I conti con l'oste
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I conti con l'oste

Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti

  1. 160 pagine
  2. Italian
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I conti con l'oste

Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti

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I conti con l'oste è un libro unico, e come tutti i libri unici contiene tante cose: è il racconto delle cucine e di chi ci lavora dentro. Uno spaccato, senza peli sulla lingua, di un ambiente nascosto al pubblico e dei suoi segreti. È l'inaspettata autobiografia di una nazione. Ma è anche il romanzo di formazione di un giovane uomo che scopre che per capire chi sei veramente, a volte, devi ritornare a casa.Ci sono esistenze che sembrano sempre danzare intorno a un «ma», intorno a svolte improvvise che ribaltano tutto. Ad esempio quella di Tommaso Melilli: era andato a Parigi per studiare letteratura ma qualche anno dopo si ritrova chef di un ristorante; credeva fosse un lavoro tranquillo ma poi viene travolto da ritmi forsennati e locali in fiamme; pensava di essersi lasciato tutto alle spalle ma alla fine capisce che solo se sai da dove vieni puoi capire chi sei. Decide allora di fare l'unica cosa che sente giusta: tornare in Italia e raccontarla da un punto di vista particolare, unico e imprevedibile. Quello della cucina delle trattorie e di chi ci lavora. I conti con l'oste è un viaggio nell'Italia di oggi e nelle sue contraddizioni, osservata dalle cucine delle sue nuove osterie. Sono luoghi segreti, spesso inaccessibili, che Tommaso Melilli ci racconta dall'interno. Cuoco e scrittore, Melilli ha girato il paese, visitando alcune delle osterie piú interessanti in circolazione: è entrato nelle cucine e vi ha lavorato qualche settimana, mescolandosi alla brigata, entrando in intimità con lo chef, inseguendo le materie prime, scoprendo le storie dei territori e i segreti dei piatti. Ne viene fuori un libro dirompente: è il racconto di un ambiente chiuso, sospeso tra il militare e il creativo, che però è anche un luogo di sperimentazione, scoperte, libertà.Gli chef che Melilli incontra si stagliano sulla pagina con la profondità di personaggi letterari, la ricchezza di storie personali che si intrecciano fa de I conti con l'oste un'inaspettata autobiografia di una nazione. Ma soprattutto Melilli rende tutto ciò avvincente come un grande romanzo di formazione: il suo sguardo inquieto e il suo gusto per la narrazione fanno sí che, come in un libro di Joan Didion o di Anthony Bourdain, il pezzo di mondo di cui scrive si allarghi fino a contenerci tutti. Le osterie sono luoghi di memoria e racconto, esperienza e avventura. A lungo dimenticate, a scapito di stellati e cooking shows, oggi sono il posto dove accadono le cose. E dove può capitare di scoprire chi siamo destinati a essere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433201

Come una volta che era adesso

Poche settimane fa ho ricevuto la mia prima carta di credito capace di effettuare delle transazioni senza doverla inserire fisicamente nella macchinetta. Avevo vissuto l’arrivo di questa nuova piccola tecnologia dalla finestrella della mia cucina, nel bistrot di Parigi, e mi ero rapidamente abituato a sentire la voce del mio collega ripetere una cinquantina di volte al giorno, meccanicamente, la stessa frase: Puis-je essayer le sans contact? Io non ce l’avevo, e le rare volte in cui quella domanda veniva posta a me, perché chi gestiva la transazione non aveva avuto la prontezza di spirito di osservare la mia carta troppo vecchia, era sempre deludente un po’ per tutti. La mia prima volta, quindi, è stato a Roma, una sera che si era finito presto ed ero rimasto fuori, da solo, a bere una birra guardando in silenzio una basilica che non ricordo come si chiama.
– Che posso appoggià?
– Oh sí, la prego, appoggi pure.
