selvaggina
rimaste sempre vuote,
le camicie senza colletto
(ma solo per la casa)
di un altro zio,
per tutta la vita contadino.
Anche i fazzoletti erano non miei
ma – cifrati e.m. – di un cugino ricco
mancato improvvisamente.
E poi pantaloni di varia gente
ma tutti riaggiustati con la singer
e rimessi da lei anche se per ...