Del viaggio in treno da Roma a Milano non ricordo assolutamente nulla, perché era troppo presto e la sera prima, come si è detto, era davvero tardi. Ricordo invece l’affanno con cui ho percorso le gallerie e i sotterranei della stazione Centrale, trascinando le mie troppe valigie, impacchettate male e piene di libri, coltelli e delle pietre giapponesi per affilarli, da cui non mi separo mai ma che sono grottescamente pesanti. Ricordo di essermi avviato, con tutti i miei pesi al seguito, direttamente verso i tornelli di vetro scorrevoli della metro, dimenticando, come sempre, che ovviamente non ho il biglietto. Preso dallo sconforto, lí nel mezzo della terra di nessuno, attraversato da ogni parte dalle direzioni di chi sa dove va, mi apprestavo a dirottare i miei effetti personali con i soliti calci svogliati, facendoli strisciare sul pavimento, per mettermi in coda alla biglietteria automatica borbottando fra me e me qualche teoria sulle macchine che non funzionano e sul tipo di persone che non sanno, e forse non sapranno mai, usare le macchine.
Sennonché, sul punto di dare il primo calcio al borsone, e con lo sguardo anelante ancora rivolto verso i tornelli, mi è sembrato di riconoscere, sulla destra di alcuni, ma non di tutti, delle piccole scatole nere sporgenti. Delle scatole che, da quella distanza, sembravano quasi dei filatteri, gli astucci di cuoio contenenti la preghiera del mattino che talvolta indossano gli ebrei praticanti sulla fronte. E, vedendo quelle scatole, che veramente erano appena intuibili al mio occhio miope, ricordo di essermi avvicinato speranzoso pensando forte «stai a vedere che…»
Ho estratto la carta, ho appoggiato, e – con ancor piú stupore – ha funzionato. Non ero pronto a una Milano cosí, non ci credevo; non tanto trovare una buona idea, quelle capitano spesso, ma una buona idea che – una volta messa in pratica – funziona. Confesso di essermi un po’ emozionato, e di aver pensato che mi aspettavano giorni grandiosi. Sono pronto alla città in cui la metà di chi incontri conosce tutte le persone davvero importanti, mentre l’altra metà ha sentito parlare anche di persone importanti che non esistono.
È anche la città dove hanno studiato la metà dei miei compagni di liceo, e dove proprio per questo non avevo nessuna intenzione di andare. Mi sembrava una scelta banale, per nulla esotica e avventurosa; la ritenevo, pur senza saperne assolutamente nulla, una città anche un po’ prevedibile. Se sono andato a Parigi, in buona parte, è perché era lontana, e Milano non era lontana abbastanza.
Avevo deciso di non viverci mai, e infatti non ci ho mai passato piú di tre giorni di fila. Ogni volta che ci sono stato, però, in questi dieci anni, il cuoco che è in me cercava di annusare l’aria. Mi vanto di possedere un certo istinto per queste cose: dal punto di vista gastronomico, mi è sempre sembrata una città molto insipida, troppo impegnata per preoccuparsi di mangiare. Una città troppo ansiosa di apparire una vera grande città, tutta presa a ricordare la sua differenza al resto del paese che la circonda, e quindi fatalmente incapace del supremo menefreghismo che caratterizza le vere grandi città.
Nella storia recente dell’alta cucina degli ultimi vent’anni c’è stata Parigi, che ha inventato un nuovo modo frugale ed elegante di mangiare bene; c’è stata Copenaghen, che ha insegnato a tutti i cuochi del mondo che intorno a te c’è sempre qualcosa di buono da raccogliere; e poi c’è Milano, che si è ingozzata di sushi per vent’anni. Non si sa bene perché, «il miglior ristorante indiano di tutta Milano» era sempre sotto casa dell’amico che mi ospitava, anche se gli amici che mi ospitavano erano tanti e abitavano in tanti quartieri diversi. E l’indiano sotto casa loro faceva schifo. Continuavo a vedere decine e decine di trattorie toscane gestite da famiglie palesemente bergamasche o calabresi; e io mi annoiavo moltissimo.
Poi, all’inizio dell’estate del 2015, ho visto la foto di un piatto servito in un ristorante milanese di cui non avevo mai sentito parlare, e vedendo quell’immagine ho provato la stessa sensazione che si prova quando hai infilato il coltello in un’ostrica nel punto giusto, e quando ruoti finalmente lei si apre, e fa tac.
Ho cominciato a dire a tutti i miei amici milanesi che dovevano andare a cena in quel nuovo ristorante, che rivendicava però di essere una trattoria, e si chiamava Trippa, e che già si favoleggiava essere pieno tutte le sere. Quel piatto, che non avevo mai mangiato ma avevo soltanto visto in fotografia, era un vitello tonnato. Sei mesi dopo, era diventato una delle cose di cui si doveva parlare per forza.
I vitelli tonnati di una volta, oltre a essere grigi e secchi, erano quasi sempre coperti da una colata di stucco spalmata con la cazzuola. A me piacevano, come mi piace tuttora quello che fanno mia madre e mia nonna, ma il modo in cui è fatto non va d’accordo con le cose che ho imparato e che faccio, e non ne posso piú di servirlo cosí. Il vitello tonnato di Trippa, invece, è arrostito in padella e poi cotto a bassa temperatura per 10 ore, quindi è rosé e tenerissimo; la salsa tonnata è una maionese montata al sifone, come una crema chantilly, quindi è leggera e spumosa. Poi ci sono i capperi, l’olio, il sale, e il pepe. Non un singolo ingrediente transige dal rigido canone famigliare del vitello tonnato: nulla di esotico, nulla di eretico. Non è un vitello tonnato rivisitato. Poi lo guardi: ed è una rosa, le fette di carne sembrano essere casualmente arrotolate su se stesse, ciascuna in modo diverso, voluttuose e tenerissime. Chi si trova davanti il vitello tonnato di Trippa, vede un grosso fiore di carne e maionese con dei capperi al posto del polline. Ed è come rivedere dopo tanti anni un compagno di liceo che ricordavamo un po’ sfigato, brufoloso e timido, e trovarlo finalmente con la schiena dritta, la barba curata, e capire subito che ora è felice e ha trovato la sua strada nella vita. Non te lo saresti mai immaginato cosí, ma non c’è dubbio: è lui.
Da Trippa cucina una brigata di sei cuochi: il primo si chiama Diego Rossi. Per qualche giorno, l’ultimo di loro sarò io.
Diego Rossi è una di quelle persone che ti fanno venire fame solo a guardarle. È come si muove, come gesticola. Quando arrivo sta arrostendo una coda di manzo, che farà alla vaccinara, e trovo che sia molto bello perché questa stessa mattina ero a Roma, e cominciare la mia tappa milanese con una ricetta romana mi rassicura sui piccoli e grandi dettagli imponderabili che governano le nostre vite. Oggi ho deciso di guardare e basta, pur stando in cucina, perché – cosí ho detto – voglio capire bene i meccanismi, chi fa cosa e dove, in modo da potermi integrare meglio domani. La realtà è che arrivando mi sono reso conto che sono tutti vestiti da cuochi per davvero, con le calotte per coprire i capelli e le giacche bianche e pulite. Io non ho la calotta per i capelli, e a Roma mettevo una bandana con i fiorellini, a cui tengo molto, perché me l’ha regalata una mia stagista di ritorno da un viaggio in Giappone. La bandana qui sarebbe fuori luogo, di lavorare coi capelli al vento non se ne parla, e comunque l’unica giacca bianca che ho l’ho inzaccherata di sugo con la pajata l’altro giorno e mi sono dimenticato di lavarla.
Quindi sto lí, giro intorno allo chef, ogni tanto gli passo uno spicchio d’aglio o la grattugia, ma soprattutto guardo quello che fa e ascolto quello che dice. Mancano due settimane a Natale, quindi Diego ha monopolizzato la musica e sta dando libero sfogo a uno dei suoi guilty pleasures, cioè le canzoni natalizie; ogni volta che si allontana un po’ gli altri cercano di trovare pace da questa serie infinita di merry Christmas e feliz Navidad ma non c’è scampo, perché ogni volta che si riavvicina le rimette. La cucina di Trippa è molto rodata, tutti sanno quello che devono fare e lo fanno, preparando le basi per paste, risotti, contorni e cosí via. Diego dirige tutto dalla sua postazione, e sembra sapere in ogni momento cosa sta succedendo in tutte le altre. Ci sono però alcune cose che può fare solo lui, e che prepara lui dall’inizio alla fine. Una di queste è il vitello tonnato, sul quale vige una regola che a volte fa anche un po’ arrabbiare i clienti: il vitello tonnato lo fa solo lui, e se lui per qualche motivo non è in cucina quel giorno, perché è in Turchia per un festival o perché è il suo compleanno, il vitello tonnato non c’è. L’altra cosa di cui si occupa sempre personalmente sono i piatti fuori carta, che sono quasi sempre a base di frattaglie e interiora.
In un animale che si prevede di mangiare, c’è un po’ di tutto: ci sono dei pezzetti pronti a essere mangiati, e che sono addirittura buoni crudi, tali e quali. In compenso, in qualunque animale ci sono moltissimi altri pezzetti che non sono pronti a essere mangiati, e altri considerati quasi unanimemente non commestibili. Secondo la tradizione e la lingua segreta dei macellai, la maggior parte dei quadrupedi si divide in quarti: a ogni quarto corrisponde una zampa o un’ala, due davanti e due dietro.
Ma i macellai, quelli veri, sanno perfettamente che esiste anche un quinto quarto, che raggruppa tutti gli altri pezzetti. Una tradizione secolare basata sul fatto che alcune persone sono piú importanti di altre destina all’aristocrazia e ai piú ricchi le parti «nobili» dell’animale, quindi quelle piú facili da cucinare, e tutto il resto ai ceti piú bassi. Il contadino, dopo aver ucciso la bestia, teneva per sé il quinto quarto e consegnava al padrone i primi quattro. I pezzi che teneva per sé erano brutti, strani, a volte puzzavano di stalla, di piscio o di merda: sono pezzi di cui ci si deve occupare un po’ di piú, che richiedono piú cura, piú esperienza, bisogna conoscerli, studiarli e lavorarli. Sono anche pezzetti piú fragili, quelli che piú rapidamente si guastano. Tutte le piú grandi tradizioni gastronomiche sono ricche di piatti e ricette basati su questi pezzetti di animale, forse perché i poveri sono sempre stati molti di piú dei ricchi. Poi l’industria alimentare ha inventato gli allevamenti intensivi, e ci ha raccontato che tutti potevamo mangiare tutti i giorni tutto quello che, una volta, mangiavano solo i ricchi.
Ne risulta che piú della metà delle persone che conosco si farebbero tagliare un dito piuttosto che mangiare della trippa. Io la mangio, perché sono cresciuto in una delle tante famiglie con le nonne che cucinavano e che cucinano ancora, e che sentivano la necessità di ripetere quei rituali e quelle consistenze contadine, per ricordarsi di cosa eravamo. Ma, soprattutto, perché le frattaglie sono buone.
Il punto però non è che siano buone o no. Quando mangiamo, non mangiamo sapori, gusti, textures e consistenze: nella maggior parte dei casi mangiamo l’idea di quello che c’è nel piatto, mangiamo i simboli che la nostra cultura e la nostra educazione ci hanno trasmesso, attraverso quel piatto e quel pezzettino di animale o di vegetale. E, nello specifico, le frattaglie sono state inconsciamente iscritte – per molti di noi – nella lista delle cose del nostro mondo che ci sembrano vecchie, ignoranti, stupide o incomprensibili, come le campagne anonime, gli stranieri, le periferie, e le verdure storte.
Una delle cose che invidio di piú a Diego, oltre al talento gastronomico, è la sua collezione di camicie colorate: invidiabilissima, va dalla flanella a quadretti country chic fino a quelle di Mago Merlino quando va a Honolulu. All’epoca in cui aveva la mia età, cioè soltanto cinque anni fa, era già una brillante promessa dell’alta ristorazione italiana. Dopo aver fatto la gavetta in qualche cucina giusta, riceve la chiamata da un altro cuoco giovanissimo, che Diego conosce bene, e che si chiama Juri Chiotti. Avevano lavorato insieme in Alto Adige, nelle cucine di Norbert Niederkofler, quando ancora a Juri non cresceva la barba e i capelli di Diego erano folti e ribelli come un bulbo di scarola. Il suo amico Juri è appena diventato chef di un ristorante a Cuneo, Delle Antiche Contrade, e chiede a Diego se ha voglia di raggiungerlo. Diego lo raggiunge, e sono talmente giovani e talmente amici che decidono quasi subito che le gerarchie a loro non interessano, proveranno a essere entrambi chef. (Non è una cosa che succede spesso, in un mondo militarizzato come quello dell’alta cucina: io ci ho provato, una volta, a condividere la mia posizione di comando con una mia collega, e credo che se avesse potuto, alla fine, mi avrebbe tagliato la gola). Del resto, sul tipo di cucina che vogliono fare non hanno dubbi: una cucina povera, fatta con erbe selvatiche che vanno a raccogliere loro stessi in campagna e nelle valli circostanti. A nessuno dei due interessa cucinare il filetto di manzo e il fois gras, anzi entrambi sono molto curiosi di esplorare, diciamo cosí, gli angoli piú nascosti degli animali. Le Antiche Contrade ottengono una stella Michelin. E nelle alte e inaccessibili torri della cucina italiana, coloro che guardano il cielo cominciano a sussurrare sempre piú spesso di questi due ragazzi.
In realtà, uno dei loro piatti è esattamente il contrario di un sussurro. Molto presto, Diego e Juri inseriscono nel menu un piatto chiamato, semplicemente, «pane e frattaglie»: il pane gioca ogni volta un ruolo diverso (può essere un crostino, oppure può servire ad ammorbidire una polpetta, o ancora per legare una salsa); le frattaglie utilizzate dipendono da ciò che è disponibile quel giorno. Ed è sullo schema di quel piatto che decidono di spararla grossa: sono invitati a un festival dove si incontrerà il gratin dei grandi chef italiani, e dove loro due, forse, sanno già che faranno un po’ fatica a rispondere alle domande dei giornalisti, perché – di questi tempi – una volta che ti sei fatto i calli sulle mani devi cominciare a farteli sulla lingua. Ma la loro idea, diciamo cosí, parla da sola: sullo schema di quel pane e frattaglie, presentano un pane accompagnato da una dadolata di matrice di vacca.
Nome del piatto?
Pane e figa.
Era bollita, col limone.
Non dovevano dire altro. Il piccolo macellaio di Boves da cui si riforniscono per le carni bovine, Marco Martini, nel giro di un paio d’anni diventa uno dei macellai-star italiani, e quelli che guardano il cielo cominciano a chiedersi quale sarà la prossima tappa di questi due.
Le strade di Juri e Diego, però, si separano, e lasciano entrambi le Antiche Contrade. A Juri mancano le sue montagne, e quindi va a gestire un rifugio lassú. Diego, nel frattempo, aveva conosciuto un manager di una compagnia petrolifera molto appassionato di vino e cucina, e decidono di aprire qualcosa insieme, a Milano. Quel giovane manager si chiama Pietro Caroli, ed è l’altra metà di Trippa.
– Ho aperto una trattoria perché non sapevo dove andare a mangiare. E io avevo voglia di mangiare frattaglie, tagli di carne diversi dalla costata e dal filetto, – mi dice Diego mentre frigge delle lingue di baccalà, che poi affogherà in una marinatura di aceto, vino e cipolle, seguendo lo schema delle sarde in saór veneziane. Mi fa assaggiare una lingua di baccalà calda, e ne assaggia una anche lui: è interessante, dico io, anche se trovo la consistenza piuttosto gommosa, però sono contento di averla assaggiata. Quella consistenza per Diego è una meraviglia, cosí come le uova di seppia, i garusoli, che sono delle lumache di mare con la conchiglia piena di spuntoni, e le morette, delle salsicce tipiche veronesi fatte con sangue e fegato di maiale, che a Diego ricordano tanto l’infanzia.
– Abbiamo deciso di chiamarci Trippa ovviamente, be’, per la trippa, che c’è sempre in carta, perché di tutte le frattaglie è quella piú sana e soprattutto piú abbondante, e quindi secondo me è giusto che si mangi spesso. Ma anche perché, in italiano, la trippa è sinonimo di sostanza, di golosità… sai, non c’è trippa per gatti.
Oh, ma certo, ho capito: tu pensi che tutto questo non abbia niente a che vedere c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I conti con l’oste
  4. Ligue des Champignons
  5. Risolvere delle cose
  6. La precisione e la pastorizia
  7. Zingaro
  8. La crepa nella terra
  9. La tovaglia di plastica
  10. Il callo del guanciale
  11. Carbonara confidential
  12. Come una volta che era adesso
  13. Sapore di frigo
  14. Quella solitudine lí
  15. I pugni sul tavolo
  16. Il vino della casa
  17. Impiattare col mestolo
  18. Non è un paese per salse
  19. Fammi una frittata
  20. Ringraziamenti
  21. Nota bibliografica
  22. Copyright